L’alto rischio terrorismo che incombe sull’Europa, come effetto di quello che sta accadendo in Medio Oriente, ha diffuso il panico in molte Cancellerie. La più grande paura di molti capi di Stato e di governo europei e Occidentali, infatti, è che la guerra nella Striscia di Gaza porti il terrore nei propri Paesi. Ma le intelligence sono al palo e la politica prova a limitare i danni.
Il rischio di attacchi terroristici, più o meno strutturati, fa tremare i polsi a tutti: da Biden a Macron, passando per Scholz, Meloni, Sunak e altri. Nessuno può garantire la piena sicurezza ai propri cittadini, per una lunga serie di motivi: non ultimo le difficoltà delle intelligence europee impossibilitate a gestire un fenomeno così esteso con poche risorse di uomini e mezzi. Scordiamoci le scene di film action in cui impavidi 007 salvano il mondo potendo contare su ampi mandati e infiniti strumenti. La realtà è ben diversa.
Terrorismo: l’Europa è piena di lupi solitari
Che l’Europa, ad esempio, sia piena di lupi solitari fuori controllo e ipoteticamente pronti a colpire, è un dato ormai acquisito dal giorno in cui Hamas ha attaccato Israele. Forse anche da prima, ma in pochi hanno voluto prendere coscienza del rischio. Dopo il 7 ottobre, però, i governi sono stati costretti ad ammettere, assicurando nel contempo il massimo impegno per garantire la sicurezza.
Dunque, nel momento esatto in cui si è avuta notizia delle azioni del gruppo terroristico, la preoccupazione è dilagata in tutte le Cancellerie europee e anche oltreoceano. L’Europa, incapace di gestire un’immigrazione ormai selvaggia, è consapevole di avere al suo interno numerose potenziali mine pronte a esplodere, ma non è in grado di individuarle, in parte perché sottoporre tutti i clandestini (e non) a più rigorosi controlli e monitoraggi avrebbe costi enormi e difficilmente sostenibili. Ma in parte anche perché questo tipo di controllo farebbe scattare le proteste da parte dei soliti gruppi pro immigrazione che, nella migliore delle ipotesi, lancerebbero accuse di persecuzione e razzismo.
Quindi, il vero problema è che le intelligence europee non sono in grado di individuare il pericolo per tempo in modo da mitigare il rischio. E i pericoli sono troppi, spesso nascosti. Personaggi e profili mai emersi che però potrebbero essere un potenziale pericolo. E poi, in Italia come in altri Paesi europei, le risorse umane sono poche. La necessità di garantire la cyber sicurezza ha convinto molti decisori (politici e non) che la presenza di agenti sul terreno, il reclutamento di nuove antenne e la famosa humint, potessero essere sacrificati per alimentare la rete di ‘smanettoni’ che cercano i cattivoni nei meandri oscuri del web. Che sia chiaro, quelli sono fondamentali, ma non possono essere gli unici.
L’8 ottobre, tutti i capi di Stato e di governo europei hanno convocato d’urgenza i vertici dei rispettivi servizi segreti chiedendo conto della situazione sicurezza all’interno dei propri confini nazionali. Dalla Svezia all’Italia la risposta è stata più o meno univoca, al netto di qualche isolato distinguo: il rischio è altissimo.
E mentre la parola d’ordine per tutti è stata quella di fare il massimo per correre ai ripari, si sono manifestati gli effetti della negligenza occidentale. Il 16 ottobre, ad esempio, a Bruxelles un tunisino spara in mezzo alla strada e uccide due svedesi. Sul web compare la rivendicazione, ma il danno era già fatto. Magari, se quel tunisino fosse finito per tempo sotto la lente dei servizi segreti sul terreno, l’ennesimo attentato si sarebbe potuto evitare. O forse no. In ogni caso non avremo mai la prova contraria. E anche l’algerino fermato ad agosto nella metropolitana di Milano, risultato poi destinatario di un mandato di cattura per terrorismo spiccato proprio dall’Algeria, viveva in Italia da un anno. Un anno, non un giorno o una settimana. 365 giorni durante i quali avrebbe potuto commettere qualsiasi tipo di reato.
La politica equilibrista per evitare danni a casa propria
A complicare ulteriormente la situazione dei leader occidentali, dopo la risposta militare di Israele su Gaza, sono arrivate le proteste di piazza pro palestina, filo Hamas, contro Israele e l’antisemitismo mai sopito che ha alzato di nuovo la testa. La politica, dunque, deve fare i conti non solo con i terroristi importati, ma anche con potenziali sommosse popolari manovrate da chi supporta il terrorismo e i terroristi, oltre che da gruppi ideologizzati che da sempre hanno pulsioni anti sistema.
Per tentare di governare tutto questo, è partita una imponente azione diplomatica guidata dagli Stati Uniti per fermare la guerra. Ma la strategia occidentale ha soprattutto l’obiettivo di provare a governare gli effetti della guerra all’interno dei confini nazionali dei singoli Paesi. Quindi è partita un’opera di equilibrismo politico, diplomatico e istituzionale per riconoscere ad entrambe le parti, israeliani e arabo – palestinesi, i rispettivi diritti in modo da scongiurare azioni violente. Ma se l’obiettivo di questa strategia è in via prioritaria quello di limitare i danni a casa propria, non funzionerà perché, è noto, gli estremisti, per definizione, sono refrattari alla moderazione.