Far passare Netanyahu e il suo governo solo per una manica di maniaci dell’etnocentrismo e del suprematismo ebraico e/o della pulizia etnica nei confronti del popolo palestinese è un ottimo modo per semplificare la storia e per liberare riduzionismi ermeneutici che appagano le coscienze di molti, soprattutto progressisti, i quali, in tal modo, possono permettersi il lusso di catalogare con una certa facilità e nettezza gli attori del conflitto israelo-palestinese, indicando con sicurezza quali siano i buoni e quali i cattivi. Il che non vuol dire affatto che molte delle scelte di quella compagine governativa e determinati indirizzi di politica interna ed estera dello Stato ebraico non siano giudicabili, da parte di chi ritenga che così sia, come negativi o addirittura deprecabili. Ma sostenere, senza dubbio alcuno, che Israele, in generale, e il gruppo di potere a firma ‘Bibi’, in particolare, siano dei veri e propri ‘cani pazzi’, che colpiscono alla cieca e indiscriminatamente quando e in quanto oggetto di attacchi terroristici, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze umanitarie o di quelle geopolitiche, delle reazioni internazionali o dei risentimenti degli altri protagonisti della scena pubblica, o, perfino, di non avere un progetto o già solo un canovaccio per la propria azione politica e militare, per di più valutata come palesemente e unicamente orientata alla distruzione genocidaria del popolo palestinese, è meritevole di un numero elevatissimo di riflessioni critiche, fondate su un’analisi maggiormente minuziosa e diligente dei fatti in corso.
Basterebbe, infatti, a solo titolo di esempio, considerare l’accusa pluri-frontale rivolta a Israele e al suo governo ‘destrorso’ e ‘ultra-religioso’, di stare praticando in modo inaccettabile, sistematico e chirurgico, una prassi eliminazionistica nei confronti dei palestinesi oltremodo evidente e indiscutibile. A parte che già questa valutazione tenderebbe essa stessa a smentire il carattere di improvvisazione e di caoticità in merito all’azione militare innescata e condotta dallo Stato ebraico, mettendone in luce, al contrario, una meticolosa concezione e programmazione, v’è da sottolineare, con maggiore forza, che, se fosse vero che l’obiettivo israeliano unico e superiore sia quello di distruggere il popolo palestinese, non si capirebbe – e, in effetti, non si capisce proprio –, allora, perché Israele, oltre che Hamas, stia colpendo contemporaneamente tutte le sedi territoriali delle formazioni terroristiche (non specificamente palestinesi!), che per statuto interno e per tradizione ideologico-operativa sono ostili nei suoi confronti. Quando Israele decide di allargare il raggio di azione bellica allo Yemen, ma soprattutto al Libano e probabilmente, in tempi non tanto lunghi, all’Iran, non sta certo cercando in quelle aree palestinesi nascosti, per condurre a termine, per di più, in terre straniere, quella pulizia etnica, di cui viene accusato, con l’aggravante della pratica genocidaria, ma sta realizzando quel ‘lavoro sporco’ anti-terroristico – contro Houthi ed Hezbollah, oltre che contro Hamas – che le ‘migliori’ e ‘più avanzate’ democrazie occidentali, europee e non, non sarebbero nemmeno in grado di concepire, tanto meno di concretizzare, tanto sono impegnate a trattare ‘metafisicamente’, ‘giuridicamente’ e ‘mediaticamente’ il problema ‘terrorismo’, oggetto più di una marea immobile di talk show e di dibattiti sterili che di una vera azione coordinata di intelligence e apparati militari. Individuare e abbattere i capi e le consorterie eversive internazionali, che ordinariamente pressano Israele su una molteplicità di fronti, ai suoi confini come al suo interno, e che operano al contempo anche in altre parti del mondo occidentale, sferrando attacchi mirati e/o stragistici sia nei confronti di obiettivi ebraici sia di indifesi e ignari bersagli civili non ebraici, colpevoli solo di essere appartenenti a quella dimensione di ‘(in)civiltà’ di cui Israele viene considerato rappresentante in Medioriente, non pare propriamente un’articolata operazione di caccia spietata al palestinese in ogni luogo egli si trovi, ma una vera e propria guerra al terrorismo, anche oltre-confinale. Che, a dispetto di quanti vorrebbero fosse combattuta solo a parole e fiori, con il solo spargimento di fiumi di abbracci e baci, o che si risolvesse da sé, come per magia o per volontà insondabile di un’entità divina non meglio qualificata, necessita, gioco forza, dell’impiego della violenza militare, quella di un esercito che, però, si deve pur adeguare alla forme inedite di combattimento determinate dall’irregolarità e dalla imprevedibilità dei modi di organizzazione e di configurazione delle azioni sul campo di tali formazioni terroristiche. L’esigenza, per ragioni di morale interna o di etica globale, e anche per salvaguardare l’apparenza/sostanza della propria natura e statura democratica, di evitare di ‘sporcarsi le mani’ da parte degli Stati occidentali per affrontare in modo netto e risoluto il terrorismo internazionale, che pur possiede delle sedi locali ben precise e rintracciabili, o anche, forse, l’inettitudine manifesta di gran parte delle strutture di intelligence di tali Paesi di rapportarsi efficacemente alla dimensione problematicissima di tale fenomeno trans-regionale, non possono e non devono, però, trasformarsi, volgarmente e ingenerosamente, in accuse impietose e feroci nei confronti di quello Stato ebraico che il terrorismo – che gli vive ordinariamente in casa, sul proprio perimetro territoriale sovrano –, invece, lo combatte a viso aperto, ‘in pratica’ e non ‘in teoria’, nonostante, o forse proprio in ragione delle molte sconfitte che ha dovuto da esso patire e che non ne hanno ridotto né la potenza né il vigore. Questi Stati, che pur fanno bene a richiamare Israele al rispetto del diritto internazionale nella conduzione di tale guerra al terrorismo, non solo, però, sono perfettamente consapevoli dell’emergenzialità e dell’atipicità che connotano non tanto il conflitto israelo-palestinese quanto la guerra condotta da Israele contro le forze terroristiche con basi mediorientali – le quali, grazie al loro operato, sono induttive e generative di situazioni che quel diritto internazionale della guerra non sempre può aver descritto e normato –, ma addirittura, per quanto si indignino rispetto a un determinato uso della forza da parte dello Stato ebraico – semmai alzando la voce in consessi pubblici come nelle sedute dell’ONU o in tribunali internazionali trasversalmente riconosciuti –, sanno perfettamente di stare delegando a Israele il compito, che dovrebbe essere internazionalmente congiunto, di spazzare via il pericolo terroristico. Per questo, al di là dei numerosissimi pronunciamenti contro Israele, contro Netanyahu e contro il suo governo, oltre che, in molte circostanze, contro la storia stessa dello Stato ebraico – che, a detta di molti, trasuderebbe violenza (etnica!) da tutti i suoi pori, al punto che si potrebbe dire che essa corrisponda ‘ontologicamente’ alla sua identità –, la gran parte di questi Stati, primo fra tutti gli USA, non smettono di sostenere e di foraggiare l’azione bellica di Israele, saltuariamente mostrando di volere limitarne e moderarne la portata e l’intensità, sapendo benissimo che quest’ultimo si sia caricato (anzi, sia stato incaricato silentemente da loro!) del compito globale di decollare localmente i vertici delle organizzazioni terroristiche internazionali, in tal modo riducendone la presenza, depotenziandone il peso specifico e avviando auspicabilmente un processo – interno a quegli Stati che ne sono diventati, in certi casi anche loro malgrado, sedi operative fondamentali – di resistenza/revisione politica, di rigenerazione sociale e di palingenesi culturale. Israele, in tal senso, è, dunque, troppo funzionale a un progetto internazionale occidentale (ma anche arabo-musulmano e islamico moderato) di trasformazione generale dello scenario politico-sociale del Medioriente – in grado di rendere quest’ultimo un nuovo affidabile polo/partner economico e commerciale – per poter essere, alla fine, totalmente, ma soprattutto, effettivamente emarginato! Israele, nonostante il suo apparente isolamento, quale può essere stato manifestato in corrispondenza del discorso di Netanyahu all’ONU alla fine di settembre 2024, quando i rappresentati di molti Stati, prim’ancora che egli parlasse, si sono allontanati dall’aula in segno di protesta e di non condivisione della linea seguita da lui e dai suoi, non è solo. Quanti, per esempio, sono i Paesi, occidentali e arabi (sunniti) che, di fronte al ‘ridimensionamento’ di Hezbollah non hanno finalmente esultato, sapendo che quel risultato non fosse stato raggiunto ‘a proprie spese’ militari e umane, ma a costo dell’impegno sul campo delle forze armate e di intelligence di Israele? E quanti sono gli Stati, ancora una volta occidentali e arabi (sunniti), che, pur temendo l’escalation militare in Medioriente, con conseguenze geopolitiche internazionali imprevedibili, non stanno, in fondo, che auspicando un intervento israeliano deciso in Iran, al fine di trafiggerne il cuore pulsante, anche se sempre più indebolito dopo il colpo inferto all’affiliato Hezbollah, e di eliminare, nella visione occidentale, una teocrazia militare tra le più violente e anti-umane ancora esistenti, e, dalla prospettiva soprattutto araba, un concorrente oltremodo scomodo e fastidioso? E quanti sono gli Stati arabi e musulmani moderati che, nonostante la temporanea sospensione degli Accordi di Abramo, hanno continuato a mantenere relazioni diplomatiche pubbliche e/o sotterrane con ‘questo’ governo israeliano, addirittura concedendo i propri spazi aerei e il proprio supporto di intelligence a Netanyahu in occasione della pioggia di missili dell’Iran sul territorio israeliano nell’aprile del 2024, in tal modo aprendo nuovo credito nei confronti di un potenziale alleato commerciale e di un