Stati Uniti pronti a spostare l’ambasciata a Gerusalemme. O forse no. “Non vi è ancora nessuna decisione” in merito, ha dichiarato nella serata di lunedì, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. “Siamo alle fasi iniziali – ha precisato – di quella che, al momento, è solo una discussione su questa ipotesi”. Di certo, dopo mesi di annunci a gran voce, non era questo che Israele si aspettava, tant’è che l’emittente televisiva locale “Channel 2”, già nella giornata di domenica, aveva riferito, citando fonti anonime, che lunedì il presidente Trump avrebbe dato formalmente l’annuncio del trasferimento della delegazione diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme.
In effetti, neppure durante il “cordiale” colloquio telefonico con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, il tycoon del Queens è tornato sull’argomento ma le dichiarazioni dell’avvocato David Friedman, scelto da Trump come ambasciatore Usa nello Stato ebraico, rappresentano più di una rassicurazione: “Non vedo l’ora – ha detto Friedman nella sua prima dichiarazione pubblica – di lavorare nell’ambasciata americana nella capitale eterna di Israele, Gerusalemme”, confermando così l’intenzione di Trump di voler spostare l’ambasciata da Tel Aviv. Potrebbero volerci settimane, mesi, ma si farà.
Nell’attesa, anche Netanyahu apre al presidente Usa. L’esecutivo dello Stato Ebraico ha deciso di rinviare l’annessione di uno dei più imponenti insediamenti israeliani in Cisgiordania, quello di Ma’ale Adumim. Il premier ha preferito attendere il primo incontro con Trump. Ma la politica degli insediamenti non si ferma. Nella giornata di ieri, il governo di Tel Aviv ha approvato la costruzione di 2,500 nuove abitazioni a Gerusalemme Est, dopo le 566 di domenica scorsa. L’obiettivo è concedere ai palestinesi solo uno “state minus”, uno “stato ridimensionato”, così definito dallo stesso leader israeliano nel corso di una riunione con i ministri del Likud, il suo partito.
I leader palestinesi, dopo tre giorni di negoziati che si sono svolti a Mosca, hanno reagito all’offensiva israeliana con un accordo per la formazione di un nuovo governo di unità nazionale fra al-Fatah, il partito laico del presidente Mahmoud Abbas, e Hamas, il movimento islamista che governa la Striscia di Gaza dal 2006. Tuttavia, l’esecutivo deve ancora vedere la luce e le divisioni, nettissime, restano.
Il presidente palestinese, nei giorni scorsi, ha incontrato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per chiedergli di intervenire quanto prima contro la decisione di Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv, mentre il segretario generale dell’ Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Saeb Erekat, ha preannunciato “conseguenze” se il trasferimento della delegazione diplomatica dovesse realmente avvenire. “L’Olp – ha detto Erekat in un’intervista al sito israeliano “Ynet” – non sarà in grado di continuare a riconoscere Israele se Gerusalemme est sarà annessa”. “Spero che Trump non lo faccia e gli raccomandiamo di non farlo”. “Lo esortiamo – ha concluso Erekat – a cercare di portare israeliani e palestinesi di nuovo al tavolo delle trattative”.
Sul piede di guerra anche Hamas che, da Gaza, attraverso il suo portavoce, Mousa Abu Marzouk, fa sapere che “le posizioni espresse dal neoeletto presidente degli Stati Uniti sulla questione palestinese incoraggiano gli estremisti israeliani e minano la stabilità della regione”. Intervistato dall’emittente televisiva “al Jazeera”, Marzouk ha detto che “le posizioni di Trump spingono gli israeliani ad essere ancora più estremisti. Il fatto di voler spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme “non è negli interessi degli Stati Uniti e non fa altro che aumentare i pericoli per il suo paese”.
Tuttavia, per l’intelligence israeliana, alle dichiarazioni di Hamas potrebbero seguire, questa volta, fatti concreti. E ben più preoccupanti. Il gruppo islamista palestinese avrebbe, infatti, da mesi, un unico intento: cercare di destabilizzare la Cisgiordania. Fonti della sicurezza di Tel Aviv, citate dal quotidiano locale “Ma’ariv” hanno rivelato che alla base di questa strategia vi sarebbe l’impossibilità di Hamas di poter aprire un fronte di guerra con Israele a Gaza. Il gruppo palestinese “sta creando in Cisgiordania l’infrastruttura necessaria per dar vita e addestrare cellule armate in modo da compiere attacchi”, ha dichiarato un esponente dell’esercito dello Stato ebraico.
A riguardo, nelle ultime settimane, un’operazione congiunta dell’agenzia d’intelligence per la sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet, e le Forze di difesa israeliane (Idf) ha portato all’arresto di 13 presunti membri di Hamas in Cisgiordania (dove governa l’autorità nazionale palestinese, Anp) e più esattamente nella città di Ramallah e nelle aree circostanti. L’accusa è di voler reclutare nuovi seguaci attraverso progetti di sensibilizzazione sociale ed assistenza finanziaria.
Secondo gli analisti di Tel Aviv, in questa fase molto delicata e complessa, e nonostante il neonato governo di unità nazionale palestinese, sarebbe fondamentale che l’Anp, anche alla luce delle profonde rivalità interne con Hamas riesca ad ottenere un vantaggio militare sul gruppo islamista riuscendo a controllare e prevenire eventuali escalation di tensione che potrebbero estendersi al territorio israeliano e interessare anche altri paesi.
@RosariaSirianni