Theresa May spariglia le carte e, non casualmente, dopo il ritorno sulla scena della Regina si appresta ad annunciare un hard Brexit.
Il motivo è semplice: la guerra sotterranea tra filo Ue e Brexiters ha finalmente visto prevalere i fautori dell’uscita, grazie al supporto trumpiano. Il sintomo maggiore è stato l’annuncio del Governatore della Bank of England della scorsa settimana che ha sottolineato con perfetto timing come i danni associati al Brexit fossero sovrastimati, di fatti stimolando a procedere verso un’uscita senza tentennamenti.
Chiaramente il calcolo è sopraffino, come sempre quando si parla di Londra e di Foreign Office (memento, Boris Johnson ha avuto cittadinanza Usa): le esportazioni nette tedesche in Gran Bretagna ammontano a oltre 50 miliardi di dollari (più di 100 miliardi di dollari di importazioni tedesche in Inghilterra). Se a queste si sommano dai 60 a 70 miliardi di dollari di deficit commerciale con gli Stati Uniti, valori stimati con questo livello del dollaro (con 130 miliardi di dollari di esportazioni tedesche in Usa) si capisce come la Germania sia assolutamente dipendente dagli acquisti anglosassoni.
Si ritiene che la compagine UK-Usa, che ha gli stessi identici problemi in termini di deficit commerciale non solo con la Germania ma con il mondo, debba correggere i propri squilibri interni che non fanno altro che arricchire i paesi da cui oggi importano, in primis la Germania (che manipola anche il cambio grazie ad una valuta molto più svalutata di quello che sarebbe il marco tedesco).
Non va escluso che paesi oggi in tensione, con tutto quello che l’Europa Unita tedesca rappresenta, possano essere più che tentati di aderire a un ipotetico spazio economico anglosassone tradizionale con inferenze interatlantiche, che permetta un accesso privilegiato ad un’area commerciale di matrice occidentale in grado di aggregare oltre 500 milioni di consumatori. A detto asse si potrebbero – e anzi si dovrebbero – tranquillamente aggiungere altri paesi, anche perché una semplice relazione biunivoca tra UK ed Usa avrebbe poco senso in termini numerici. Da qui la logica deduzione: aggregare paesi consumatori potrebbe avere un perfetto senso compiuto nell’ottica, ricordiamolo, sia di correggere gli squilibri anglosassoni fatti di eccessive esportazioni che di forgiare un’area di influenza sotto il dominio statunitense in grado di preservare i baluardi della politica estera Usa.
E’ infatti chiaro che l’avventurismo di Obama ha ingenerato la necessità di correzione degli equilibri globali fino a poter immaginare una seconda Yalta in cui le potenze dominanti, oggi Usa-UK, Russia a Cina, trovino il loro equilibrio geopolitico rivedendo gli accordi di 70 anni fa. Chiaramente l‘asse franco-tedesco vorrebbe il proprio spazio, ma questo resta perfettamente incompatibile con gli interessi non solo americani ma anche di Mosca, che vedrebbe ridotta la propria area di influenza commerciale sul Vecchio Continente. Meglio dunque smembrare l’Unione Europea, di fatto annientando agli albori le ambizioni franco-tedesche di vestirsi di un ruolo globale (o anche solo continentale) che non appare consono in aggregato, viste le differenze che permangono in seno a una UE sempre più anacronistica oltre che a vantaggio quasi esclusivamente tedesco. In due parole: Germania e Francia non sono riconosciute come referenti europei nemmeno dai paesi partner, paesi che per altro hanno trattato a suon di frustate (vedasi la Grecia).
Nel caso dell’Italia, ricordiamo che la Germania esporta circa 70 miliardi di dollari di controvalore e ne importa 61, ossia il Belpaese aggiungerebbe una rilevante massa critica all’asse strategico-commerciale in via di formazione tra Usa e UK e rispettivi alleati, oltre a un posizionamento nel Mediterraneo ineguagliabile. La naturale aggiunta dell’addendo Israele a questa unità di intenti rappresenterebbe l’aggregazione perfetta per pacificare l’area medio orientale oltre a fomentare lo sviluppo commerciale nei paesi oggi in guerra e quindi da ricostruire non solo materialmente.
Insomma, è chiaro che esiste una contrapposizione nei fatti tra l’UE targata Francia e Germania – oggi bersagliata dagli attentatori – ed il mondo anglosassone. Il vero problema è che, al contrario di quanto hanno fatto i paesi più culturalmente affini agli Usa, Berlino sembra non volersi piegare ai diktat americani costruiti attorno alla necessità di non continuare ad essere il paese che con i suoi consumi arricchisce gli esportatori come Germania e Cina.
Come parziale soluzione in teoria la Germania potrebbe avere un partenariato privilegiato con Mosca, ma anche qui esistono problemi: prima di tutto la Russia necessità di interrompere sia le sanzioni che lo stato di pre-guerra in Sirya e Ucraina, scenari dove è probabile che si troverà un accordo soddisfacente tra Washington ed il Cremlino. Dall’altra non esiste una vera fiducia russa per i tedeschi, per questioni storiche (basti sapere che ancora oggi i tedeschi considerano i russi culturalmente gente rozza se non stupida, ndr). Questo spingerà inevitabilmente la Russia verso le posizioni americane, sacrificando la tanto cara Angela Merkel.
Quello che colpisce sono i dettagli “tedeschi”: Schauble ha fatto presente agli Usa che mettere dazi sulle auto tedesche significherebbe metterli anche sulla componentistica che proviene dall’Europa, ossia danneggiando gli stessi produttori degli Stati Uniti. Certamente il ministro tedesco si riferiva alla componentistica che di norma le case germaniche fanno produrre in grande misura in Italia: forse qualcuno non ha capito che il Belpaese non è una colonia tedesca e dunque non è accettabile che ministri stranieri usino le nostre competenze per difendere propri interessi, per altro oggi in netta contrapposizione con quelli eurotedeschi, vedasi la recente ed incredibile richiesta dell’Ue all’Italia di fare un’ulteriore manovra economica per aver sforato di 0,2% il deficit pur in presenza di eventi eccezionali (terremoti, migranti ecc.), mentre invece nessun correttivo viene chiesto, ad esempio, alla stessa Germania per il sistematico surplus commerciale eccessivo (da anni) o a Francia e Spagna per il deficit statale.