Alla fine nessuna sorpresa. Come era nell’aria da mesi Angela Merkel ha vinto le elezioni tedesche, centrando non solo il record del quarto mandato consecutivo ma distanziando di gran lunga il suo avversario principale, il moribondo Spd guidato da Martin Schulz, nonostante il minimo storico il candidato migliore che i socialdemocratici potessero spendere durante questa campagna elettorale noiosa, stanca e mai veramente aperta.
Ancora una volta, dunque, l’ex ministro di Kohl trionfa in Germania grazie ad una affluenza alle urne superiore rispetto ai turni degli anni scorsi e al tracollo, ormai totale, delle forze di sinistra. Eppure, di nuovo, sarà costretta in virtù della rigorosissima proporzionalità della legge elettorale tedesca, a formare un governo di coalizione, il quarto sui quattro da lei presieduti. Di certo non sarà un problema insormontabile.
Era già accaduto nel 2005 e nel 2013 con una Grosse Koalition Cdu/Csu-Spd e nel 2009, quando la Cancelliera dovette ricorrere ad una alleanza con i liberali dell’Fdp a causa del mancato raggiungimento, per una manciata di voti, della maggioranza assoluta dei seggi al Bundestag. Le ipotesi sul campo per formare il prossimo quarto governo Merkel vedono ancora, sulla carta, due scenari possibili: quello ormai sulla via del tramonto, la coalizione nero-rossa, (che raggiungerebbe dai 330 ai 342 seggi) o quella più probabile, la ‘Giamaica’ Cdu/Csu-Fdp-Verdi, mai sperimentata a livello federale ma già rodata nel Saarland e nello Schleswig-Holstein e che, invece potrebbe arrivare attorno ai 330 seggi. Il calo della Cdu/Csu della Cancelliera, prevedibile ma forse non fino a questo punto, ha fatto sì che, l’alternativa Kiwi (Cdu/Csu-Verdi), non sgradita alla Merkel, non potesse essere sul piatto delle possibilità.
Da questo voto, che chiude il lungo ciclo elettorale europeo del 2017 dopo quello di Francia e Regno Unito, non dipende solo il destino di oltre 500 milioni di europei ma, soprattutto, il futuro delle forze politiche che li governa. Se infatti l’ultradestra di Alternativa per la Germania (Afd), dopo la netta sconfitta dei suoi omologhi in Francia ed Austria, rialza la testa con percentuali fino a qualche anno fa impensabili, ad uscire fortemente ridimensionata da questo terzo turno elettorale europeo è, piuttosto, l’area socialdemocratica che al netto della considerevole eccezione italiana consegna una sinistra non solo in calo di consensi ma sempre più frammentata e litigiosa.
In ogni grande nazione del continente le forze di sinistra si sono presentate di fronte ai propri elettori divise: in Francia con Hamon e Melenchon, in Regno Unito con un Corbyn appoggiato dai quadri del Labour ma non dai big storici, in Germania con Spd e Linke divisi da oltre un decennio da rivalità e ripicche. Non a caso, da quando Lafontaine uscì dall’Spd per fondare la Linke i socialdemocratici, il partito più grande d’Europa, hanno saputo inanellare solo cocenti sconfitte a tutto vantaggio della Merkel che, proprio in virtù di queste divisioni ha viceversa potuto governare per ben dodici anni, non avendo mail l’Spd voluto, pure quando aveva i numeri per farlo, governare con i fratellastri di sinistra.
E non solo. Con la stella di Macron già in netto calo rispetto ai fasti estivi e forte di questa storica quarta elezione accompagnata da una congiuntura economica a dir poco favorevole la Merkel si appresta a divenire ancor di più arbitro dello scenario comunitario: dalla programmazione economica (Bce compresa, citofonare Draghi) alla gestione delle politiche migratorie ed umanitarie, volenti o nolenti, le cancellerie d’Europa dovranno necessariamente passare dal placet di Berlino, unico ostacolo e, allo stesso momento, unico sostegno di un’Europa sempre più debole e divisa dai nazionalismi di ritorno.