Aubervilliers è fondamentalmente una questione di grigi. Chiaro, scuro, tendente al rosso o al blu, è il colore del cemento che domina in questa parte dei sobborghi parigini, a nord-est della capitale. Un luogo popolare, pratico, caratterizzato da alti palazzoni in cemento armato senza alcuna velleità estetica, pensati più per ospitare il maggior numero di persone possibili a un prezzo accessibile, piuttosto che per garantire un tessuto urbano e sociale in grado di promuovere integrazione e vivibilità.
Nonostante sia in qualche modo collegato con la confinante capitale francese dalla linea 7 della metro parigina e dalla linea regionale RER, il comune appare di fatto come una piccola entità a sé stante, un’isola urbana in grado di ghettizzare e mantenere al suo interno chi ci vive attraverso un oceano fatto da mancanza di opportunità e discriminazione sociale.
Non è un caso infatti che sia stato questo quartiere il cuore delle proteste improvvise e non organizzate, anche abbastanza violente, contro l’aggressività della polizia a seguito della presunta violenza sessuale subita nella vicina Bobigny da un giovane ragazzo nero di nome Théo.
Un isolamento e una discriminazione che valgono in entrambe le direzioni: sia da parte di chi vede dall’esterno un quartiere percepito come chiuso e pericoloso, sia da parte di chi dall’interno non riesce a fidarsi di uno Stato che ha per anni letteralmente dimenticato questa parte di società. Una situazione che nel tempo ha generato un multiculturalismo a tratti esasperato, che non è però andato di pari passo con l’integrazione. E non è una questione di sfumature, a un occhio attento le discriminazioni divengono chiaramente visibili alla luce del sole.
Le comunità tendono a rimanere chiuse in se stesse, e non è per niente difficile vedere isolati completamente abitati da famiglie di origine magrebina, intorno a una moschea seminascosta al primo piano di un brutto ammasso di cemento slavato, o notare due campi di calcetto in cui giocano ragazzi bianchi e neri a poche decine di metri di distanza, quasi divisi con rigore in base al colore della propria pelle. Un isolamento che, più che verso l’esterno, si percepisce all’interno del comune stesso, tra le comunità che lo abitano. Perché, in vero, l’isolamento è più nella testa di chi lo vive che nella realtà.
Il problema della mancanza di alternative, comune a molte periferie, qui è particolarmente acuto. Lo si percepisce camminando per strada e notando le decine di ragazzi incappucciati che bighellonano tra le panchine della fermata autobus Fort d’Aubervilliers, ma anche semplicemente sedendosi in un bar a prendere un caffè (frequentato quasi esclusivamente da uomini) in compagnia di gruppi interi di persone che fanno la fila per scommettere qualche euro su una corsa di cavalli che parte in quel momento in tv. Le schedine delle scommesse si accumulano per terra, perse una dopo l’altra da chi spera in qualche modo di cambiare, almeno per un giorno, la propria vita, tra un caffè corretto e una bolletta inesorabilmente da pagare.
È un luogo dove, camminando per i larghi viali dai marciapiedi ricchi di mattonelle divelte, non è difficile attirare l’attenzione, venendo addirittura al contatto fisico violento con chi non gradisce che si facciano troppe domande. “Non c’è niente da raccontare qui!” urla un ragazzo dopo averci spintonati su un marciapiede, intimandoci di andare via. “Non tutti sono così” racconta Agnèse, “e sarebbe bello rimanere qui per provare a cambiare le cose. Perché, se nessuno lo fa…”.
È proprio in risposta a problemi del genere che Aubervilliers diventa il terreno ideale per la nascita di numerose associazioni che si occupano di recuperare il tessuto sociale, ridonandogli una nuova organicità e una possibilità di riscatto. Favorendo, in altre parole, l’integrazione.
Una di queste è Auberfabrik, un’associazione cittadina che cerca di fare questo nel momento migliore, quello dell’infanzia. “La popolazione che vive qui a Aubervilliers è una popolazione molto variegata. Ci sono tante nazionali e culture insieme. C’è anche una grande povertà e non c’è grande accesso alla cultura. Siamo la sola struttura a occuparsi dei bambini e dei bambini un pò più difficili nel quartiere” spiega Valerie Lallour, volontaria dell’associazione che si occupa di fare corsi di integrazione per bambini e genitori da poco arrivati nel quartiere. “Cerchiamo di permettere quindi a tutte le persone di poter toccare con mano la cultura alla quale normalmente non hanno diritto o non accedono facilmente o perché costano troppo per loro o perché non si spostano, si chiudono tra di loro nel loro piccolo quartiere. Per fare ciò proponiamo attività intergenerazionali, tra genitori, bambini e insegnanti, cercando di farle sempre in luoghi diversi, in modo da mescolare le popolazioni che ci vivono”.
Un’alternativa, che in molti non sembrano vedere e che lo Stato non sembra essere in grado di offrire. Un raggio di colore, in un luogo dominato da numerose sfumature di grigio. Che sono ben più di 50.