futuro difensore, tecnologicamente avanzato, dell’intero nuovo Medioriente a guida arabo-saudita e non certo iraniano-sciita? E che dire a proposito delle popolazioni libanese e iraniana, che, pur spaventate dalla portata mortifera degli attacchi di Israele, già realizzati nel sud del Libano e a Beirut, e probabilmente prossimi a essere sferrati contro Teheran, giudicando ormai con insofferenza e reale preoccupazione la presenza sul loro territorio di gruppi terroristici – i quali, bersagli dell’esercito israeliano, per la loro integrazione territoriale, strutturale e sociale con loro, le rendono automaticamente, esse stesse, obiettivi militari –, guardano paradossalmente con speranza alle azioni militari dell’Idf contro i loro stessi Stati? E quali parole spendere sull’effettiva inconsistenza pratica, dal punto di vista delle conseguenze reali, delle risoluzioni dell’ONU rispetto alle violenze e ai comportamenti giudicati anti-umani/contro-umanitari di Israele nella Striscia di Gaza, se non quelle riferibili non tanto all’estrema debolezza di tale organizzazione internazionale quanto all’effettuale ‘realpolitica’ accondiscendenza generale nei confronti proprio di tale azione militare? Se così non fosse, infatti, Israele sarebbe già stato fermato. Invece la comunità internazionale, mentre con una mano indica le colpe infinite di Israele e con la stessa si batte il petto per non riuscire a estirparle così come a interrompere la continuità delle sue operazioni belliche, che coinvolgono le popolazioni civili degli Stati che Israele ha preso di mira nella sua lotta al terrorismo, con l’altra mette mani al portafoglio per consentire sempre al vituperato Israele di procedere in quelle operazioni antiterroristiche che da sé non ha né la forza né il coraggio di intraprendere e portare a compimento. Il famigerato decisionismo israeliano, e di Netanyahu e del suo governo in modo particolare, per quanto spaventi il mondo occidentale democratico – in quanto offre alla guerra e alle armi con cui viene combattuta, un posto legittimo e indiscutibile nella politica di difesa dei propri confini, interni ed esterni, e che si configura come una possibilità concreta che molti degli Stati democratici attuali tendono, giustamente, ormai a relegare, all’interno delle loro costituzioni, alla sola remotissima eccezionalità esecutiva –, sembra, al contrario, essere una linea e una via pragmaticamente percorribile, anzi, per Israele ‘da percorrere’ con coraggio, se si vuole che la questione terroristica passi dalla mera dimensione dialettica a quella operativa, ovvero che sia affrontata e risolta su un piano di effettività e non su uno di potenzialità. Le democrazie occidentali, che a parole vogliono l’estirpazione del terrorismo e che condannano pubblicamente Israele per un uso smodato della forza, di fatto hanno costruito attorno allo Stato ebraico un sistema di legittimazione silente, invisibile, che funziona come una rete di salvataggio e un paracadute per quest’ultimo all’interno di un circo geopolitico policromatico, in cui essi devono solo giocare il ruolo dei ‘pagliacci etici’, che, sì, criticano, giudicano, condannano, ma che, al contempo e in effetti, foraggiano senza sosta trapezisti ‘ebrei’, impegnati in evoluzioni ‘antiterroristiche’ pericolosissime, che loro non sarebbero in grado di realizzare, e quegli ‘operatori israeliani’, addetti a quel ‘lavoro sporco’ che loro non praticherebbero mai, per amore della pace, per rispetto delle proprie carte costituzionali e per riguardo dell’umanità dell’uomo! Comodo così, no? Purezza etica ‘propria’ contro sudiciume morale ‘altrui’, funzionale, però, alla liberazione ecumenica dal male assoluto del terrorismo internazionale! Un investimento straordinario, quello dei Paesi ‘civili’ occidentali, che chiedono a Israele solo di sopportare il pubblico ludibrio e la condanna morale generale in ordine alla sua dimostrata ‘selvaggia inciviltà’, in cambio, però, di un concreto sostegno non solo alla sua propria persistenza in essere come Stato, ma anche e soprattutto alla sua volontà e capacità di caricarsi del compito di utilizzare qualsiasi mezzo, lecito o illecito, per sbarazzarsi della piaga del terrorismo internazionale.
Nello scenario appena delineato, è chiaro che le teorie, così ampiamente diffuse e gioiosamente predicate, della ‘solitudine di Israele’ perdono in consistenza e mostrano il loro lato debole. Israele, nel suo percorso di riacquisizione della propria dignità politico-militare dopo il 7 ottobre, in cui si è fatto trovare scoperto e impreparato, anche senza il consenso generale della società israeliana – spaccata democraticamente al suo interno per una serie di ragioni ideologiche e pratiche – ha trovato comunque in Netanyahu il leader ‘non amato (da tutti)’ in grado di fronteggiare la questione terroristica e, in generale, dei nemici dichiarati dello Stato ebraico, riportando una sfilza ininterrotta di risultati bellici e strategici considerevoli, come l’attacco ai capi di Hamas, con la morte di Haniyeh a fine luglio 2024, l’uccisione e/o il ferimento della gran parte dei vertici e della manovalanza militante di Hezbollah, grazie all’innesco di sorta di cercapersone-bomba e walkie-talkie esplosivi, fino al bombardamento e all’eliminazione in Beirut di buona parte delle sedi dei comandanti di Hezbollah, braccio armato di Teheran, cosa che ha subito messo in allarme la guida suprema dell’Iran, Alì Khamanei, e il suo entourage, pronti a trasferirsi in siti più sicuri, a testimonianza dell’impatto notevole ottenuto dagli attacchi israeliani nella terra dei cedri. E così la ‘grande guerra dei sette fronti’, in cui gli Houthi avrebbero voluto si trasformasse il conflitto ‘solamente’ e ‘limitatamente’ israelo-palestinese, ha visto sempre più primeggiare Israele e le sue forze armate, che mai, però, avrebbero ottenuto cotanti pregevoli risultati se non fosse stato proprio per il sostegno della maggior parte dei partners e alleati occidentali, soprattutto di quelli che non perdono, oggi, una sola occasione per sconfessare pubblicamente l’operato del Primo ministro israeliano e dei suoi affiliati al governo in relazione all’accrescimento esponenziale delle tensioni militari nel quadrante mediorientale e a biasimare radicalmente Israele per l’impiego giudicato sproporzionato ed eccedente della forza militare e di altre strategie – quali, per esempio, a detta loro, l’affamamento calcolato della popolazione di Gaza – in risposta alle efferatezze perpetrate a suo danno dai militanti di Hamas in quel 7 ottobre, tutto da dimenticare e, proprio per questo, tutto da ricordare affinché non si commettano gli stessi errori di gestione militare-territoriale del pericolo rappresentato dai terroristi palestinesi e di altra estrazione etnico-pseudo-politica. Netanyahu, dunque, in crescita nei sondaggi interni sul gradimento nei confronti del capo del governo israeliano, sta lentamente riottenendo quel credito politico e quell’approvazione sociale che aveva drammaticamente visto dilapidarsi in ragione sia della mancata previsione delle incursioni plurime di Hamas del 7 ottobre sia dell’infausta gestione del problema degli ostaggi. Ma, soprattutto, con l’uccisione di Nasrallah, capo della cupola terroristica di Hezbollah, e di Ali Karaki, comandante, nel settore meridionale del Libano, di detta formazione filo-iraniana, Netanyahu ha ottenuto il plauso trasversale dei governi occidentali e di quelli arabo-sunniti, orientati sempre più a sottrarre potere e primalità geopolitica alla teocrazia islamica di Teheran e di avviare processi di normalizzazione e di vicendevole riconoscimento con Israele così da potere inserirsi in un globale circuito virtuoso economico, commerciale, tecnologico e securitario mai prima sperimentato, e, ormai, richiesto dalle nuove generazioni tendenzialmente laiche, insofferenti rispetto a governi dittatoriali, gruppi terroristici e compagini religiose intolleranti, in grado solo di frenare la possibilità di condivisione di condizioni di benessere ormai largamente disponibili nel consesso delle democrazie di stampo occidentale.
Netanyahu e colleghi di governo, quindi, al di sopra e al di là delle numerosissime critiche rivolte loro sia dall’opposizione politica interna sia da una buona parte della società israeliana, sia, ancora, dai tantissimi attori, centrali e laterali, della piattaforma allargata ecumenicamente di tale conflitto col mondo palestinese e, soprattutto, con quello screziato e informe del terrorismo internazionale di matrice islamica, incardinato nei cosiddetti ‘territori occupati’, nel Libano, nello Yemen, in Iran e in Siria, lentamente e progressivamente stanno ottenendo risultati notevoli nella loro politica di ‘persecuzione dei terroristi’, annunciata subito a ridosso della mattanza degli ebrei il 7 ottobre 2023, avviata con l’ingresso nel nord della Striscia e con la presa di Gaza City, proseguita con l’attacco, nel Sud di Gaza, a Khan Yunis, città natale del capo politico di Hamas, Yahya Sinwar, continuata con una serie di eliminazioni mirate: da Saleh Arouri, uno dei vertici di Hamas, ucciso a Beirut all’inizio di gennaio 2024, a Fuad Sukr, appartenente a Hezbollah, e considerato uno dei più temibili terroristi mondiali dagli stessi USA, fino ad arrivare all’omicidio di Hassan Nasrallah, guida politica di Hezbollah. Tutto ciò mentre l’esercito israeliano, con lo sfondamento della resistenza a Rafah, il contenimento del primo attacco iraniano in territorio ebraico grazie anche all’intervento di molti Paesi alleati e di alcuni arabi, e con il bombardamento di uno dei nodi petrolifero-strategici più importanti della rete terroristica degli Houthi, ovvero il porto di Hodeida, rinvigoriva quella fiducia in sé da parte dei suoi militari come da parte della popolazione civile, che costituisce il motore fondamentale per mettere a frutto la volontà politica di eliminare alla radice, o, comunque, in modo sostanziale il problema terroristico.
