Ad un anno dalla rovinosa ritirata degli Usa dall’Afghanistan, scorrono a fiumi le lacrime di coccodrillo degli stessi ‘pensatori’ che per anni hanno supportato l’esportazione della democrazia nel Paese. Adesso, mentre piangono il destino delle donne afghane, la violazione dei diritti umani minimi, la crisi economica in cui versa il Paese e la presenza dei terroristi (tornata se possibile a livelli superiori all’inizio della guerra), si interrogano sul destino della popolazione abbandonata a se stessa. Dopo 20 anni di presenza occidentale, infatti, il Paese è velocemente tornato indietro e sarà sempre peggio.
Per porre rimedio al danno creato, dagli Usa sarebbe partita l’operazione di sostegno alla Resistenza guidata da Ahmad Massoud, figlio del defunto leader della resistenza Ahmad Shah Massoud. Con quali possibilità di riuscita non è dato saperlo ma, secondo alcune informazioni, il movimento del figlio del “Leone del Panjshir” starebbe ingrossando le sue fila anche con ufficiali delle Forze armate della Repubblica islamica dell’Afghanistan addestrati dai Paesi occidentali.
In un’intervista rilasciata ad Agenzia Nova, l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, già diplomatico d’Italia a Islamabad, in Pakistan, ed ex alto rappresentante civile della Nato in Afghanistan che ha gestito il ritiro del personale civile Nato e di molti collaboratori afgani da Kabul nelle fatidiche settimane che hanno visto il Paese ritornare sotto il controllo dei talebani, spiega: “La resistenza mantiene ancora un basso profilo, ma diversi generali delle ex Forze armate afgane hanno aderito. Sta crescendo, ha compiuto una serie di azioni dimostrative di successo a dimostrazione del fatto che i talebani sono troppo sparsi sul territorio e sono troppo pochi per mantenerne il controllo. Credo che crescerà e avrà ancora più aderenti man mano che aumenterà il malcontento della popolazione”. Pontecorvo, che durante l’intervista non parla mai dell’esistenza di un sostegno estero alla Resistenza afghana, avverte però sul rischio che l’espansione di questo movimento possa innescare un “conflitto interetnico tra la maggioranza etnica pashtun e altre componenti della società afgana come tagichi, uzbechi e sciiti hazara”.
Fonti di Ofcs.report interpellate sulle reali potenzialità della Resistenza guidata da Mansoud confermano la crescita del movimento e sostengono che questo è possibile anche grazie al supporto estero. In primis degli Usa che, nonostante la fuga precipitosa dal Paese, mantengono ovviamente una presenza “sotterranea” tale da poter contribuire allo sviluppo dell’opposizione al regime Talebano, anche in chiave anti-terrorismo. Dove porterà tutto questo è prematuro dirlo. Al momento l’attenzione del mondo è focalizzata in Ucraina e questo consente di intervenire in modo meno plateale in aree come l’Afghanistan dove sono presenti gruppi terroristici come Al Qaeda e Isis. A conferma di ciò, il 31 luglio scorso, gli Usa hanno eliminato in Afghanistan Ayman al Zawahiri, leader di Al Qaeda, che da tempo era ospite della foresteria della polizia afgana a Kabul. Solo un ingenuo, infatti, avrebbe potuto credere alle promesse dei Talebani rispetto a quanto stabilito dagli accordi di Doha, tra cui il rispetto dei diritti umani e la garanzia di non ospitare nel Paese i terroristi. Ma le cose sono evidentemente andate in modo diverso.
I talebani non sono cambiati, non cambiano e non cambieranno
E oggi, in Afghanistan le donne tentano di riprendersi gli spazi che avevano conquistato e che sono stati tolti dal regime. Scendono in piazza per chiedere di lavorare, studiare, vivere una vita normale. Ma la risposta sono gli spari in aria dei talebani che le attendono per strada, pronti a sedare le proteste in ogni modo. Il cambiamento culturale che i democratici occidentali puntavano ad ottenere, si è scontrato con la realtà di un Paese in cui la presenza dell’oscurantismo ideologico è ancora molto forte. E non basta un cambio di generazione, e forse nemmeno di due generazioni. È un processo lento, che richiederà molti decenni.
Intanto, sarebbe opportuno che ‘pensatori’, scrittori, giornalisti e politici occidentali imparassero davvero usi e costumi di questi posti. Non basta, infatti, partire per fare reportage. Bisogna vivere e conoscere un Paese nella sua interezza e non solo nella parte di interesse. L’Afghanistan non è composto solo dalla larga maggioranza di coloro che, silenziosamente o in maniera esplicita, protestano e si oppongono al regime. Esiste una fetta, molto ampia, di popolazione che aderisce per convinzione alle ideologie talebane ed un’altra composta da una minoranza influenzata dall’Isis. Un pensiero che è un modo di vivere, di comportarsi, di approcciare alla vita difficile da scardinare e che costituisce ancora la maggioranza della popolazione afgana. Quindi, ascoltare solo gli oppositori al regime non basta. E’ necessario parlare con il regime e con chi la pensa come i talebani. Solo così sarà possibile comprendere quanto sia radicata l’ideologia che li sostiene e che non permette un reale cambiamento. Quando l’Occidente capirà questo, forse potrà davvero aiutare le donne afgane che protestano. Nel frattempo, per favore, non illudetele.