a cura di Valentino di Giacomo per Il Mattino
«Quando mi hanno arrestato al confine con la Bolivia mi è stata tesa una trappola da alcuni poliziotti e dal giudice della regione. Poco dopo, tre alti giudici del Tribunale Federale di San Paolo, hanno annullato la sentenza del giudice regionale e mi hanno garantito il diritto alla difesa restando in libertà. Loro stessi hanno criticato le accuse mosse da quel giudice». Si difende su tutta la linea Cesare Battisti ed è convinto di poter rimanere da uomo libero per il resto dei suoi giorni in Brasile. L’ex terrorista dei Pac (Proletari armati per il comunismo) è stato condannato a due ergastoli per aver commesso due omicidi e aver partecipato ad altri due. Tra gli assassinati c’era Pierluigi Torregiani e in questi giorni si è tenuto un duro botta e risposta tra il figlio del gioielliere ucciso a Milano nel 1979 e l’ex terrorista. Battisti sostiene che Alberto Torreggiani lo abbia perdonato attraverso delle lettere, ma questi ha smentito lo scambio epistolare. Abbiamo chiesto a Battisti tracce di queste comunicazioni, ma non ci sono state inviate.
Battisti, secondo fonti della polizia italiana lei voleva fuggire in Bolivia per farsi proteggere dal governo guidato da Evo Morales, noto leader comunista che avrebbe potuto aiutare la sua latitanza. Non è vero?
«Io non sono un rifugiato, sono passato allo status di immigrato da giugno del 2011. Un immigrato può uscire ed entrare dal Paese senza autorizzazione se rimane all’estero per meno di due anni. Non ho bisogno di fuggire perché ho la garanzia dello Stato brasiliano».
Questo però dipenderà dalla prossima sentenza della corte brasiliana o magari dal presidente Temer che potrebbe decidere per la sua estradizione in Italia.
«Per ora la sentenza della corte è stata rinviata perché l’habeas corpus è stato trasformato in un reclamo (reclamação secondo la giurisprudenza brasiliana n.d.r.). Questo è buono perché farà giustizia in modo definitivo».
Ha davvero così paura a tornare in Italia?
«A nessuno piacerebbe morire dopo settimane o mesi di tortura. Ovvio che ho paura».
In Italia la tortura non esiste. Ma non ha nostalgia del nostro Paese, non ci tornerebbe neppure da uomo libero?
«Ho nostalgia delle mie figlie, dei miei fratelli e sorelle, dei nipoti e di tutti gli amici e parenti, anche se molti di loro vengono ogni anno a trovarmi. Credo che continueranno a venirmi a trovare anche in futuro».
Che ricordi ha dell’Italia? Che tempi erano quelli delle sue condanne?
«Quelli erano gli anni del terrorismo fascista, delle grandi stragi. L’accusa di quegli omicidi è stata costruita. Tutti sanno che le sentenze sono state fatte in assenza di prove, senza testimoni e con indagini falsificate. L’unica base per l’accusa era la testimonianza di un collaboratore di giustizia. Poi sono andato via, sono stato l’unico scrittore rifugiato in Francia che scriveva e parlava alla tv francese denunciando sempre torture, sparizioni e massacri che avvenivano in Italia».
Eppure è fuggito. Si sente un vincitore per aver avuto la meglio in questi anni sulla giustizia italiana oppure un vinto per essere stato costretto ad una vita che forse non voleva?
«Non sono un vincitore né un vinto. Non credo che la vita vada vista come una guerra. Sono uno scrittore, una persona comune».
Tanti scrittori e intellettuali si sono espressi in suo favore. Tra questi il napoletano Erri De Luca che qualche tempo fa su Le Monde ha definito la vostra generazione la più incarcerata del secolo.
«Erri ha perfettamente ragione: in Italia la repressione degli anni ‘70 è stata maggiore che nel periodo fascista. Lentamente si stanno scrivendo molti libri dove si chiariscono questi fatti».
Come possono delle persone di cultura difendere la cultura della violenza? Secondo lei è giusto ammettere di rispondere a violenza con altra violenza?
