I recenti studi condotti dal Centro anti-terrorismo delle Nazioni Unite hanno evidenziato che i foreign fighters accorsi in Siria e Iraq per la Jihad, provengono per lo più da contesti di emarginazione sociale e non sarebbero spinti da alcuna motivazione ideologica.
L’identikit stilato in base alle informazioni in possesso del Centro evidenzia che il tipico foreign fighter è un maschio giovane, privo di un buon livello d’istruzione e di un lavoro decoroso, senza una specifica collocazione nella società in cui vive, frequentatore dei social network e reclutato da personaggi che non appartengono necessariamente a gruppi armati, ma ne sono fiancheggiatori esterni o, quantomeno, simpatizzanti.
La metà circa dei soggetti esaminati ha affermato che la decisione di recarsi in Siria sia stata ritenuta ”un obbligo per difendere con la forza i musulmani sunniti dall’aggressione del governo siriano e dai suoi alleati”.
Le stime fornite dall’Onu nel marzo 2015 quantificavano i foreign fighters in Siria e Iraq in circa 25mila provenienti da oltre 100 Paesi. Gli intervistati hanno ”sostenuto di non essere andati in Siria con l’intenzione di diventare un terrorista, né sono tornati in patria con quell’obiettivo”, mentre gli autori dello studio hanno sottolineato il ”potere dell’influenza” delle famiglie sui foreign fighters che, successivamente all’Hijra (migrazione verso il territorio dell’Islam), hanno deciso di lasciare la Siria per tornare alle proprie case, colmi di sentimenti di ”delusione” e ”disillusione”.
Quasi in contrapposizione allo studio dell’Onu, l’ultima relazione sul terrorismo del Centro Internazionale per il Terrorismo dell’Aia, datato 26 luglio, ha rivelato che, da qualche tempo, la struttura dei gruppi terroristici aveva subito un nitido processo di “decentramento” attraverso il fenomeno dei “lone wolves”.
Il rapporto, intitolato “La paura del tuo prossimo: radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente” ha analizzato tutti gli attacchi terroristici condotti tra Stati Uniti ed Europa tra il luglio 2014 e il giugno 2017.
Il paese con il maggior numero di attacchi è stato la Francia con 17 attacchi, seguiti dagli Stati Uniti con 16, la Germania con sei, il Regno Unito con quattro, il Belgio e il Canada con tre e la Danimarca e la Svezia con un attacco ciascuno.
Il numero dei morti è di 395 in totale con 1.549 feriti e la Francia è di gran lunga il paese con il maggior numero di vittime con 239 morti negli attacchi, seguiti dagli Stati Uniti con 76 e 12 in Germania.
La relazione rileva che 56 autori delle azioni terroristiche erano cittadini del paese in cui hanno commesso l’attacco, con una percentuale complessiva del 73 per cento.
Risulta che il 42 per cento degli attentatori manifestava una chiara connessione operativa con uno specifico gruppo terroristico, nella maggior parte dei casi, il 63 per cento, l’Isis al quale i soggetti avevano giurato fedeltà.
Nella dottrina dell’antiterrorismo si evidenzia come la sopravvivenza delle organizzazioni terroristiche, è legata a diversi ed essenziali fattori: continuità dell’azione di propaganda attraverso il web e i mass media, “reclutamento dal basso” indirizzato alle fasce più deboli dei giovani, continuità degli attacchi anche se condotti con un basso grado d’intensità.
A sostegno della politica di continuità negli attacchi, un team dello Stato Islamico ha pubblicato un e-book per “apprendisti terroristi” che mira a moltiplicare gli attacchi contro obiettivi civili in Europa e negli Stati Uniti.
Il “Lone Wolf’s Handbook”, pubblicato sulla piattaforma Telegram
Fornisce semplici e dettagliate istruzioni per l’incendio di veicoli, la propagazione d’incendi boschivi e l’abbattimento di edifici con esplosivi.
Un capitolo è dedicato a “provocare incidenti stradali” ed è teso a illustrare il sabotaggio di autoveicoli, lo spargimento di materiale oleoso sulle carreggiate, la foratura di pneumatici, ai quali seguirebbero i tamponamenti tra veicoli dovuti agli incidenti provocati.