Di fronte a un quadro di azioni politiche e militari di tale portata, che, certamente, non può per nulla lenire il dolore per le tantissime vite civili palestinesi e libanesi così duramente, drasticamente e, in moltissimi casi, prematuramente colpite e annientate, ma che rivela l’orientamento nei confronti di una lotta senza quartiere e onni-spaziale nei confronti delle diverse sigle della costellazione islamo-terroristica (mediorientale), oltre che manifestare l’obiettivo di salvaguardare, in ogni forma possibile, la vita dello Stato ebraico e dei suoi cittadini, l’idea che Israele attualmente stia procedendo dritto sulla strada di un ‘suicidio’, sempre più annunciato, trova una scarsa probabilità di attuazione, nonostante sia oltremodo degna di un’attenzione teoretica di non poco conto. In tal senso ermeneutico si muove la professoressa Anna Foa, che, infatti, non tarda a intitolare la sua ultima opera, pubblicata per i tipi della Laterza, senza mezzi termini e senza ulteriori fronzoli esplicativi sottotitolari, Il suicidio di Israele, volendo così intendere che tutta la politica post-7 ottobre da parte dello Stato ebraico e del suo governo, per alcuni versi in linea tanto con la storia di certo spostamento a destra della politica israeliana quanto con una semi-connaturata tendenza degli ebrei territorializzati a ‘colonizzare’ le terre palestinesi in nome della ricostruzione di Eretz Israel, stia marciando rettilineamente e senza sosta in direzione di un vero e proprio auto-annientamento di Israele, sempre più prossimo, secondo la studiosa, quanto più lontana si presenta la possibilità della configurazione di uno Stato palestinese, considerato come elemento centrale della riappacificazione degli ebrei col mondo arabo-palestinese, unitamente all’altra condizione inaggirabile della caduta del governo Netanyahu e della linea oltranzistico-nazionalistica e ultra-ortodossa del suo governo.
Eppure, da quanto sin qui snocciolato, nonostante sia vero che, a un determinato momento, lo Stato di Israele fosse apparso sul punto di implodere politicamente, militarmente, socialmente e psico-collettivamente in seguito al trauma insanabile provocato dalle violenze di Hamas nel sabato nero della storia infinita di sofferenze trans-geografiche del popolo ebraico, pare oltremodo trasparente che esso, nella forma della politica governativa attuale, abbia pensato bene che fosse arrivato il momento di non dover accettare a testa bassa la sorte avversa, ma di dover prendere in mano, a testa alta, il proprio destino statuale proprio per evitare che fosse foriero della sua morte e del suo peggiore e definitivo annichilimento. Per questo, per quanto intrigante e solleticante sia la proposta interpretativa di Foa di leggere nel segmento storico-politico successivo al 7 ottobre un lungo percorso suicidario per Israele, resta fondamentale metterla sotto una lente critica, per verificare quanto tenga alla luce e alla prova dei fatti e per capire se, per caso, non sia frutto, seppur ‘intellettualmente’ raffinato, di una linea di pensiero fortemente ideologica, che, cioè, vuol vedere per forza in un governo (ultra-)conservatore, come quello guidato da Netanyahu, la premessa certa di una necessaria involuzione politica di Israele esitante nella sua fine più indegna.
Uno dei punti cardinali dell’analisi, a dire il vero oltremodo lucida, ma anche molto controversa e interiormente combattuta, della storica della Sapienza, e per questo densa, aperta, anche se non sempre condivisibile, è rappresentato dall’elemento religioso in quanto tale, sia nella sua versione fanatistica, associata alla pratica espansiva dei coloni della West Bank, per di più collegata alla politica cosiddetta ‘sionistica’ dei vari Ben Gvir e Bezalel Smotrich, sia come mera presenza quale dato ineludibile di riferimento della politica governativa. Se, da una parte, sostiene Foa, certo messianismo ultra-ortodosso, caratterizzato da un odio sfrenato nei confronti degli arabi, in generale, e dei palestinesi, in quanto arabi in casa propria, in particolare, alimenta ininterrottamente l’avversione nei confronti di tutto quanto non (si) attenga al dettato del Dio d’Israele e all’identità del popolo da lui eletto, in tal modo configurandosi come la base fondativa di ogni azione violenta, ‘colonizzativa’ ed eliminativa, dall’altra, senza arrivare a tali estremismi di sorta, la religione, impiegata come mero, ma importante, riferimento giustificativo dell’operato politico o pubblico di molti sionisti dell’Israele contemporaneo sembra slabbrare la stessa natura storica del sionismo, corrompendo la sua vocazione laica, progressistica e ugualitaristica, espressa soprattutto in alcuni suoi padri fondatori, del tutto disinteressati a ricostruire la Grande Israele biblica e orientati, al contrario, a forgiare uno Stato secolare e pariteticamente bi-nazionale, ovvero uno Stato ebraico di tutti i suoi cittadini e non uno Stato esclusivamente degli ebrei, in cui gli altri, etnicamente differenti, trovassero un posto da subordinati. Eppure Foa sa benissimo che la situazione religiosa in Israele è di gran lunga più complessa e del tutto irriducibile a una sua univoca incarnazione politico-sionistica, nel senso che, come il sionismo è ‘anche’, e non solo, religioso, così la religione è ‘anche’, ma non esclusivamente, sionistica. Anzi in Israele la presenza di religiosi orientati ortodossamente a considerare la propria vera ‘terra’ la Torah è del tutto considerevole, e nella maggior parte dei casi è avversa all’idea quanto alla stessa realtà di un Israele come Stato, che combatte con tutte le proprie forze giudicandolo come il principio della decadenza dell’ebraismo e come causa delle maggiori tragedie da questo patite. Senza stare qui a indicare tutte le declinazioni di tale dimensione religiosa contro-statuale, si può arrivare a citarne una veramente particolare, che, per un verso, si presenta come ebraica nella sua assoluta purezza torahica, per un altro, in ragione del suo specifico distanziamento dalle altre indebite e fallaci forme di autentico ebraismo, riesce a porsi come piano, materiale e teologico, di co-relazione e dialogo tra la fede ebraica e quella musulmana, oltre che di interlocuzione produttiva e fruttuosa tra israeliani e palestinesi, tra mondo ebraico e mondo arabo. La setta ebraica cui qui ci si riferisce è quella, altrettanto ‘ortodossa’ che quella filo-sionistica governativa – nel senso che ritiene, come quella cui afferiscono i Gvir e gli Smotrich, di essere la più rappresentativa della tradizione biblica –, dei Samiriun, di quei Samaritani che si racconta nella Bibbia siano stati condotti da Mosè in Terra Santa in seguito alla persecuzione del Faraone. Costoro, che si considerano in modo esclusivo shamiri, ovvero custodi unici della tradizione ebraica (oltre che della prima copia in assoluto della Bibbia), contrariamente agli ebrei israeliani, che, a loro detta, avrebbero del tutto alterato e traviato la lettera della Torah, addirittura deviandone il corso significale, sono stanziati tra Nablus, in Cisgiordania, e Holon, in Israele, e per tale loro caratterizzazione geografica liminare e commista, e soprattutto per la loro storica frequentazione della terra e del popolo palestinese, si presentano come luoghi umani in cui il dialogo tra l’elemento ebraico e quello arabo-musulmano avviene con naturalezza. Sono proprio questi ebrei a loro modo ortodossi, tradizionalmente e politicamente legati al mondo palestinese, alcuni dei quali anche con cittadinanza israeliana, a considerare l’Israele statuale come una vera iattura per il popolo ebraico. Al punto che non solo, a un certo punto della propria storia, parte di essi comincia a collaborare con le Brigate al-Qassam di Hamas, ma addirittura negli anni bollenti della Seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, almeno in una loro compagine abbastanza numerosa, si salda con i movimenti armati palestinesi della Cisgiordania per combattere contro l’esercito israeliano. Oltre a ciò la setta dei Samiri struttura un tale rapporto politico solido con l’Autorità Nazionale Palestinese che a partire dai tempi di Arafat ottiene che gli venga ordinariamente riservato un seggio nel Parlamento palestinese. Il loro orientamento religioso e politico, al confine tra tradizione ebraica, amicizia politica con i palestinesi e critica della forma statuale assunta dall’ebraismo, si sostanzia bene nelle affermazioni di un suo sacerdote, Samiri Hosni, che rivelano quanto parlare di religione ebraica o comunque della religione in Israele debba sempre declinarsi e volgersi al plurale e mai al singolare assoluto: «Noi vogliamo vivere in pace. Da secoli siamo qui a Nablus accanto al monte sacro Gazirim, il vero luogo di culto ebraico. Gerusalemme non è mai stato un luogo sacro per noi, non è citato nemmeno nella Torah. Lo scontro tra noi palestinesi e gli ebrei israeliani è tutto politico. E non vivremo in pace fino a che non nascerà uno Stato Palestinese autonomo. Noi a Nablus siamo la testimonianza vivente che si può fare: si può vivere tutti insieme, in pace, partecipando al bene della collettività» (Omar Abdel Aziz Ali, «La setta ebraica contraria all’occupazione dei Territori palestinesi», in TPI – The Post Internazionale [Come la sinistra vuole sconfiggere la destra] 16 (2024), p. 36). Per cui la religione, laddove la si consideri come la causa o il motore di un complesso di problemi, soprattutto di natura politica, all’interno della realtà israeliana, deve essere sempre bene identificata nella particolare forma che assume in un determinato contesto e in legame con specifiche altre dimensioni sociali, culturali e politiche. Dire, in modo generale, che in Israele la religione è un problema perché a essa certa politica si riferisce per fondare le sue valutazioni e le sue decisioni, può significare tutto o niente, se non si opera l’identificazione del suo peculiare profilo e se non si colloca quest’ultimo nel corretto alveo contestuale, dove può apparire la sua reale portata e la sua consistenza semantica.
