Lo scorso 30 aprile, alla vigilia della gran ritirata da parte della coalizione Usa e dei paesi della Nato in Afghanistan, un esercito di ex interpreti dimenticati, che hanno servito i contingenti militari occidentali – compresa l’Italia – durante la lunga e complessa “guerra eterna”, si è riunito a Kabul per chiedere a gran voce alla comunità internazionale di essere aiutati a lasciare il paese. Temono per la loro vita e per quella delle loro famiglie, ora che le forze armate occidentali si preparano a ritornare in patria. “… Gli insorti, in particolare i talebani, si vendicheranno e ci taglieranno la testa …”, racconta uno degli ex-interpreti intervistato dalla stampa internazionale, spiegando appunto che la milizia islamista e fondamentalista li considera spie e servi infedeli degli invasori stranieri.
Che ruolo hanno avuto gli interpreti afghani nel conflitto?
Hanno svolto alcuni degli incarichi più sporchi e pericolosi durante la guerra in Afghanistan raccogliendo informazioni sui fondamentalisti talebani, avvertendo di attacchi e intercettando le comunicazioni degli insorti. Erano consulenti linguistici e culturali reclutati direttamente dalla coalizione Nato o singolarmente dal contingente militare dei paesi occidentali o, in alcune situazioni, per mano delle società internazionali private di contractors che ivi operavano. Erano civili, non soldati, ma senza di loro, le forze armate della Nato non avrebbe potuto combattere questa lunga e difficile guerra. Certamente lo facevano per lo stipendio (pare $ 30,71 gg) con cui riuscivano con serenità a mantenere se stessi e le proprie famiglie. Ma quello che spesso non emerge è che si veniva a creare una sorta di feeling indissolubile tra loro ed i nostri militari che superava tutte le barriere linguistiche, culturali e religiose. Si stabiliva, insomma, una vera e propria fratellanza d’armi persino a rischio della propria incolumità. E in alcuni casi, invece che essere protetti dal governo del contingente alleato per cui operavano, coloro che hanno chiesto aiuto sono stati relegati nell’incertezza e nelle lunghe attese per poter ricevere l’agognato visto per l’espatrio, per se stessi e per le loro famiglie, nella speranza di ricominciare una nuova vita lontano dalla loro patria natìa, ma soprattutto dalla minaccia dei fondamentalisti che intanto riguadagnavano terreno sulle forze regolari.
Durante questo lungo conflitto, decine e decine di interpreti e traduttori afghani (e impiegati in genere), hanno perso la vita o hanno subito torture inenarrabili in attacchi mirati da parte dei talebani. Altri, invece, sono rimasti feriti in operazioni “combat” o durante i pattugliamenti a bordo dei veicoli militari blindati.
Partendo da un esame di contesto, la situazione in Afghanistan non è attualmente delle più rosee e gli analisti internazionali avvertono che la violenza potrebbe aumentare drasticamente in tutto l’arco del 2021. Il timido processo di pace potrebbe crollare, aumentando la probabilità di una guerra civile estesa, con migliaia di vittime e con il contestuale attivismo di gruppi terroristici (di cui tra l’altro si riscontrano già alcune avvisaglie), in particolare Isis e Al Qaeda.
E sicuramente si possono immaginare quali siano gli effetti di una lunga guerra civile che si potrebbero abbattere sulla già martoriata e traballante società afghana.
Da non sottovalutare nemmeno il flusso migratorio di disperati che si ammasserebbe in direzione delle frontiere più vicine e che manderanno inevitabilmente in tilt le guarnigioni di confine dei paesi adiacenti. Lo stesso Pakistan teme questo “fallout” afghano e preme nei confronti della comunità internazionale (soprattutto Russia e Cina) affinché vengano prese tutte le contromisure ritenute necessarie e urgenti allo scopo, ma in particolare è in forte apprensione perché in alcune regioni del paese non si stabiliscano delle “sacche” fondamentaliste talebane alleate ai gruppi terroristici; per esempio nel Belucistan, dove la presenza dello Stato è molto labile ed è facilmente penetrabile dall’esterno attraverso la linea Durand, e dove si assiste da tempo ad un’ondata di radicalizzazione religiosa persino nei docili gruppi etnici Barelvi.
E se gli ex-interpreti afghani e le loro famiglie dovessero alla fine convogliare in questi probabili corridoi umanitari, comunque non avrebbero scampo perchè incapperebbero quasi certamente nei loro carnefici.