Il terzo capitolo fornisce dettagliate istruzioni su come provocare incendi nelle aree boschive con esplosivi e napalm, ovviamente prediligendo le foreste vicino ai centri abitati. Il successivo quarto capitolo è intitolato “l’ultimo tosaerba umano” e suggerisce l’utilizzo di “veicoli per uccidere”. Qui la folle fantasia dei miliziani addetti alla propaganda ha raggiunto l’apice. Gli operativi vengono, infatti, istruiti su come saldare lame metalliche simili a coltelli sui paraurti e sui fari di camion per aumentare gli effetti letali e il numero di vittime a seguito degli investimenti. Gli aggressori “sono invitati a scegliere i luoghi più affollati e guidare il più velocemente possibile per cagionare il maggior danno”.
Il quinto capitolo riguarda la demolizione degli edifici. Il manuale descrive il modo più semplice per eseguire tali attacchi con l’utilizzo dei serbatoi di gas o di propano o utilizzando le tubature di gas per provocare esplosioni.
Agli attentatori viene raccomandata cautela nel comprare troppi serbatoi di propano contemporaneamente per non destare l’attenzione dei responsabili delle vendite. Il capitolo successivo è intitolato “Ricette dei cuochi: cucina divertente”, che insegna a “fare una bomba nella cucina di tua madre”. Una “bomba casalinga” è ritenuta uno dei metodi migliori per eseguire attacchi in Occidente perché gli ingredienti sono nella quotidiana disponibilità di chiunque e possono essere reperiti con facilità. Non ci soffermiamo oltre sulle istruzioni di confezionamento degli ordigni per ragioni che ci appaiono ovvie, così valga per il settimo e ottavo capitolo dedicato alla preparazione di ordigni letali confezionati secondo i dettami di tale “Dott. Khateer” asseritamente membro di Al Qaeda in Afghanistan.
Gli ultimi due capitoli sono dedicati all’uso di armi portatili, prediligendo i Kalashnikov AK47 e le pistole Makarov.
Il quadro evidenziato suggerisce, in maniera sconfortante, che il pericolo derivante dalle ideologie islamiste sia ben lungi dall’essere stato scongiurato. La sconfitta militare del Daesh, così come quella di Al Qaeda, non devono essere recepite come una vittoria totalizzante, anzi, l’aver colpito i vertici “visibili” delle due organizzazioni ha condotto a una loro pericolosa frammentazione i cui risultati sono percepibili dal quotidiano stillicidio di efferate violenze compiute “in nome di Dio”.
Come ti recluto un terrorista: le quattro fasi per creare un mostro
In questi mesi i quotidiani, i magazine, e soprattutto i numerosi website occidentali, riportano copiose disquisizioni analitiche sul reclutamento dei terroristi che colpiscono con cadenza quasi quotidiana soprattutto in Medio Oriente e in Europa che, pur non discostandosi troppo dalla realtà, presentano evidenti lacune.
Ciò che manca principalmente è l’aderenza al vissuto
Quanti sedicenti analisti (o pseudo tali) hanno effettivamente assistito personalmente a una Khutba, un sermone, recitato in una moschea clandestina, quanti hanno colloquiato con un adepto indottrinato da imam radicali, e quanti conoscono il sottile filo rosso che lega il movimento internazionale, dichiaratamente pacifico, dei Tabligh Eddawa con le reti del terrore islamista?
Intendiamo fornire un modesto contributo nel tentativo di colmare questa lacuna con una breve dissertazione sul percorso di radicalizzazione messo a punto circa due decenni or sono, ma sempre attuale, da un ristretto gruppo di autoproclamati imam sotto l’egida di Gulbuddīn Hekmatyār, leader del partito politico-militare afghano Hezb i – Islamyy e mentore di numerosi islamisti tra i quali Oussama bin Laden, Recep Tayyip Erdoğan e Rashid Ghannushi leader del partito tunisino Ennahda.
L’iter formativo individua quattro fasi fondamentali che debbono necessariamente essere compiute dall’imam nei confronti dei soggetti da rendere “operativi” al servizio della jihad: individuazione – incanalamento – istruzione – induzione.
E’ un fatto conclamato che nelle centinaia di moschee semi-clandestine mascherate da centri di cultura islamica gli imam ricoprano un ruolo focale per le comunità di immigrati musulmani che si riversano non solo all’interno dei locali, ma anche, e soprattutto, nelle loro immediate vicinanze.