Per Anna Foa, comunque, quello che è chiaro e indubitabile, oltre all’apporto religioso ultra-ortodosso a un governo iper-conservatore, è che quest’ultimo – nemmeno, secondo lei, giudicabile minimamente decente – stia guidando Israele, in modo irreversibile, verso il suicidio politico e territoriale. Innanzitutto per il suo essere destrorsamente razzista, data la presenza di due partiti dalla storia inequivocabile in tal senso, quali Otzama Yehudit, di cui fa parte Ben Gvir, e Tkuma, cui aderisce Bezalel Smotrich, entrambi protesi da sempre non solo a fare man bassa di spezzoni di territori palestinesi, ma soprattutto ferocemente e violentemente ostili alla componente araba in quanto tale. In seconda battuta, per aver deciso di seguire una linea dis-egualitarista e asimmetrica, oltre che territorialmente ‘occupazionistico-colonialistica’, fondata, anch’essa, sul principio discriminatorio dell’(auto-)elezione, la quale, per la studiosa, avrebbe per di più determinato lo spostamento di un numero notevole di divisioni dell’esercito al confine con la West Bank per supportare l’illegale azione espansionistica dei coloni, in tal modo lasciando completamente indifeso il confine con la Striscia. In terzo luogo, per aver completamente trascurato la pratica di negoziazione finalizzata alla riacquisizione degli ostaggi, preferendo, al contrario, l’organizzazione e la messa in opera di una pluralità di operazioni militari del tutto indiscriminate, da un lato, incapaci di distinguere tra civili innocenti e Hamas, dall’altro, penalizzanti, in modo sostanziale, qualsiasi iniziativa di carattere diplomatico intrecciabile con il nemico. E questo, ancora una volta, in nome di un processo biblico-teologico, e dunque religioso, di costruzione della Grande Israele, di cui il sionismo dell’ultra-destra di Netanyahu si sarebbe assunto e caricato il compito di condurre a esecuzione e a termine. Per Foa, il suicidio di Israele sarebbe prossimo, a fronte della situazione appena pennellata, e che sintetizza in un quadro complessivo:
Da otto mesi, mentre gli ostaggi muoiono e l’esercito va smentendo ogni giorno la leggenda della sua efficacia e tanti, troppi soldati muoiono anche per il fuoco amico, Netanyahu e i suoi ministri insistono in questa politica. La trasformazione di Israele in un paese autoritario avanza, la polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo-israeliani e dei territori detenuti senza processo, le dichiarazioni razziste dei ministri si moltiplicano, non senza conseguenze sulla società tutta. (Anna Foa, Il suicidio di Israele, Laterza, Roma-Bari 2024, p. 80).
E, continuando, individua proprio nella società israeliana, almeno in un’aliquota di essa, il germe della resistenza e della palingenesi rispetto a tale direttrice politica velenosa e nociva:
Una parte non indifferente della società civile reagisce nonostante le crescenti difficoltà: chiede la cessazione delle ostilità, la liberazione degli ostaggi, le dimissioni del governo. Ci sono militari che si rifiutano di andare a combattere a Gaza, preferendo la prigione. Si è formata addirittura un’organizzazione di genitori che invita i figli a rifiutare di combattere questa guerra.
Basterà a rallentare o a fermare il suicidio di Israele? Come fermarlo se non attraverso una sollevazione dell’intera società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora?
Quanto avviene si delinea infatti sempre più come una catastrofe non solo per lo Stato ma anche per il resto del mondo ebraico. (Anna Foa, ivi, pp. 80-81).
Tutte e tre le questioni sollevate da Foa sono capitali e imprescindibili, ma non per questo necessariamente condivisibili fino al punto di consenso – totale – che la studiosa, molto probabilmente, pur si aspetterebbe. Il governo Netanyahu, infatti, già di per sé sostanziosamente conservatore, di fronte a un attacco come quello sferrato da Hamas nell’ottobre 2023, anche in assenza del supporto e del soccorso dei due partiti altrettanto patriottistici ed ebraico-centrici che è palese ne abbiano inasprito i tratti di autoritarismo e di sur-nazionalismo iper-religioso, quasi certamente avrebbe adottato una linea dura come quella che poi ha deciso di seguire, tanto nei confronti del gruppo terroristico palestinese quanto nei confronti di quello libanese e yemenita. Anzi, tenuto conto del clima e dell’atmosfera permanentemente emergenziali in Israele, in ragione tanto della pressione operata dai gruppi oltranzisti arabo-islamici all’interno dello Stato ebraico e sui suoi confini quanto dell’irresoluzione del problema del controllo dei coloni israeliani, si può azzardare ad affermare che qualsiasi altro governo di unità nazionale, che non fosse stato a conduzione (ultra-)conservatrice ma addirittura progressista, posto dinanzi a una mattanza dei propri cittadini di una fattura come quella garantita dai militanti di Hamas e dai suoi spregiudicati affiliati, e in preda al terrore di vedere ripetersi quei soprusi e quelle sevizie di lì a breve o comunque in un prossimo futuro, non avrebbe sicuramente posto ostacoli a liberare una forza militare e di fuoco almeno pari a quella scatenata dall’attuale governo. Non si può dimenticare, infatti, che l’opposizione nei confronti di Netanyahu, democraticamente espressa già prima del 7 ottobre nero per contrastare l’approvazione da parte del Parlamento della riforma della giustizia, dopo quella data non si è tanto concentrata sulla richiesta di un cessate il fuoco in sé, ma su quella solo in quanto mezzo per agevolare il recupero degli ostaggi, figli, nipoti e amici dei manifestanti. A parte frange evidentemente e radicalmente pacifiste, gli israeliani, rispetto al pericolo esistenziale per il proprio Stato e per la propria comunità nazionale, tendono a compattarsi e a unirsi, lasciando da parte tutte le divisioni di carattere ideologico e politico. Per quanto Netanyahu sia inviso a molti, egli con una certa continuità, che ha raggiunto il grado temporale dei sedici anni quasi ininterrotti di governo, gode comunque del sostegno della maggioranza della popolazione, senza che questo tolga alla minoranza, che lo vorrebbe a casa in pantofole, la possibilità di contestarlo e di protestare contro le sue decisioni e azioni, in qualsiasi ambito esse vadano a cadere. Per questo, quando Foa ritiene che il suicidio di Israele sarebbe evitabile grazie a una sollevazione generale della società israeliana contro il suo capo di governo, in definitiva non vuole accettare che questa non abbia ancora deciso (democraticamente) di farlo, e che, al contrario, molto probabilmente, lo voglia ancora in sella proprio per il suo decisionismo politico e per la sua risolutezza militare, soprattutto in una fase, come quella attuale, in cui le tensioni militari con tutti i nemici di Israele – non solo e non tanto i palestinesi, ma tutte le forze terroristiche anti-israeliane e anti-semitiche – richiedono, per l’appunto, polso fermo, e, a tempo debito, capacità dialogico-diplomatica. Molti, infatti, di coloro che in Israele dicono di volere la pace – cosa in cui, di sicuro, credono fortemente –, in tanti casi la pensano non come uno stato assoluto di cose da statuire all’istante, ma, piuttosto, come una dimensione ‘succedanea’ rispetto a un conflitto che considerano del tutto inevitabile e anche necessario ai fini del raggiungimento della medesima pace. Dunque, pace sì, ma solo ‘dopo’ una guerra ‘giusta’ di difesa del popolo israeliano e di respingimento del pericolo terroristico. Foa, in questo senso, farebbe bene lei stessa a distinguere nella società che vede protestare contro Netanyahu e le sue scelte politiche quelli che lo contestano perché avrebbero voluto da lui che si occupasse solo degli ostaggi, trascurando il resto delle ragioni e delle esigenze proprie di uno Stato sovrano così duramente attaccato; e quelli che lo disapprovano ideologicamente ‘a prescindere’, in relazione a qualunque decisione assuma o a qualsiasi atto realizzi, e che quindi, anche se avesse liberato le colombe l’8 ottobre 2023 sulla Spianata delle Moschee e contemporaneamente dinanzi al Muro del Pianto o avesse porto personalmente l’altra guancia a Sinwar, capo di Hamas, in una seduta pubblica, semmai a televisioni mondiali unificate, sarebbe comunque stato criticato per il suo ‘sospetto pacifismo’, manifestante – si sarebbe detto – debolezza politica, fragilità identitaria e apertura a eventuali pericoli militari-terroristici.