«La violenza non fa parte della mia cultura, ma la reazione popolare è stata una risposta alla violenza di Stato, era questione di difendersi o morire. Ma è successo qualcosa che non avevamo pensato: che gli aggressori cercano sempre delle vittime. Se ci fossimo rifiutati di difenderci loro si sarebbero demoralizzati. La pace è sempre la soluzione, anche se ci costa la vita».
Pasolini vi definì «Generazione sfortunata». E lei come si sente dopo tutte le sue vicissitudini?
«Siamo stati sfortunati per aver subito la più grande persecuzione dell’Europa moderna, ma abbiamo vissuto anche momenti di allegria. Abbiamo creato movimenti culturali tanto progressisti, avanzati e creativi quanto quelli francesi».
Cosa dirà a suo figlio quando crescerà? Chi era il papà? E cosa ha detto alle sue figlie?
«Quello che mi è successo è pubblico, risaputo. Le mie figlie sanno tutto. Mio figlio saprà che suo padre è stato un perseguitato, ma era abbastanza fortunato per poter restare nel suo Paese, in Brasile. Lui sarà orgoglioso di appartenere a un popolo senza guerre, senza odio, un popolo che non ha mai pensato di opprimere altri popoli».
Non sembra affatto pentito dei crimini che la giustizia italiana le attribuisce. Quel brindisi davanti alle telecamere dopo l’arresto è stato vissuto anche come un affronto nei confronti delle vittime.
«Vivo in una società molto allegra e solidale. Le classi popolari sono contente quando un amico supera un problema. Non conosco nessuno che pensi che bisogna vergognarsi della felicità. Nessuno considera l’allegria dell’altro come un affronto e nemmeno pensa che brindare con la birra sia un crimine».
Le assicuro che neppure in Italia brindare è considerato un crimine. E invece chi l’ha protetta in Francia e in Brasile in questi anni di latitanza?
«In entrambi i Paesi è stato simile: artisti, intellettuali, movimenti sociali, partiti progressisti, politici democratici, ministri, giuristi, difensori dei diritti umani, giornalisti onesti, fino a prefetti di città importanti, presidenti e anche futuri presidenti, tra questi c’era anche Hollande».
In Italia invece l’aria è cambiata. Anche parlamentari di sinistra che in passato sottoscrivevano appelli in suo favore come Paolo Cento, ora pensano che lei debba essere estradato.
«Non so come è composto oggi il Parlamento italiano. Ma so che le parole non rappresentano sempre la stessa cosa. Hitler, ad esempio, si definiva socialista».
Battisti, ci pensa al suo futuro? Dove si immagina tra 10 anni?
«Spero di continuare a vivere in questa patria dove sto costruendo una casa per mio figlio. Fra dieci anni sarà un adolescente cresciuto in un clima di tolleranza e affetto. Continuerò a scrivere perché la cultura offre motivazioni infinite. Come diceva Albert Camus quando parlava dell’Algeria: le “città senza passato” hanno un grande charme. La mia vita sta cambiando, per la prima volta ho scritto un romanzo storico che sarà pubblicato a breve. Il futuro chi lo sa? Ma sarà migliore del presente e senza dubbio molto migliore del passato. L’angoscia sta passando e poi sto capendo che non tutto il mondo ama l’odio e la vendetta».
Perché parla sempre di vendetta, perché si sente un perseguitato?
«È quello che penso. Ho sempre creduto che la vendetta, sia personale che ufficializzata, faccia più danno al vendicatore che al bersaglio. I miei amici avvocati stanno sconfiggendo ogni atto di vendetta, in poco tempo non ne resterà neanche il ricordo. Ma io credo che non importa quanta vita hai davanti, l’importante è viverla con felicità».
Spesso le hanno chiesto di scusarsi con i parenti delle vittime degli omicidi per cui è stato condannato. Ho capito che non lo farà nemmeno stavolta, ma se dovesse chiedere scusa a qualcuno a chi lo farebbe?
«Quasi tutti dobbiamo dare conto a qualcuno e l’importante è riconoscere quello che dobbiamo agli altri. Posso solo ringraziare chi mi è stato vicino e so che non avrei resistito neanche uno di questi 40 anni da perseguitato se non avessi avuto ottimi amici»