Le figure quasi ascetiche di questi individui seppur privi di qualsiasi nomina ufficiale, si pongono al di sopra degli altri fedeli per la perfetta conoscenza del Corano, della Sunna e degli Hadith. Proprio sulla base della loro cultura religiosa si ritengono in grado di emanare sentenze (fatawas) che possono andare dalle necessità personali del singolo “fedele” alle questioni più generali relative alla comunità islamica.
Il potenziale di questi imam auto-proclamati è enorme e non si può certo negare che queste figure carismatiche esercitino un ruolo fondamentale anche nei rapporti con le istituzioni occidentali, mascherandosi da portatori di pacifica convivenza.
Ma ciò che inquieta non è certo il tenore dei loro sermoni, ovviamente di basso profilo, recitati durante le preghiere comunitarie, ma la loro capacità di individuare i soggetti idonei a percorrere un sentiero diverso.
Tra le masse di immigrati in Europa, la fetta più consistente riguarda la fascia di età tra i 20 e i 40 anni, tutti rigorosamente maschi e in cerca di un’occupazione più o meno stabile in Occidente.
Tra questi la percentuale di musulmani osservanti è veramente minima, si parla di un 15-20% di frequentatori regolari di una moschea, mentre la quasi totalità cerca di socializzare con altri membri della comunità islamica unicamente per ragioni linguistiche e vicinanza culturale. Ovviamente il luogo simbolo per gli incontri è rappresentato dalla moschea più vicina o da quella più frequentata.
Proprio qui entrano in gioco gli imam ai quali i collaboratori avvicinano i giovani bisognosi di un mero aiuto economico (che viene elargito sotto forma di Zakat, l’elemosina) o più semplicemente di un consiglio, fornito sulla base di esegesi coraniche plasmate ad hoc o, più semplicemente frutto di una rigida osservanza dell’Islam originario.
Valutato il soggetto, l’imam lo invita a una più stretta osservanza delle regole islamiche e a una più assidua frequentazione della moschea, invito che il giovane raccoglie ben sapendo che in fondo il tutto può risolversi con l’elargizione di altra elemosina.
Nella seconda fase, quella dell’incanalamento, l’imam mette a frutto la sua conoscenza dell’animo umano e, soprattutto, della volontà di rivincita delle masse di immigrati nei confronti “dell’Occidente oppressore”, invitando i giovani prescelti a una più profonda conoscenza dell’Islam votata a una loro crescita culturale in previsione di una società futura fondata unicamente sulla Sha’aria.
Non saranno certo le letture dei libri sacri che indottrineranno i giovani prescelti verso la loro crescita “culturale”, ma i discorsi dell’imam, votati al progetto che Allah ha preparato per loro e trasmesso per tramite del profeta Muhammad, un futuro roseo di devoti musulmani ormai istruiti che sono tenuti necessariamente a trasmettere agli infedeli il loro Credo. Il giovane si sente, a questo punto, ricoperto di un incarico che lo eleva a un rango superiore, quello del messaggero divino e, ancora più, membro di un gruppo ben definito.
Può così riassumersi, in estrema sintesi, l’istruzione che i baby-mujaheddin ricevono prima del passo successivo: l’induzione.
Nel Corano e negli Hadith non si trova alcuna traccia relativa all’utilizzo di quelli che noi occidentali chiamiamo impropriamente “kamikaze”. Gli shuhada, i martiri, durante l’epoca d’oro dell’Islam, erano individuati tra coloro i quali sceglievano consapevolmente la via della trasmissione del messaggio del Profeta Muhammad anche a costo della vita, con l’esclusione assoluta di azioni suicide. Erano martiri i predicatori, gli imam, i semplici commercianti musulmani che tentavano di convertire i loro clienti. Lo erano anche i mujaheddin che nei confronti dei prigionieri di guerra avevano l’obbligo di tentare la strada di una loro conversione all’Islam, dovendosi attenere comunque alle parole del Profeta secondo le quali “Non vi è alcun obbligo nella conversione”.
Appare chiaro che questi semplici riferimenti al Corano siano ben lungi dall’essere parte dei programmi pseudo-educativi degli imam radicali, anzi.
Il ruolo di plasmatori del pensiero dei giovani adepti svolto da questa sorta di santoni dell’Islam è fondamentale per i passi successivi che i prescelti dovranno affrontare in un futuro assai vicino.