Per quello, poi, che riguarda la questione dell’improprio posizionamento delle divisioni militari, sostenere, come fa Foa, che la concentrazione di queste al confine del West Bank sia stata determinata esclusivamente dalla volontà governativa di difendere e sostenere l’azione espansionistica dei coloni, per di più in ossequio proprio al sottostante e fondante principio religioso, fermamente da perseguire, della costruzione di una biblica Grande Israele, denuncia di non tenere in conto la maggiore complessità della situazione logistico-militare e politica dei giorni precedenti l’attacco di Hamas sulla Striscia e, soprattutto, di non considerare che le responsabilità di tante delle mancanze delle Idf siano da attribuire soprattutto a esse e non esclusivamente al governo. In merito al posizionamento delle divisioni, quest’ultimo, in accordo coi vertici delle forze armate, aveva evidentemente deciso di dirottare il maggior numero di uomini e mezzi nell’area allora considerata più bollente e da tenere sott’occhio, certamente sottovalutando i pericoli potenzialmente provenienti dal lato Gaza, e ciò, stando ai racconti dei militari successivamente raccolti, in ragione di un prolungato silenzio ‘militare’ in tale zona, tanto da far apparire il controllo e la sorveglianza del confine della Striscia come un operazione di ‘ordinaria’ e, quindi, ‘non perigliosa’ amministrazione. Spostare, seguendo Foa, il problema della mancata e tempestiva intercettazione militare israeliana dei combattenti di Hamas o dell’assenza di prontezza nel loro tamponamento in quel tragico primo mattino del 7 ottobre 2023 sul versante causale della sola ragione religiosa, capace di aver indebitamente fondato e guidato politicamente l’azione militare e confuso e deviato gli interessi strategici di un intero esercito dal vero problema, costituito – ma lo si saprà solo dopo! – da Gaza, serve unicamente a trascurare le tante responsabilità dell’esercito israeliano e le numerose falle della sua intelligence, tanto in termini di monitoraggio di dubbi movimenti o di sospetti non-movimenti di molti uomini nei pressi del confine della Striscia quanto dell’interpretazione e valutazione, in termini di pericolo, di alcune controverse e ambigue dinamiche che alcuni soldati, addetti alla vigilanza del confine di Gaza, pur avevano notato e segnalato ai loro superiori. In virtù di tale stratificazione di problemi e dati, tutti da tenere in considerazione, per evitare facili e strumentali riduzionismi esegetici, si rimanda a una più accurata disamina del problema militare israeliano in relazione a quel sabato nero di ottobre quale è presente nel resoconto puntuale composto da Sharon Nizza, giornalista freelance e collaboratrice di numerosi quotidiani e riviste nazionali, dal titolo 7 ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo (Gedi – La Repubblica, Torino 2024, allegato al quotidiano laRepubblica del 2 ottobre 2024), soprattutto in un suo illuminante quanto drammatico capitolo dedicato, per l’appunto, all’analisi delle tante anfibologicità e ombre che hanno caratterizzato l’azione dei militari israeliani dall’alba fino al termine della carneficina commessa da Hamas (Dov’è l’esercito?, pp. 121-167). In questa sede, però, pur di dar conto dell’imbarazzo esperito e delle difficoltà affrontate dalle forze armate israeliane coinvolte direttamente nel primo affrontamento delle milizie di Hamas, vale la pena riportare, in una buona sua parte, il teso dell’articolo di Fabiana Magrì, apparso su La Stampa del 05 ottobre 2024 (p. 4), che certo non insiste sulla componente religiosa, ma su quella squisitamente tecnica, per realizzare il suo compito esplicativo:
Una settimana fa lo Stato Maggiore ha acconsentito a inoltrare le registrazioni delle comunicazioni tra i soldati rapiti e assassinati nel massacro del 7 ottobre e i filmati delle telecamere di sorveglianza della base militare di Nahal Oz alle famiglie che avevano presentato richiesta alla Corte Suprema. Attraverso quegli audio e quelle immagini, i parenti delle vittime hanno potuto ricostruire le ultime ore di vita dei propri cari a partire dall’ultimo turno di servizio di ciascuno di loro. La Bbc, che ha avuto accesso a questi documenti, ha pubblicato la cronologia delle sei ore in cui la base israeliana è caduta nella trappola di Hamas. E ha rilevato che «attività sospette erano state individuate da molti soldati prima del 7 ottobre», che alcuni soldati avevano notato «un brusco arresto delle attività di Hamas nei giorni precedenti l’attacco» e che «diverse apparecchiature di sorveglianza erano fuori uso o potevano essere facilmente distrutte». L’esercito israeliano sta ancora conducendo la sua «indagine approfondita» sugli eventi del 7 ottobre, compresi quelli di Nahal Oz e «sulle circostanze precedenti». «Siamo andati a dormire il 6 ottobre pensando che ci fosse un gatto laggiù e ci siamo svegliati il 7 che c’era una tigre», ha detto il generale Ziv alla Bbc. «Non si muoveva niente e questo ci preoccupava – ha aggiunto un soldato di fanteria di stanza alla base –. Tutti sentivano che qualcosa era strano. Che non aveva senso». Tutti i movimenti di Hamas precedenti l’inizio del lancio dei razzi, alle 6,20 del mattino, sono stati interpretati come routine. È stato verso le 06,30 che le forze di Hamas sono state avvistate in avvicinamento. A quel punto, la situazione è precipitata. La recinzione si è rivelata tutt’altro che impenetrabile. I palestinesi armati hanno sparato alle telecamere di sorveglianza rendendo cieca la sala di guerra della base, detta Hamal, dove le sentinelle lavoravano su turni per coprire le 24 ore osservando Gaza. Anche il pallone spia di Nahal Oz, che avrebbe dovuto offrire una visuale più approfondita di Gaza, quel giorno non funzionava. Quando l’elettricità è stata tagliata da Hamas, la sala di guerra è rimasta vulnerabile. Così tutti i soldati nella base. I miliziani hanno iniziato a sparare e a lanciare granate. Un filmato mostra le soldate che vengono trascinate in un veicolo e rapite. Anche se alla fine del 7 ottobre, l’esercito ha ripreso il controllo, la base di Nahal Oz resterà nella storia uno dei simboli del più grande fallimento dell’esercito israeliano. Ai sopravvissuti e alle famiglie di coloro che sono stati uccisi e rapiti, scrive la Bbc, rimangono domande senza risposta su come sia potuto andare così male.
Ancora più analitica e, allo stesso tempo, più tagliente si presenta la recentissima disamina, pubblicata negli USA sul New Line Magazine, dell’eterogenea e complicata situazione dell’esercito israeliano in occasione dell’attacco ‘inaspettato’ del sabato nero, a firma di James Rosen-Birch, dal titolo significativo Com’è stato possibile il 7 ottobre (presentata in traduzione italiana in Internazionale [Fino a dove si spingerà Netanyahu?], 1583 (2024)), che mostra la palese irriducibilità del fattore militare alla ‘uni-esplicativa’ dimensione religiosa, come, al contrario, sembrerebbe proprio indicare la storica romana:
Parlando in pubblico Saar Koursh, ex amministratore delegato della compagnia di sicurezza israeliana Magal Security Systems – che ha costruito la barriera al confine con la Striscia di Gaza –, spesso si vantava dicendo che il territorio assediato era il suo show room. In un’intervista nel 2016 dichiarò: «Tutti possono mostrarvi una presentazione PowerPoint, ma pochi possono esibire un progetto complesso come quello di Gaza, costantemente messo alla prova in battaglia».
La barriera intelligente della Magal fa parte di un sistema integrato di muri in cemento, reti di sensori ad alta tecnologia, mitragliatrici automatizzate e torrette di osservazione, chiamato da alcuni israeliani il “muro di ferro”, in omaggio all’espressione coniata dal pioniere sionista radicale Zeev Jabotinsky. Quando fu completata, nel 2021, la barriera di confine a Gaza e il sistema di controlli su cui si basava erano considerati impenetrabili. I più di due milioni di palestinesi intrappolati dietro al muro erano tenuti lontano dagli occhi e dalle menti dell’opinione pubblica israeliana.
Con questo sistema ogni centimetro della Striscia di Gaza è regolarmente sorvegliato da droni, satelliti e palloni aerostatici spia. Tutte le comunicazioni sono intercettate da Israele e monitorate. Nel caso in cui i gruppi armati palestinesi volessero lanciare razzi oltre la barriera, anche il cielo è sorvegliato dal sistema di difesa missilistico Iron dome, finanziato dagli Stati Uniti. Nulla, si pensava, poteva succedere a Gaza senza che Israele lo sapesse.
Eppure, il 7 ottobre 2023 questo sistema di controllo apparentemente invincibile ha fallito in modo catastrofico. I dettagli ormai sono noti: quel giorno, cinquant’anni dopo lo scoppio della guerra arabo-israeliana del 1973, migliaia di miliziani di Hamas si sono infiltrati in territorio israeliano in un attacco coordinato da terra, cielo e mare. Hanno sequestrato più di duecento persone, hanno ucciso circa 376 agenti delle forze di sicurezza e soldati israeliani e 767 civili. Nonostante la sua sorveglianza su Gaza, l’esercito di Tel Aviv non è stato in grado di rilevare l’incursione, in alcuni casi è venuto a saperlo insieme al resto della popolazione attraverso i post sui social media e le telefonate concitate dal fronte.
La catena di comando israeliana messa sotto pressione ha ceduto e non è riuscita a organizzare un contrattacco fino alla fine della giornata. L’esercito si è affannato a muovere le sue forze verso sud, accorgendosi però di non avere mezzi di trasporto per le truppe. I soldati hanno dovuto usare auto condivise, scuolabus requisiti o chiedere passaggi per raggiungere il fronte, per poi restare fermi ore nei luoghi d’incontro stabiliti come distributori di benzina o parcheggi, in attesa che qualcuno desse gli ordini, anche se a volte si trovavano a pochi minuti di distanza dalle zone di combattimento. Con grande sconcerto di molti osservatori nel paese e all’estero, Israele ha impiegato due giorni per respingere un attacco terroristico che i suoi leader ed esperti avevano garantito sarebbe stato assolutamente impossibile.
