La battaglia per il voto in Libia è appena iniziata. A distanza di 10 anni dalla morte di Gheddafi, il figlio Saif si candida per le elezioni che dovrebbero svolgersi il 24 dicembre. Il condizionale è d’obbligo visto il contesto caotico in cui versa il Paese, ma le prospettive di un fallimento della tornata elettorale sono peggiori. E questo lo hanno capito (finalmente) anche quelli che hanno destabilizzato l’area sulla scia del falso mito della Primavera araba.
A distanza di anni, dunque, quell’esperimento di esportazione della democrazia (ancora una volta) si è dimostrato fallimentare e utopistico. Secondo molti analisti, Saif Gheddafi ha molte chance di vittoria, addirittura potrebbe raccogliere tra il 60 e il 70% dei voti. Uno schiaffo alla politica dell’ingerenza negli affari di Paesi complessi che vanno analizzati sulla base del contesto e della storia di un popolo e non applicando i parametri di una presunta superiorità democratica dell’Occidente. La storia dell’Afghanistan, del resto, racconta proprio questo e dopo il ritiro catastrofico degli Stati Uniti e della coalizione internazionale, tutti hanno dovuto fare mea culpa. In Libia la situazione è più o meno la stessa.
Da anni, esattamente dal 2017, da queste pagine abbiamo portato all’attenzione dei nostri lettori la figura di Saif Gheddafi e dell’intero clan, e non per simpatie personali o affinità ideologica, bensì per la necessità di evidenziare le differenze che esistono tra i popoli che abitano la vasta area del Mediterraneo. Su questa scia, anche se non viene raccontato, quello che sta accadendo in Egitto. Nonostante anche lì la Primavera araba abbia destabilizzato il Paese pretendendo di imporre il pacchetto pre-confezionato della democrazia occidentale, oggi al potere troviamo un generale, Abdel Fattah al-Sisi, considerato un dittatore che nega i diritti umani e sopprime il dissenso come da copione di ogni regime. Elementi incontrovertibili, ma parallelamente l’Egitto sta crescendo economicamente e, tra le altre cose, al Sisi ha dato il via libera alla costruzione di una città amministrativa alle porte de Il Cairo. Ospiterà la sede del Parlamento, uffici, ministeri e ambasciate straniere. Il progetto è stato definito faraonico anche per sostenibilità ed efficienza che la città dovrebbe avere.
Anche Saif, quando il padre era al potere, ha portato avanti progetti finanziari importanti per la Libia. Ma più in generale, una parte consistente di libici apprezza il suo nazionalismo e la volontà di eliminare l’ingerenza straniera nel Paese.
Ma il percorso di Saif verso la vittoria non sarà facile
Dopo l’annuncio della sua candidatura, già nell’aria da molto tempo, in Libia si è diffuso un appello a boicottare la sua elezione. Gruppi di potere (come ad esempio i rivoluzionari del 2011, alcune realtà tribali della Tripolitania, lo stesso istrionico generale Haftar che si è candidato lui stesso alle presidenziali del 24 dicembre dopo Saif, oltre che la parte dei Fratelli Musulmani fiancheggiati dalla Turchia), hanno fatto sapere di essere contrari. Ognuno ha i suoi interessi e le sue motivazioni, ma secondo fonti locali “se il figlio di Gheddafi si è candidato sa di poter avere degli appoggi, anche internazionali. Altrimenti non avrebbe fatto questo passo”. Solo il futuro potrà dare una risposta precisa. Nel frattempo “gli interessi internazionali” non sono solo quelli legati alle risorse energetiche. L’Europa (e l’Italia in particolare), devono fare i conti con il problema dell’immigrazione. Fermarla o regolamentarla non sarà facile, lo dimostra la crisi in corso al confine tra Polonia e Bielorussia. Dunque occorre trovare una soluzione che non potrà essere a buon mercato. Forse, l’Europa e l’Occidente in generale, in nome della stabilità dell’area, dovranno accettare in Libia il figlio del dittatore deposto. Così come hanno accettato Al Sisi in Egitto, con buona pace dei diritti umani.