Negli incontri successivi l’imam-istruttore parlerà ai giovani della necessità impellente di creare spazi alla comunità islamica in Occidente a discapito dei miscredenti, anche perché “le terre un tempo appartenute all’Islam devono essere riconquistate”. Per farlo occorre dimostrare sul campo di battaglia di essere superiori al nemico, anche al costo di vittime innocenti (donne, bambini e anziani) che saranno ritenuti effetti collaterali e comunque, siccome assolutamente escluse dal Profeta, saranno perdonate con Fatawas (sentenze) emanate nei confronti dei responsabili, in base a quella che l’ideologo islamista egiziano Sayyed Qutb chiamava Fiqh al Darura, la giurisprudenza della necessità.
L’imam conosce bene la società occidentale ed è conscio che per poterla islamizzare occorre agire con ponderazione e, soprattutto, con astuzia. Il giovane che viene plasmato secondo il volere del predicatore, sarà ansioso di mostrare il suo cambiamento anche agli occhi dei confratelli, ma ciò non è utile per la causa, occorre invece infondere nell’adepto l’arte della dissimulazione (Taqyyia) che lo renderà più consono a svolgere il ruolo che gli sarà assegnato.
La conoscenza della Taqyyia offre a ogni mujahed la possibilità di infiltrarsi, con piena legittimità, nei territori degli apostati o miscredenti con il distacco dall’aspetto esteriore come primo passo verso l’approccio con la società che s’intende infiltrare. Il militante renderà il suo aspetto e i suoi atteggiamenti dissimili da quelli che caratterizzano i musulmani praticanti, almeno per quegli indicatori che noi occidentali crediamo fondamentali, quali la barba incolta alla maniera del Profeta, simbolo dell’essere arabo considerato sacro, i pantaloni non aderenti al terreno, ritenuti impuro per il musulmano osservante, le tuniche e i copricapo, sino ad arrivare al callo frontale (goza) sfoggiato dagli integralisti che attesta la loro completa dedizione alle orazioni quotidiane.
Gli aspetti pratici di quella che si può considerare come un’occidentalizzazione forzata del mujahed, prevede una sorta di esenzione dagli obblighi della Sha’aria, poiché finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo della Jihad.
In tale contesto il militante adotta comportamenti consoni alla realtà che lo circonda, non rinunciando alle bevande proibite, cibandosi anche di carni impure, eventualmente facendo uso di stupefacenti e accompagnandosi a donne, il tutto allo scopo di passare inosservato nel contesto sociale in cui si trova a operare e, ovviamente, nel solo interesse dell’Islam.
I grandi network del terrore non sono comunque nuovi a giovarsi del reclutamento di giovani musulmani con trascorsi di alcolismo o tossicodipendenza, oltre che della loro collocazione in aree geografiche d’interesse. Molto spesso durante il processo di radicalizzazione dei soggetti, si è rilevato che proprio quelli che hanno trascorso molto in anni in Occidente, ovvero vi siano nati, offrono molta meno resistenza nell’opporsi all’opera di indottrinamento da parte di autoproclamati imam e si rivelino armi micidiali proprio per la loro perfetta conoscenza di usi e costumi che l’islam radicale vieta e punisce.
I piani della prevedibile offensiva del Daesh
Non basta eliminare Al Baghdadi per annichilire il Daesh. Come già avvenuto nel caso di Al Qaeda, l’eliminazione di Oussama Bin Laden altro non ha fatto che riproporre il problema affrontando le conseguenze di una sua gemmazione cresciuta a dismisura.
Riconoscere nel Califfo un problema non significa confrontarsi unicamente con la sua figura ma con un’ideologia che si è profondamente radicata nelle menti di centinaia di migliaia di islamisti. Questi credono fermamente nella possibilità di una riproposizione del progetto della creazione di un Califfato universale che risponda alle necessità della Ummah, la comunità musulmana.
Nei piani degli strateghi dell’Isis la sconfitta militare che su tutti i fronti terrestri si sta palesando non è certo sfuggita alle previsioni, anzi, i piani per un’offensiva in piena regola sembrano siano pronti all’attuazione.
Le cellule di inghimasi
Mentre il fenomeno dello spontaneismo sembra essere, a oggi, quello più diffuso in assoluto, occorre non sottovalutare la presenza di operativi, facenti parte delle cellule di “inghimasi” (infiltrati) presenti soprattutto in Europa.