Anch’io mi sono chiesto com’è possibile che un attacco così devastante sia potuto accadere sotto gli occhi dei tanto decantati servizi militari e d’intelligence israeliani. Ma io dispongo di una prospettiva unica per dare un senso a quello che è successo. Il mio campo di studi, la scienza dell’organizzazione, si occupa di come funzionano i sistemi sociali complessi, del perché falliscono e di come si possono migliorare. Nel caso delle cosiddette “catastrofi provocate dagli esseri umani”, come i cedimenti di grandi infrastrutture e gli attacchi terroristici, questo significa osservare la catena degli eventi che hanno condotto al disastro e identificare i punti critici in cui si poteva impedire o contenere.
Il duro sistema di controllo usato dal governo israeliano a Gaza prima del 7 ottobre è collassato a causa di problemi strutturali e operativi che si trascinavano da decenni all’interno delle forze armate e dei servizi d’intelligence, della sistematica disumanizzazione dei palestinesi che ha impedito agli analisti di riconoscerne le capacità, della crescente politicizzazione del processo decisionale militare e di un’ossessione per le “soluzioni” tecnologiche del conflitto a scapito di quelle politiche. I punti deboli creati da questo atteggiamento hanno profondamente indebolito l’apparato di sicurezza israeliano e hanno reso possibile l’assalto di Hamas, mandando in frantumi l’immagine di invulnerabilità di Israele (James Rosen-Birch (da New Line Magazine, Stati Uniti) «Com’è stato possibile il 7 ottobre» in Internazionale [Fino a dove si spingerà Netanyahu?], 1583 (2024), pp. 50-52).
In ultima analisi, v’è da porre all’attenzione della studiosa della Sapienza che la questione da lei sollecitata della capacità di un governo minimamente buono di pensare a risolvere il problema degli ostaggi piuttosto che quello di generare, con la propria risposta militare sproporzionata ed eccedente rispetto alla violenza scatenata dal nemico, una guerra senza fine, che quegli ostaggi condanna a una morte sicura, oltre a quella dell’opportunità politica e morale di saper distinguere tra civili palestinesi, innocenti e inermi, e i militanti terroristi di Hamas, colpevoli e imperdonabili, sono anch’esse degne di una riflessione critica di non secondo piano. Innanzitutto per il governo Netanyahu, come per quello di qualsiasi altro leader che si fosse trovato nella medesima scomodissima situazione, le due sfere problematiche sono così vicendevolmente e intricatamente intrecciate che distinguerle in modo così netto sarebbe (stato) solamente una questione teoretica, lontana anni luce dalla pragmatica politica e negoziale. Inoltre, se, per caso, il premier israeliano avesse offerto un peso maggiore al recupero degli ostaggi invece che alla guerra al terrorismo, sarebbe comunque stato attaccato da qualche parte e indicato come quel capo che, debole di cuore e sensibile eccessivamente rispetto a qualche cittadino sfortunato per essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, aveva rinunciato a intraprendere una più corposa e ineludibile battaglia contro il male assoluto, cui, evidentemente, poteva, purtroppo ma per forza di cose, essere sacrificato qualche israeliano. Quindi, sarebbe stato comunque giudicato come un capo di governo inadatto a quel ruolo e degno di essere quanto prima sostituito. Ora che, al contrario, egli, insieme ai suoi collaboratori – forse non i migliori con cui potesse accompagnarsi e consultarsi (non essendo, a detta di molti, lui stesso, il migliore possibile dei capi di governo di Israele), ma intanto quelli aveva a disposizione per la formazione di un governo di unità nazionale! – ha stimato e calcolato che fosse giunto il momento di occuparsi in modo determinato e il più possibile duro e definitivo del terrorismo internazionale, rappresentato dall’endogeno Hamas e dai limitrofi Hezbollah e Houthi, pure viene duramente criticato. E ciò non solo perché, così facendo, ha, in pratica, messo una croce sul destino degli ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas, ma perché – ed è questa, si ricorderà, l’altra pecca di Netanyahu secondo Foa – la sua azione militare di risposta alle violenze di tale formazione terroristica ha coinvolto indiscriminatamente e colpevolmente una parte notevolissima della popolazione civile palestinese. A tal proposito, però, vien da dire che Hamas non ha fatto nulla per evitare che gli uomini del proprio popolo, di cui politicamente e socialmente avrebbe dovuto prendersi cura in ragione della vittoria delle elezioni del 2006 che l’avevano consacrato primo ‘partito’ nella Striscia di Gaza, fossero coinvolti nei bombardamenti e nelle azioni di terra dell’esercito israeliano. Non bisogna dimenticare che Hamas ha sistematicamente costretto i palestinesi di Gaza ad accettare di ospitare i propri arsenali, di nascondere in casa propria i propri leader ricercatissimi dalla polizia israeliana e di ospitare gli ingressi, in qualche modo mimetizzati, dei tunnel labirintici attraverso i quali si svolgeva regolarmente il flusso di armi e di terroristi, oltre che, a un certo punto, anche degli ostaggi, in molti casi proprio in quei peripli abbandonati alla morte. E per quanto sia vero che per tale popolazione palestinese sia stato, in certi casi, difficile non assoggettarsi alle pressioni violente dei militanti di Hamas, in altri l’accettazione delle richieste del gruppo terroristico è stata assolutamente libera e debitamente ponderata, in quanto giudicata, con molta probabilità, come forma di accondiscendenza e di sostegno alla propria causa politico-nazionalistica. Per questo, neanche con l’uso delle più sofisticate apparecchiature di Intelligenza Artificiale, di cui son pur provviste le dotazioni d’arma e di monitoraggio digitali dell’esercito e dell’intelligence israeliani, si sarebbe potuto evitare che la popolazione civile palestinese fosse coinvolta nelle operazioni militari dello Stato ebraico. In fondo si parla di una guerra spazialmente e temporalmente estesa, e non di una semplice schermaglia tra vicini appena reciprocamente antipatici e/o ostili. E, a memoria d’uomo, nessuna guerra, di una qualche corposa intensità e durata, è stata mai ‘gentile’ e ‘rispettosa’ nei confronti della vita delle persone civili, già sempre destinate a essere gioco forza coinvolte negli attriti bellici tra Stati o tra compagini nemiche. Così, dunque, è avvenuto a Gaza e ora sta avvenendo in altri teatri di conflitto nelle aree mediorientali, più strettamente connesse all’ostilità verso Israele. Questo, però, v’è da dire, non toglie che la condotta delle operazioni militari da parte dell’esercito israeliano abbia probabilmente trascurato, in non poche circostanze, la possibilità di scegliere momenti alternativi, semmai, per colpire ed eliminare il terrorista di turno, così da evitare la causazione della morte di civili collateralmente inseriti nel raggio di azione delle bombe e dei missili desinati ad annichilire il bersaglio prefissato. Ma, al contempo, non si può dimenticare che per Israele il 7 ottobre ha rappresentato non solo un forte acceleratore della prassi militare antiterroristica, ma soprattutto una cesura radicale rispetto alle modalità con cui l’aveva pregressamente condotta, ovvero trasformandola da operatività a bassa e costante intensità a vera e propria cesoia bellico-militare, orientata a raggiungere i propri risultati strategici anti-terroristici a ogni costo, in ogni luogo e con tutti i mezzi possibili. Anche, e lo si è potuto ampiamente esperire, a prezzo e a spese di vite umane ‘innocenti’, colpevoli, semmai, solo di essere coartatamente solidali con i nemici acerrimi di Israele o solamente prossimi spazialmente a essi, oltre che – dettaglio non certamente trascurabile! – di essere liberi sostenitori dell’operato di quelli. Condizioni, queste, di cui, ormai, Israele non vuole assumersi più alcuna preoccupazione né tantomeno responsabilità, e se ciò può – e moralmente ‘non può che’, quindi ‘deve’! – apparire come insensibilità nei confronti della vita e della dignità umana, da parte israeliana viene descritto come l’esito, drammatico e straziante, di una condizione stringente ed eccezionale in cui lo Stato ebraico è stato costretto a trovarsi per difendere la sua esistenza e falciare, una volta per tutte, la zizzania terroristica che affligge la popolazione ebraica in terra israeliana e quella di tutte le nazioni occidentali, giudicate dai combattenti islamistici come le matrici originali/originarie del loro simulacro rappresentativo ebraico nel quadrante mediorientale.
