Giustificare 55 miliardi di euro di costi di uscita per poi attuare Brexit tramite una sistema di zone franche a macchia di leopardo, al solo scopo di tenere a bada le sacche di resistenza pro-Europa, potrebbe sembrare un azzardo perfino per una politica navigata come Theresa May. Eppure è esattamente l’exit strategy più accreditata dalle parti di Downing Street.
Ancora una volta, insomma, a Londra regna l’assoluto caos e il fragilissimo governo che si regge solamente grazie ad una sparuta ma battagliera componente unionista nordirlandese, non pare essere in grado di trovare un accordo che soddisfi tutti i partners interni ed esteri.
La proposta della May, quella cioè di mantenere l’Ulster all’interno dell’unione doganale ed evitare così che i 400 chilometri che dividono l’Irlanda in due rappresentino un confine sia statale che continentale, è infatti al centro del dibattito a Westminster e un paventato diverso trattamento giuridico per i cittadini di Sua Maestà sta creando non poche tensioni nella maggioranza conservatrice. A ciò si aggiunga che l’Irlanda del Nord, che gode di una relativa autonomia, è senza un governo da gennaio 2017 e i due principali partiti, il Dup alleato della May a Londra e il partito repubblicano Sinn Féin, che ha fatto dello scontento su Brexit il proprio successo, sono ancora lontanissimi da un accordo che prevede, di fatto, il mantenimento delle normative comunitarie da parte dell’Irlanda del Nord e il riemergere di quelli che nella tradizione giuridica medievale venivano chiamati “iura propria“, una sorta di legislazione parallela nei confronti di alcuni nuclei urbani individuati in base alla loro collocazione geografica. Insomma, un vero e proprio caos al quale rischia di aggiungersi anche la questione della grande capitale Londra, che in stragrande maggioranza al referendum su Brexit aveva deciso per rimanere ancorata a Bruxelles. Non è un’ipotesi peregrina.
La City è una delle città più aperte e plurali al mondo e ha sfruttato al meglio, in questi ultimi trent’anni, le opportunità di un’Europa comunitaria. Gran parte del core business londinese è frutto di una legislazione che non tiene più conto di fiscalità e cittadinanze diverse, e il recente abbandono di alcune istituzioni comunitarie e bancarie è solo l’inizio di una lunga serie di addii che Londra dovrà fare da qui al 29 marzo 2019, la data scelta dal Governo per l’uscita ufficiale dall’Unione Europea.
La proposta del sindaco laburista Kahn è quella di applicare le stesse differenziazioni ipotizzate per l’Ulster a Londra, creando così una città-Stato sulla falsariga di quanto già sperimentato con altri grandi hub internazionali del recente passato, come Casablanca ai tempi della dominazione francese e spagnola e Hong Kong, sospesa tra un impianto normativo di common law, ma assoggettata a livello costituzionale alle leggi cinesi, pur con alcune e complesse eccezioni. E’ certamente un piano scivoloso per il Governo May: mai come in questa fase l’Inghilterra è tremendamente isolata dai sue storici partners all’interno dell’Unione che dal 1707 tiene insieme Gran Bretagna ed Irlanda legate a doppio filo. E mentre i tempi si fanno ancora più stretti, sullo sfondo, rimane il grande interrogativo: la May riuscira nell’ardua impresa o sarà costretta a mollare e lasciare il passo?