Considerato tutto, alcuni paesi della Nato hanno già iniziato ad affrontare seriamente la questione, riconoscendo agli interpreti la solidarietà e la riconoscenza che gli è dovuta per aver combattuto “spalla a spalla” con i militari dei contingenti occidentali.
Negli ultimi anni, però, i visti statunitensi per il rimpatrio degli ex-dipendenti afghani si sono improvvisamente fermati perché l’intelligence americana ha riportato del pericolo di infiltrazioni terroristiche tra le fila di rientro dal paese asiatico. Il Generale Mark Milley, a capo del Joint Chiefs of Staff, ha riferito che il governo degli Stati Uniti sta sviluppando nuovi piani per evacuare gli impiegati afghani e le loro famiglie, e non solo gli interpreti, ma chiunque abbia lavorato per il contingente militare statunitense in Afghanistan. Secondo l’ambasciata Usa a Kabul ci sarebbero ancora 18.000 impiegati afghani che hanno richiesto il SIV – il visto speciale di immigrazione degli Stati Uniti – un numero all’incirca equivalente al totale di quelli che lo hanno ricevuto in quasi due decenni di conflitto. I funzionari statunitensi stanno cercando di dare nuovo vigore alle procedure di valutazione delle domande SIV in una lenta corsa contro il tempo, motivo per cui sono allo studio nuove opzioni oltre allo Special Immigrant Visa che permettano di accelerare il processo. Gli Stati Uniti hanno annunciato che la loro ambasciata a Kabul rimarrà aperta e operativa anche dopo il ritiro delle truppe.
La Gran Bretagna, a sua volta, ha comunicato che prossimamente accelererà il trasferimento del personale afghano che ha lavorato con i suoi militari, dando la priorità a coloro che sono attualmente dipendenti (o ex-dipendenti) e ritenuti fortemente a rischio. Il Regno Unito ha finora ricollocato in patria 1.360 afghani impiegati in loco durante l’intero conflitto ventennale e si prevede che altri 3.000 saranno presto inseriti nell’ambito dei piani di smobilitazione dall’Afghanistan.
Anche il governo australiano si è attivato in proposito, elaborando con urgenza le domande di visto a decine di interpreti afghani che lavorano o hanno lavorato per l’Australian Defence Force (ADF), tra crescenti preoccupazioni per la loro sicurezza a seguito della chiusura dell’ambasciata australiana a Kabul e del ritiro in corso dei contingenti occidentali. L’Australia ha ammesso ad oggi circa 600 interpreti dal 2013, ma ancora troppo pochi, perché le procedure per il rilascio del visto sono più lente e macchinose rispetto a quelle britanniche e la chiusura dell’Ambasciata a Kabul non farà che aumentare i ritardi.
E l’Italia, quale decisione ha pensato di prendere in merito al rilascio dello status di rifugiato nei confronti degli ex-interpreti e delle loro famiglie?
Ieri il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, alla base di Camp Arena a Herat (sede del Train Advice Assist Command West – TAAC-W, Comando NATO a guida italiana della missione Resolute Support), durante la sentita cerimonia dell’ammaina bandiera – a significare il ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan – e alla presenza delle autorità italiane, statunitensi, albanesi e afghane, oltre una schiera di giornalisti arrivati anche dall’Italia su un (tumultuoso) volo militare decollato da Pratica di Mare (a cui ha preso parte anche il Direttore del nostro Web Magazine OFCS.report), ha espresso ampie rassicurazioni in merito alla dibattuta questione degli interpreti: “Il tema dei collaboratori afghani ci sta molto a cuore – ha detto – Rassicuro l’opinione pubblica che nessuno sarà abbandonato. L’Italia non dimentica chi collabora con noi”. Attraverso l’operazione Aquila sono stati dunque definiti gli elenchi del personale civile di supporto al contingente italiano, pari a 270 unità – più altri 400 da verificare ancora – che a partire dalla metà di giugno verranno presi in carico e reinsediati in Patria a cura del Ministero degli Interni.
Ad essere onesti fino in fondo però, la questione degli ex-interpreti e del personale civile afghano in genere, nonostante il rimpatrio di 116 operatori nel 2014 in occasione del primo ritiro parziale del contingente italiano, è stata dall’Italia trattata sempre in maniera discontinua in questi ultimi anni, così come è avvenuto inizialmente per la maggior parte delle nazioni della coalizione alleata, motivo per cui qualche dubbio è lecito che possa preesistere.