Prima di passare alle considerazioni finali, è necessario per lo meno un cenno rapido all’argomento dell’antisemitismo, per come viene enucleato ed esposto da Foa – quale tassello imprescindibile per comprendere il percorso, a suo parere, dritto e irreversibile che Israele, governativamente parlando, starebbe battendo in direzione del suo suicidio –, e che, in effetti, meriterebbe, per la sua delicatezza storica e la sua multiformità fenomenologica, una trattazione specifica e un tempo di sedimentazione riflessiva autonomo. Per Foa, l’antisionismo attuale, o, comunque, la critica politico-militare odierna di Israele – che, per di più, sarebbe bene distinguere anche dall’antisionismo per così dire ‘classico’, in ragione dell’evoluzione storico-semantica che il concetto e la realtà del ‘sionismo’ hanno progressivamente subìto; ma pare che il problema in generale, sia nel mondo ebraico sia in quello accademico, non voglia essere molto più estesamente, seriamente e approfonditamente affrontato e discusso, nonostante se ne colgano i segnali, le tracce e le profonde implicazioni politiche e materiali in ormai moltissime attuali situazioni tensive in cui siano coinvolti gli ebrei quali oggetto di critica, di emarginazione, di ripulsa e di rigetto violento –, devono essere mantenuti nettamente distinti dall’antisemitismo, inteso come odio nei confronti dell’ebreo in quanto tale, a prescindere, cioè, dalla sua storica (e ormai esaurita) vocazione ‘pre-fondazionale-statuale’ a ricercare una terra per il suo popolo e dall’odierna tendenza a ‘israelianizzare’ tutta la dimensione ebraica ecumenicamente esistente. Per quanto questo sia vero sulla carta, in base alle definizioni, sempre più dettagliate e semanticamente circoscriventi, dei due fenomeni presi in considerazione (antisionismo e antisemitismo), e per quanto sia richiesto, a gran voce, soprattutto in ambito ebraico, tanto israeliano quanto diasporico – come dimostrato dalla famosa lettera aperta firmata da più di mille intellettuali ebrei e pubblicata agli inizi di novembre 2023 sul magazine on line statunitense N+1, per poi essere riportata sul numero 1583 (2023) di Internazionale (pp. 56-57), non ci si può nascondere che l’impropriamente appellato ‘antisionismo’ – che qualifica l’attuale disapprovazione dell’opzione bellica di Israele nei confronti dei palestinesi e la tendenza ebraica a riproporre posture politiche, ormai consolidate, di carattere segregazionistico e occupazionistico – in effetti si costituisce, in modo quasi ‘naturale’, come il miglior veicolo e conduttore di orientamenti antisemitici. Soprattutto nel momento in cui, accanto alle critiche appena riferite, pone la richiesta della demonizzazione, della delegittimazione e dell’annichilimento esistenziale di Israele in quanto Stato. Non è per nulla infrequente, infatti, l’inneggiamento, soprattutto nelle piazze pro-palestinesi di sempre, di quelle post-7 ottobre in particolare e, in modo esorbitante, di quelle pre-vigilia dell’anniversario della mattanza degli ebrei abitanti nei kibbbutz adiacenti al confine meridionale della Striscia, non solo alla giustificabilità, morale e politica, della cosiddetta ‘resistenza’ palestinese attraverso il terroristico Hamas, non solo alla violenza delle Brigate Al-Qassam, braccio armato della peggiore fattura di tale gruppo pseudo-politico, ma anche e soprattutto alla demolizione e alla distruzione di Israele. Quando, anche sui muri di paesini della periferia di città metropolitane italiane – che paiono del tutto estranei, non tanto geograficamente quanto culturalmente, alle trame complicate della questione israelo-palestinese e delle tensioni mediorientali, e che non mostrano, in certi casi, attenzione ‘civica’ nemmeno nei confronti degli stessi propri problemi politici specificamente piccolo-comunitari – si trova scritta una frase del genere “Morte a Israele genocida”, ci si rende conto che non vi sia bisogno di attendere altro tempo prima di lanciare l’allarme-antisemitismo e, soprattutto, l’emergenza-antisionismo, nella misura in cui quest’ultimo, ormai, sta sempre più assumendo le sembianze dell’avversione nei confronti dell’ebreo in sé, piuttosto che quella nei confronti della politica autoritaria degli israeliani, significato, come sopra segnalato, anche questo fortemente discutibile. Per tale ragione, pare per lo meno controversa e necessariamente da problematizzare ulteriormente la posizione assunta da Foa su quella che lei ritiene una definizione eccessivamente lata e onni-inclusiva del concetto di ‘antisemitismo’ elaborata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) – ripresa, per essere radicalmente biasimata, stigmatizzata e rivisitata dagli estensori della ‘Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo’, composta nel 2021 –, tale non solo da elidere il confine tra la giurisdizione significale di tale termine e quella di ‘antisionismo’, ma anche da rendere impraticabile ogni pur legittima critica nei confronti dell’operato del governo israeliano quando la meriti. Per Foa, dunque,
È necessario, a questo punto, ricorrere a una definizione dell’antisemitismo che consenta di mettere dei paletti e di distinguere nettamente ciò che lo è da ciò che non lo è. Ma anche qui la situazione è complicata. Di definizioni ne abbiamo due recenti. Una è quella dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), del 2016, adottata sinora da 43 Stati, Italia compresa, che pone un legame stretto tra antisionismo e antisemitismo. L’altra è quella di Gerusalemme, del 2021, opera essenzialmente di ambienti accademici israeliani e americani preoccupati delle conseguenze che la definizione dell’IHRA avrebbe avuto sul piano della delegittimazione delle critiche ad Israele come antisemite. Il documento di Gerusalemme definisce l’antisemitismo come «la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità e la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche) (Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo, 2021).
Tutto ciò è diventato ancora più importante in questo momento. Infatti come possiamo oggi limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine “antisemitismo” ad ogni condanna della guerra di Gaza? Paragonare il clima di oggi a quello che in Italia accompagnò le leggi razziali del 1938, come è stato fatto, mi sembra una vera e propria forzatura, che fa eco alle affermazioni con cui Netanyahu accusa ogni opposizione alla sua politica di essere antisemita, all’interno come all’esterno. Non è che a forza di estendere a dismisura la nozione di antisemitismo finiremo per perderne la natura e la specificità?» (Anna Foa, op. cit., pp. 82-83).
Alla domanda della studiosa dell’università romana – di cui è evidenziabile tanto il tormento interno che caratterizza la sua ricerca continua di senso all’interno dei fenomeni che sottopone alla sua intelligenza razionale quanto la sua tendenza a prendere in considerazione il numero più ampio possibile di dati a disposizione così come quella a mantenere (quando vi riesca, e non sempre, a dire il vero!) posizioni di equidistanza analitica e valutazionale – si potrebbe rispondere, sinteticamente, con una contro-domanda. Ma non è che a forza di fare le pulci alle definizioni di antisionismo e di antisemitismo e di impiegare goniometri e righelli altamente precisi per meglio distinguerle e separarle si finirà per non riuscire a cogliere la saldatura tra tali due dimensioni, che, oltre a essere, per l’appunto, definizioni da ‘statico’ vocabolario, sono principalmente fenomeni storici, sociali, ideologici, politici e materiali oltremodo ‘liquidi’ e ‘proteiformi’, di cui – lo si ripete – sarebbe opportuno captare l’attuale pericolosa con-giunzione e fusione? E ciò soprattutto in quegli ambienti progressisti e in molti di quelli accademici, nei quali il rifiuto di ammettere il vicendevole travaso e confluenza tra i due, e soprattutto dell’antisemitismo nell’antisionismo (inteso erroneamente, oggi, eppure così praticato, di ‘critica alle decisioni del governo’ in carica e di biasimo nei confronti della storia autoritaria e segregazionistica dell’Israele statuale), si attua principalmente come strategia auto-assolutoria per potere avere la coscienza ‘scientificamente’ libera di potere esprimere un radicale dissenso nei confronti dello Stato ebraico sino ai vertici espositivi di una sua delegittimazione e della prospettazione di una sua destituzione territoriale? Se qui si solleva questa interrogazione è perché è realmente concreto e serio il timore che il pericolo di una con-vergenza sistematica, seppur sottotraccia e latente, quando, in ormai numerosissimi casi, estremamente visibile, tra antisionismo radicale proprio degli estremisti di sinistra così come di quello, più raffinato e ‘scientifico’, degli accademici e degli intellettuali progressisti, e antisemitismo della peggiore specie e fattura, sia colpevolmente sottovalutato o del tutto trascurato, in tal modo consentendo a quello che è possibile definire ‘antisionismo antisemitico’ (cfr. Pietro Polieri, Il conflitto irrisolto. Israele e palestinesi, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, pp. 45-114, in relazione al capitolo intitolato L’aria amara. Il cortocircuito dell’‘anti-sionismo anti-semitico’) di prendere piede, diffondersi e affermarsi indisturbato nel tessuto di quelle società occidentali che ritengono di aver risolto il problema di tenere a bada l’antisemitismo grazie al solo fatto di averne tracciato meccanicamente, staticamente e accademicamente i confini definitori, sollevandosi, così, da ogni responsabilità per l’appunto antisemitica quando esse stesse avanzano critiche letteralmente/ontologicamente ‘distruttive’ rispetto allo Stato di Israele. Ed è all’interno di tale circonferenza interpretativa che le parole di Foa assumono, ancora di più, un profilo non poco inquietante e allarmante, in quanto paiono sottostimare la carica antisemitica che pur sembra passare dalle affermazioni, dagli slogan e dai comportamenti di molti giovani impegnati solo nella denuncia della politica d’aggressione anti-palestinese del governo Netanyahu e delle operazioni militari dell’esercito israeliano contro Hamas, e mai dell’assalto vergognoso di quest’ultimo, il 7 ottobre 2023, nei confronti di civili ebrei indifesi. Parole che preoccupano in quanto danno l’impressione di non voler vedere che proprio in tali apparentemente ‘normali’ e ‘comprensibilissime’ costellazioni ideologiche e militanti, di stampo (ultra-)progressistico e/o anarchico, si annidi la germinazione convulsa di nuove, quanto antiche, forme di antisemitismo:
Che fare, ad esempio, quando gli studenti, anche adottando parole d’ordine che in qualche caso possiamo definire antisemite, si battono contro dei veri e propri massacri? Limitarci a denunciarli come antisemiti? Non riesco a non riconoscere in molte di queste loro parole d’ordine, sia pur confuse e inadeguate, l’insegnamento che ha fatto parte del nostro percorso memoriale, che la Shoah debba essere un insegnamento e un monito per tutti i genocidi, che questo non debba succedere più a nessuno, non ai soli ebrei. È vero che in molti casi siamo di fronte a movimenti che per attaccare la politica israeliana giungono anche ad attaccare gli ebrei in quanto tali. È antisemitismo, certo, ma non un antisemitismo di Stato, come in Italia nel 1938, come viene spesso richiamato a sproposito. È un antisemitismo con cui si può provare a discutere, a parlare, a spiegare.