Quest’ultima tipologia di operativo è caratterizzata dalla sua capacità d’infiltrazione in territorio nemico sino al momento e luogo ritenuti opportuni per entrare in azione e provocare il maggior danno in termini di cose e persone. Il potenziale distruttivo degli inghimasi è enorme anche perché di rado questi soggetti operano in solitario, ma sono membri di cellule operative che, in maniera del tutto autonoma, selezionano gli obiettivi e scelgono il momento dell’azione.
Si ritiene che i maggiori attentati perpetrati in Europa nell’ultimo biennio siano stati compiuti proprio da questa tipologia di miliziani e le caratteristiche degli autori, al momento della loro identificazione, rispondevano a quelle del volontario addestrato dall’Isis, ritenuto idoneo al compito e inviato nel territorio da colpire.
A differenza delle azioni di martirio, operate con l’utilizzo di automezzi riempiti di esplosivo, l’inghimasi è l’operatore prediletto per le attività di livello superiore poiché ritenuto in grado di causare ancor più danno. Le operazioni condotte da questa tipologia di miliziani ottengono il massimo risalto sui social media, sui quali è possibile leggere vere e proprie attestazioni di ammirazione e preghiere per il martire.
Oltre alle operazioni in Occidente, l’Isis avrebbe elaborato un’ampissima strategia di riconquista basata su quella già percorsa dagli eserciti musulmani durante il periodo Omayyade, quella, per intenderci, che portò alla massima espansione dell’Islam. Analizzando gli eventi degli ultimi mesi, notiamo che, a fronte di un rovescio disastroso in Siria e Iraq, l’Isis ha creato nella penisola del Sinai, precisamente nella città di Al Arish, una roccaforte che da due anni resiste a qualsiasi attacco dell’esercito di Al Sisi e che funge da fulcro per i movimenti dei miliziani in fuga dai territori mediorientali, verso ovest, lungo la direttrice litoranea che dal Sinai porta in Libia. I movimenti dei mujaheddin si gioverebbero della protezione di gruppi alleati o affiliati al Daesh, come l’egiziano Ansar Bayt Al Maqdis nella penisola del Sinai e il Takfir wal Hijra, quest’ultimo operante nel nord dell’Egitto.
La strategia, seppur tacciabile di anacronismo, ha però fornito nuova linfa anche tra i ranghi dei miliziani più sfiduciati, proprio perché basata sull’attualizzazione delle antiche gesta dei mujaheddin. Così, i recenti e ripetuti attacchi contro le forze del generale Haftar in Libia, e i raid in Tunisia e Algeria, non devono essere sottovalutati poiché da ritenersi come parte integrante della strategia elaborata dal Daesh. Nell’ambito di quest’ultima, i diversivi hanno sempre costituito una parte fondamentale per distrarre cospicue forze “nemiche” dalla protezione di obiettivi più remunerativi sotto il profilo militare, ma anche per dare un segnale di continuità nelle azioni dell’organizzazione.
Non appare un caso che gli attacchi in nord Africa siano stati perpetrati pochi giorni dopo dall’attentato di Barcellona alle Ramblas, quasi a voler mostrare l’onnipresenza del Daesh che, anche giovandosi delle continue rivendicazioni di ogni singola azione, vede sempre più allargato il suo bacino di reclutamento verso soggetti difficilmente individuabili per le intelligence occidentali. Ma è proprio questo il target che ispira le menti pensanti dell’Isis: continuità delle azioni e dell’opera di reclutamento.
La riconosciuta capacità dello Stato islamico è stata quella di alterare il pre-esistente fenomeno dell’emulazionismo, affiancandolo a un utilizzo più oculato delle cellule preconfezionate e votate al martirio. Certamente un sintomo di un’iniziale carenza di volontari votati al suicidio, ma anche una scelta strategica responsabile che intende continuare a mantenere alta la tensione in Occidente con attacchi di basso profilo in attesa del momento propizio per riproporre attacchi su vasta scala.
Valutati i costi di nuclei preconfezionati dei mujaheddin, l’Isis ha scelto la via più economica, quella del soggettivismo in grado, comunque, di produrre negli occidentali la sensazione di un’occupazione, anche se momentanea, del proprio territorio da parte degli islamisti.
Per i musulmani più radicali ogni conquista, politica-territoriale-culturale, comunque ottenuta, diventa un simbolo dell’espansione dei confini dell’Islam che, oltre a portare a un incremento dei territori assoggettati, può giovarsi di nuova linfa per la propria economia e di popolazioni da poter indottrinare al credo musulmano nella sua accezione più ortodossa.