A testimonianza di questa ripetuta incoerenza, arrivò persino la direttiva del gen b. Alberto Vezzoli che aveva le fattezze di una vera e propria doccia fredda per le speranze degli interpreti afghani: non sarebbero stati riconfermati al 31 dicembre 2020 i contratti di 11 collaboratori, così come non erano per loro contemplati programmi di protezione contro eventuali rappresaglie da parte dei fondamentalisti talebani. E altri 38 contratti erano altrettanto in bilico, sospesi dal lavoro e dallo stipendio nei mesi tra gennaio e aprile con la speranza per alcuni di essere riassunti (speranza che si è di fatto concretizzata per fortuna). Alle richieste di chiarimento da parte degli interpreti afghani, pervenute al comando di Herat, non hanno fatto seguito però risposte ufficiali da parte del nostro Ministero della Difesa.
Le ragioni di questo inspiegabile trattamento sono state formalmente ascritte, da una parte alla pandemia da Covid-19, dall’altra alla mancanza di finanziamenti del fondo missioni all’estero e per ultimo da oscuri problemi di sicurezza o di scarso rendimento del personale afghano. Ma la vera ragione era che l’Italia si accingeva a ritirare il suo contingente e si doveva disfare (si può aggiungere senza riconoscenza alcuna) del personale civile afghano impiegato in tutti questi anni.
Nonostante le ripetute rassicurazioni del Ministero della Difesa, la questione ha coinvolto in poco tempo vari ambiti dell’opinione pubblica che hanno dimostrato interesse e solidarietà per circostanze dai toni non facilmente comprensibili ai più.
Ad accendere i riflettori sulla vicenda è stata l’iniziativa del noto giornalista italiano, inviato di guerra e collaboratore de “Il Giornale”, Fausto Biloslavo, e del gen. c.a. (aus.) Giorgio Battisti, già capo di Stato Maggiore del Comando ISAF (2013-2014), a cui si sono in breve tempo aggregati diversi ufficiali dell’esercito (ora in congedo) che hanno servito l’Italia nella missione in Afghanistan. In una recente conferenza organizzata dal Club Atlantico di Bologna, il presidente del sodalizio, il gen. b. (ris.) Giuseppe Paglialonga, nell’esprimere la più ampia solidarietà nei confronti degli ex-interpreti afghani, ha anche auspicato una partecipazione attiva in azioni concrete da parte dei Club Atlantici italiani, mostrando la giusta riconoscenza verso chi ha dato prova di grande lealtà e spirito di sacrificio al fianco dei nostri militari impiegati in operazioni nel paese asiatico. Anche la partigiana paracadutista, pluridecorata e medaglia d’oro al valor militare, Paola del Din, ha sposato la causa scrivendo direttamente al ministro della Difesa ed esprimendo tutto il suo rammarico per l’attuale situazione venutasi a creare, un ritardo sui rimpatri vergognoso, e lanciando la proposta di un possibile reinsediamento degli ex-interpreti afghani nel nostro paese quali mediatori culturali a supporto dei centri di accoglienza che si popolano di immigrati della loro stessa etnia, provenienti perlopiù dalla così detta rotta Balcanica.
Occorre naturalmente vigilare, ed eventualmente mobilitarsi, affinché siano messe in campo tutte le azioni necessarie, prima tra tutte evitare che all’arrivo in Italia vengano mischiati nei centri di accoglienza perché non sarebbero ben visti. Sarebbe opportuno, invece, organizzare dei trasporti dedicati e dare loro una dignitosa sistemazione. Inoltre, servirebbe agevolare il più possibile le trafile burocratiche ed evitare che gli interpreti, una volta in Italia, vengano abbandonati a se stessi nei meandri dello SPRAR – il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifuguati. Ci sono non pochi casi, infatti, di operatori afghani rimpatriati in Italia nel 2014, che dopo il periodo iniziale si sono sentiti abbandonati e nemmeno sono stati impiegati nel lavoro che hanno sempre svolto in Afghanistan, tanto che si sono sentiti costretti ad andare via e cercare fortuna altrove. Non bisogna dimenticare infatti che si tratta di persone istruite, a volte laureate, alcuni ex piloti dell’aeronautica, e si auspica che non siano impiegati in lavori di bassa manovalanza.
I vari Mohses, Bashir, Isaac, Samir e tanti altri attendono con fiducia di essere ricongiunti con la loro seconda patria, l’Italia.
La parola d’ordine deve essere forte e univoca: Non si lascia indietro nessuno!