Akbarzhon Jalilov, il kamikaze di San Pietroburgo, aveva legami con i miliziani siriani, così come i tre attentatori-suicidi che hanno attaccato l’aeroporto internazionale di Istanbul il 28 giugno 2016. Tutti provenivano dall’ex Unione Sovietica poiché originari di Daghestan, Uzbekistan e proprio il Kirghizistan.
I paesi dell’area centrale asiatica, staccatisi nel 1991 dall’ex Urss, erano considerati immuni dall’influenza dell’islamismo. Tuttavia esistono gruppi fondamentalisti operanti all’ombra dei talebani del vicino Afghanistan. Ma il fatto non deve sorprendere. Infatti, dopo la frammentazione dell’ex Unione sovietica, i movimenti islamisti, approfittando del caos politico, emersero immediatamente soprattutto nell’Asia centrale, contribuendo a destabilizzare i neonati governi. Alla base del loro credo, ovviamente, l’instaurazione di Stati governati dalla Shari’a e governati da califfi.
Per perseguire tale obiettivo, gli islamisti dell’area si riunirono in movimenti che, sebbene tesi a programmi di predicazione e conversione degli “infedeli”, non disdegnarono di condurre la jihad allo scopo di appropriarsi del potere. Soprattutto il movimento islamico dell’Uzbekistan si distinse per la contiguità con i talebani d’Afghanistan, usufruendo anche del loro appoggio economico, della fornitura di armi e del sostegno più propriamente militare.
Il Kirghizistan, proprio sotto l’egida dei jihadisti uzbeki, non è stato scevro dalle influenze islamiste come dimostrano l’attentato contro l’ambasciata cinese del 2016, condotto con un’autobomba proprio nella capitale Bishkek e, prima ancora, nel luglio 2015 la sparatoria con le forze di sicurezza kirghise che provocò la morte di quattro terroristi ed il ferimento di 2 ufficiali di polizia. I media locali misero in risalto l’appartenenza dei quattro all’Isis e il pericolo derivante dalla campagna di reclutamento che il Califfato portava avanti nei paesi dell’ex Urss.
Nell’Asia centrale il movimento islamista è un elemento destabilizzante, anche in considerazione del carattere transnazionale del terrorismo che favorisce l’unione tra le diverse entità dei vari paesi. L’obiettivo a lungo termine è quello della creazione di un Califfato che si estenda all’intera zona.
I gruppi che operano nella zona asiatica utilizzano per gli affiliati i campi di addestramento di Tagikistan, Kirghzistan ed Afghanistan, tutti gestiti dal Movimento Islamico Uzbeko che partorisce miliziani da utilizzare per operazioni interne e, dal 2014, per sostenere l’Isis in Siria ed Iraq.
Non si hanno dati certi, ma pare che siano migliaia i miliziani provenienti da Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan che hanno prestato giuramento al Califfato unendosi alle forze Isis, mentre, almeno ufficialmente, i gruppi operanti nella zona avevano stretto alleanza con i Talebani ed Al Qaeda, sotto la supervisione di Ayman Al Zawahiri.
L’obiettivo Russia pare sia stato loro destinato proprio dagli strateghi del Daesh, ritenendoli idonei più di ogni altro per le operazioni nell’ex Unione Sovietica colpevole di avere aderito all’alleanza contro il Califfato e di portare avanti una politica anti-islamica a tutto campo.
Ad oggi, comunque, non è giunta alcuna rivendicazione per l’attacco a San Pietroburgo. Il Califfato, per bocca del suo portavoce Abū al Ḥasan al Muhājir, succeduto al defunto Al Adnani, ha invece esortato i suoi aderenti ad attaccare senza tregua Europa, Usa e Russia con un messaggio trasmesso dalla piattaforma jihadista Al Furqan.
E’ certo che, come più volte ribadito, la sconfitta militare dell’Isis non porterà ad una sua cancellazione totale ma, come accaduto per Al Qaeda in Afghanistan, ad una sua pericolosa gemmazione in gruppi già indottrinati, addestrati e determinati a continuare la Jihad in Occidente.