Bisogna difendere a spada tratta le aziende che cercano di restare competitive anche scappando dalle tasse, soprattutto se insostenibili. In Italia infatti le piccole e medie imprese pagano anche il 70% di imposte. Dunque, ratio, bisogna far tornare le aziende in Italia e per fare questo bisogna abbassare la fiscalità a un livello oltre che accettabile anche omologo – sebbene non necessariamente uguale – a quello del paese da dove rientrano. Il problema è che l’Unione Europea non permette di ridurre le imposte. E’ lo stesso Juncker (ex primo ministro lussemburghese) ad impedirlo all’Italia.
Deriviamo dunque le prime equazioni:
- Unione Europea uguale tasse alte (per pagare il debito, in gran parte contratto ancora in lire) e dunque aziende che scappano;
- Juncker uguale conflitto di interesse che lo porta a negare quanto possibile riduzioni di tasse ai paesi (periferici) Ue che lo richiedono (altrimenti le aziende che hanno delocalizzato in Lussemburgo tornerebbero da dove sono venute).
Ora ci chiediamo, visto l’esempio di Donald J. Trump, cosa bisognerebbe fare per abbassare il prelievo fiscale? Si, perché considerando la sveltezza italica, di aziende pronte a tornare c’è ne sarebbero molte. Dunque, una proposta iniziale dovrebbe essere quella di far rientrare aziende che hanno delocalizzato, ad esempio in Lussemburgo, chiedendo loro di pagare per una decina d’anni, tipo, il 10% tutto incluso di tassazione portando poi l’imposizione gradualmente al regime normale (che andrà ridotto, vedasi oltre), fatto che imporrebbe sì alle aziende tasse più alte che all’estero, ma che siamo certi accetterebbero per evitare guai futuri (e qui già vedete un surrogato di ricetta Trump applicata all’Unione Europea, stick and carrots, questo ci fa ben capire perché molti centro-europei siano terrorizzati da cosa può significare il tycoon newyorkese). Notasi, poco o tanto che sia, meglio prendere il 10% di tasse dalle aziende che tornano (e assumono in Italia) piuttosto che non prendere nulla.
Parallelamente bisognerà fare due cose, bastone e carota: in primo luogo occorrerebbe utilizzare il Bastone, cancellare tutti gli accordi di transfer price targati Ue, molto abusati ad esempio dai francesi (ma non solo), e insieme pianificare controlli a tappeto e una modifica legislativa che miri a disincentivare il mancato rientro. Un esempio: praticamente tutta la moda prodotta in Italia di proprietà transalpina drena con avallo EU un sacco di utili con tali meccanismi (anche sulle royalties), spostando margini in paesi a minore tassazione, ma continuando a fregiarsi del Made in Italy, vedasi Luxottica con holding sempre in Lussemburgo, o anche FCA e Ferrari che, come vedremo nei prossimi bilanci, lascerà in Italia aziende operative in quasi pareggio e sposterà gli utili grassi in Olanda e in Inghilterra.
In tale contesto un minore gettito da tassazione aziendale sarà compensato sia del gettito, oggi pari a zero, delle aziende che rientrano, oltre che da maggiore crescita indotta per il sistema paese (occupazione, affitti, indotto in Italia).
In secondo luogo, ma in parallelo, bisognerà abbassare la tassazione di tutte le aziende nazionali, portandola a un livello consono alla media europea, attorno al 20%. Notasi, perché c’è una terza necessità: tale 20% dovrà essere onnicomprensivo (quindi dimenticatevi IRAP, addizionali locali o stupidaggini simili); che poi ci debba essere una suddivisione tra tasse nazionali e regionali non importa, in detto contesto lo stato dovrà solo imporre la tassazione massima (decisamente inferiore a quella attuale), il resto sarà frutto di un accordo tra stato e regioni per la ripartizione (alla fine si arriverà ad un range minimo-massimo di tassazione a seconda della regione dove l’azienda è ubicata).
In una parola: semplificazione
Tale semplificazione non sarebbe tale se non venissero ridefiniti i costi deducibili . E qui è semplice, si deve partire dal principio che tutti i costi aziendali sono deducibili se leciti e soprattutto se incorsi in Italia, se sono invece di fonte straniera si indagherà approfonditamente.
Già solo questo darebbe una spinta di rilievo alla crescita nazionale. Se poi vi fosse anche una svalutazione della moneta dovuta all’uscita dall’euro la crescita sarebbe addirittura tumultuosa, guarda caso a danno dei nostri competitor manifatturieri (soprattutto la Germania) e di coloro che come nell’esempio di Luxottica e Ferrero si stanno “fregando” le nostre tasse aziendali (leggasi, il Lussemburgo di Juncker).
È chiaro che Germania, Francia e Lussemburgo non accetteranno mai che ciò accada, ossia far abbassare le tasse in Italia per fare crescita sarebbe un danno per loro, guarda caso il trucco per boicottare tale proposito è proprio l’austerità euroimposta. Anche l’uscita dall’euro sarebbe una soluzione implicita, visto che per abbassare le tasse bisogna comunque uscire dalla moneta unica.
Il punto è che Trump ci ha fatto chiaramente capire – addirittura prima di essere insediato – che far tornare a casa le aziende non è solo importante per la crescita, ma anche possibile. Con un mix di bastone e carota.
Chiaro, chi ci perde si lamenta (nel caso di Trump il Messico, nel caso EU Juncker e il Lussemburgo). Ad esempio, se applicassimo le stesse ricette trumpiane all’Italia chi si lamenterebbe sarebbero proprio quelli che oggi stanno affamandoci con l’austerità, terrorizzati dalla fine della moneta unica (Germania, Francia, Lussemburgo, Olanda).
Ecco perché applicare le ricette di Trump è importante per l’Italia, l’uscita dall’euro sarebbe una semplice conseguenza visto che comporterebbe lo sforamento dei conti.
Anche perché non abbiamo scelta: se restiamo nell’euro finiamo come la Grecia.