Per questi movimenti, il sionismo è colonialismo, apartheid, razzismo. Combattendo Israele, considerando la guerra di Gaza tout court come un genocidio, gli studenti, o almeno la maggior parte di loro, credono di battersi contro il Sudafrica dell’apartheid, il razzismo dell’America degli anni Cinquanta, l’imperialismo in Vietnam. Queste pagine sono rivolte anche a dire loro che le cose non sono così semplici (Anna Foa, op. cit., pp. 83-84).
Il problema sta nel fatto che Foa innanzitutto ritenga del tutto assodato l’assorbimento da parte di tali giovani generazioni di studenti militanti della lezione della e sulla Shoah, quando in moltissimi casi essi l’hanno snobbata, insieme a molti dei loro docenti, dopo averla considerata come una mera ritualità sterile e un assillo mnestico insopportabile e intollerabile, nel momento stesso in cui la memoria dell’Olocausto è stata istituzionalizzata. Per cui all’avversione per tutto quanto sia ‘ordinatamente’ istituzionale e formalizzato si è andata ad aggiungere l’insofferenza per la celebrazione del solo dolore, ebraico e non, per lo sterminio del popolo d’Israele in Europa per mano nazista e fascista. In secondo luogo, Foa elabora, in pratica, l’idea di una sorta di ‘antisemitismo educabile’, che caratterizzerebbe l’identità formativa di tali giovani studenti per il solo fatto di essersi abbeverati, nel tempo scolastico – e non certo in quello universitario, se si fa riferimento a quella parte del mondo accademico che non ha perso tempo, attualmente, a manifestare una direttrice anti-israeliana! – alla cultura della ‘olocausticità’ ebraica, quando, a pensar male, o forse ‘bene’, addirittura ‘benissimo’, soprattutto a partire dall’esperienza storica non pare proprio esista un antisemitismo dalla struttura flessibile, che risulti modificabile e/o reversibile a comando, o meglio, sotto la sola pressione di una sana argomentazione teoretica e storica. Quando l’antisemitismo, implicito nell’antisionismo radicale, che colpisce al suo cuore identitario-esistenziale lo Stato d’Israele, si sposa con l’antimperialismo, l’antisegrazionismo e l’anticolonialismo connessi al più ampio, profondo e generale anticapitalismo di una sinistra estrema, quando non occultamente ‘progressista’ e ‘riformista’, le possibilità di una sua rimodulazione e di una sua remissione razionale diventa una vera e propria chimera. Per di più, credere, come Foa, che tale antisemitismo ‘giovanile’ e ‘di sinistra’, proprio di imberbi ma in fondo maturi studenti progressisti, sia non solo ingenuo, per quanto consapevolizzato, ma soprattutto innocuo e inoffensivo, che, cioè non dia adito a pensare che si possa tradurre in una sua forma più ampia e pericolosa, produce un certo sconcerto. Soprattutto quando la studiosa argomenta che, in fondo, ci si trovi, con quello studentesco progressistico, di fronte a un antisemitismo inefficace in quanto non strutturato come ideologia di Stato. Ma, forse, bisognerebbe ricordare a Foa che proprio il vocabolario e ‘l’azionario’ antisemitico più ‘bonaccione’, grezzo e apparentemente debole e insignificante, tipico di frange violente di militanti paradossalmente inneggianti alla pace, storicamente si è trasformato in antisemitismo di Stato, senza che fosse chiesto il permesso alle università o alle migliori intellettualità liberali e/o progressiste. Pensare, dunque, che quello delle manifestazioni pro-palestinesi e pro-Hamas sia un antisemitismo che, alla fine della fiera e in effetti, vuole ‘dire altro’, ovvero comunicare un grande messaggio di libertà e di avversione contro tutte le violenze, semmai pure sostenuto da quelli stessi docenti, liceali, ma soprattutto, in troppi casi, universitari, che coltivano le menti di quei medesimi studenti ‘violentemente pacifisti’, è un sogno da cui ci si può svegliare male. Ovvero rientrando in una realtà, del tutto anti-emancipatoria, anti-liberale e contro-democratica che si riteneva fosse impossibile si ripresentasse. Mentre, al contrario, corrisponderebbe proprio quella che si sarebbe contribuito a erigere grazie alla propria filosofia pseudo-liberatoria, progressisticamente perbenistica e fondamentalmente lassistica, di per sé sottostimante quella connotazione di pericolosità, che poi, chissà perché e per come, all’improvviso, ‘inaspettatamente’, diventa realtà di fatto, diffusa, irrefrenabile e incontenibile.
Ma è tempo di condensare le conclusioni. Se, quindi, Israele, nonostante le numerose condanne internazionali del suo operato militare in risposta alle violenze di Hamas dell’ottobre 2023, ha sempre potuto tenere in piedi e anzi intensificare le proprie operazioni strategiche/militari ed estendere l’area di intervento bellico anti-terroristico alle zone circonvicine, questo gli è stato consentito dall’effettivo appoggio incondizionato, in termini di denari e di armi, della gran parte delle potenze occidentali e da quelle arabo-islamiche e musulmane moderate, che, pure, pubblicamente, ne hanno spessissimo criticato la condotta anti-umanitaria. Tali potenze, che vedono in Israele una propria propaggine statuale, culturale ed economica in quel teatro geopolitico mediorientale dove altri colossi nazionali, come l’Iran, vorrebbero emergere – semmai proprio intendendo in tal modo scalzare il nemico occidentale o l’avversario diversamente islamico, di area arabo-saudita –, solo in apparenza, anche quando duramente, contestano il proprio ‘figlio mediorientale’ o il proprio nuovo ‘alleato acquisito’, mentre, in effetti e in verità, lo impiegano come una propria protesi attiva, anche oltremodo autonoma e determinata, per affermare leadership inedite e cominciare a intessere nuove reti di interessi commerciali, tecnologici e securitari, che già i citati Accordi di Abramo del 2020 avevano cominciato a strutturare solidamente, ponendo la causa palestinese in subordine rispetto a tutte le altre, se non proprio nel più tenebroso oblio. Sta di fatto che, raccontata in questo modo, la storia recentissima di Israele, oltre a smentire la narrazione che lo vuole in preda a una triste e tragica solitudine internazionale, oltre a presentare un governo (Netanyahu) tutt’altro che praticante una cieca e torbida teoria del ‘cane pazzo’, ma, al contrario, dedito – grazie, anche e soprattutto, a un effettivo conforto e sostegno progettuale internazionale a breve e lungo termine – a una razionalissima strategia di demolizione multi-frontale di quel terrorismo globale con basi in Paesi a Israele territorialmente prossimi e tradizionalmente ostili, destituisce di senso anche la sua descrizione attuale, foaiana, in termini di ‘suicidio’, dal momento che lo Stato ebraico, da un lato, sta combattendo, in forme ‘eccezionali’ – che certamente i più giudicano ‘eccedenti’ e demonizzano – e in condizioni altamente ‘emergenziali’, per la sua esistenza territoriale sovrana, e quindi non per la sua estinzione/morte, dall’altro, in questa sua guerra anti-terroristica a tutto campo e senza pause viene strutturalmente e robustamente accompagnato da Stati occidentali e da Paesi arabi e musulmani, protesi a vedere annichilito il nemico sciita iraniano e a comporre uno scenario relazionale internazionale inedito e produttivo di benessere, il più possibile da condividere a stretto giro, o comunque, in un futuro non troppo lontano, all’interno di una sorta di ‘pax israeliana’, voluta e legittimata trans-statualmente in virtù di un nuovo patto obliquo occidentale/mediorientale. Situazione, questa, in cui la centralità di un tempo della questione palestinese sembra proprio progressivamente affievolirsi se non proprio estinguersi agli occhi dei nuovi protagonisti dell’agone regionale e globale al contempo, per lasciare spazio, nella prospettiva di costoro, a ben più complesse, intriganti e appaganti trame internazionali. Ragion per cui l’idea di Anna Foa di un imminente quanto inesorabile ‘suicidio’ di Israele a causa del perseguimento, secondo lei, di specifici obiettivi esclusivamente ed evidentemente neo-sionistici e ultra-religiosi da parte del governo Netanyahu sembra effettivamente e notevolmente scricchiolare e vacillare, per non dire proprio che non paia tenere affatto, nella misura in cui non solo Israele seguita a esistere, ma in tal senso è aiutato proprio da quegli Stati che ne animano pubblicamente quanto solo apparentemente il discredito internazionale. E, se si vuole (dire) a tutti i costi che quello di Israele sia un destino di suicidio, si deve ammettere, pur tuttavia, che lo sia in modo del tutto originale. Ovvero un suicidio ‘assistito’, che, grazie proprio a tale assistenza (pluri-statuale) da parte di coloro che sembrerebbero volerlo morto, ottiene il risultato paradossalmente opposto di continuare a garantir(n)e l’esistenza. Quella di uno Stato giovane, Israele, che a tutti fa comodo criticare, per molteplici ragioni politico-elettorali-ideologiche e pseudo-etiche interne, ma che a ciascuno serve più che mai ‘vivo’, e addirittura nella forma ‘dura’ in cui lo è attualmente, per poter esso stesso, utilitaristicamente, perpetuare la propria esistenza. Volere morto Israele? Questo sì che sarebbe un suicidio! Ma per il vecchio Occidente e per il nuovo Medioriente!