Tutto come prima? Forse. Qualcosa cambierà? Per forza di cose. È questo, in estrema sintesi, il sunto di una delle elezioni più prevedibili e allo stesso tempo più complesse della storia dell’Europa recente.
Nell’arco di poco più di dieci ore il blindatissimo sistema tedesco si sfaldava davanti agli occhi degli oltre sessanta milioni di elettori, capaci nelle urne di regalare contemporaneamente all’ultradestra dell’AdF la prima e più grande pattuglia parlamentare di sempre e di affossare, forse definitivamente, lo zoccolo duro dell’SPD, ora sprofondato al suo minimo storico. La Merkel, dal canto suo, pur indebolita dal risultato appare determinata a formare il suo quarto governo, il primo del dopoguerra sostenuto da ben tre partiti. La Giamaica scalda quindi i motori. La guida Merkel non è in discussione, certo. Ma oltre lei, il baratro. E, di lì, la necessità di cambiamento.
La Germania è cambiata. Il paese più filo-europeista del continente comincia a scricchiolare di fronte alle spinte identitarie di quella destra che, durante questi ultimi mesi, ha saputo pescare gran parte del suo nuovo elettorato proprio tra le file dei democristiani della Cdu-Csu. Anche Berlino, dopo Londra e Parigi soffre delle stesse lacerazioni che connotano il dibattito politico comunitario. Il rigore caratteristico della Cancelliera, che ha alimentato al di fuori della Germania la diffidenza nei confronti dell’Europa filo-tedesca, non è bastato, in patria, ad arginare lo scontento verso una certa moderazione nella gestione delle politiche migratorie ed umanitarie. La Germania vista così dura da fuori è, invece, all’interno dei propri confini, accusata di essere troppo molle e permissiva. Berlino, da questo punto di vista, è forse il primo paese europeo a poter vantare un modello di integrazione efficace, moderno, giusto. Eppure anche lì il malcontento sale. E cresce. Questo modello non è dunque bastato.
Ecco il vero passo, la vera svolta che dovrà intraprendere il quarto governo Merkel: mutare, in cambio del sostegno di liberaldemocratici e verdi, la propria linea sui conti, magari chiedendo la testa di Schäuble, con evidenti smottamenti sulla classica linea del rigore a favore di qualche rinuncia al welfare. E nonostante tutto questo possa essere visto, da destra, come una scalfittura della rigidezza della Cancelliera. Uno scenario che certamente peserà nel programma del futuro governo e che alimenterà la linfa per i populisti in cerca di ulteriori spazi di manovra. E soprattutto di consensi.
Discorso a parte, poi, merita la sinistra, moribonda e sempre più minoritaria. La gloriosa e antichissima area socialdemocratica, che fece dell’Spd il primo partito d’Europa, raggiunge oggi a malapena il 20%. Come il Partito Socialista francesce, arrivato sesto ben al di sotto del 10% alle presidenziali, i socialdemocratici pagano, più della Cdu, la loro permanenza al governo, cedendo consensi a praticamente tutti i partiti concorrenti, AdF compresa. Segno che questa mutazione genetica che investe l’Europa, ormai sempre più liquida, sempre più molle di fronte alle spinte nazionaliste, non si è arrestata con la clamorosa elezione di Macron all’Eliseo, ma prosegue progressivamente verso lo sfaldamento del sistema politico classico che dal dopoguerra governa il vecchio continente.