Nativi precari, millennials, neet. Sono i giovani di oggi, quasi tutti accomunati dal desiderio di trovare un posto di lavoro ma impossibilitati a farlo. Quello che non si dice è che nonostante vengano spesso immortalati come “sdraiati” sul divano, in realtà i ventenni cresciuti al tempo di X-Factor tra studio, lavoretti e volontariato si danno da fare, eccome. Il tutto sdoganando anche qualche dogma: pur di lavorare rinuncerebbero infatti a diritti e a contratti regolari.
A rivelarlo è la ricerca “Avere 20 anni, pensare al futuro” condotta da Acli e Cisl di Roma in collaborazione con l’Istituto di ricerche educative e formative (Iref), i cui risultati sono stati divulgati all’incontro dedicato al tema, tenutosi il 3 ottobre presso l’Aula magna del Rettorato della Sapienza Università di Roma.
Dallo studio è emerso che due ragazzi su tre svolgono attività lavorative durante la settimana. Su un campione di 1000 partecipanti (età compresa tra i 16 e i 29 anni) residenti nella capitale e in provincia, la stragrande maggioranza mette al primo posto lo studio. Per il 64,5% seguono lavori occasionali e attività di volontariato o associazionismo per il restante 32,4%.
Due giovani su tre, inoltre, si dicono pronti a rinunciare a diritti fondamentali in cambio dell’occupazione. Tra questi oltre il 23% sarebbe disposto a lavorare in nero, mentre la metà degli intervistati dichiara che lo farebbe a seconda delle condizioni offerte. L’incertezza legata al futuro porta molti dei giovani romani ad affermare che farebbero a meno anche dei giorni di malattia (28,2%), delle ferie (26,6%) o addirittura della maternità (11,1%) pur di mantenere il posto di lavoro. Quasi un terzo non avrebbe difficoltà ad accettare un impiego diverso rispetto al proprio corso di studi.
Sono i nativi precari, nati tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, a essere cresciuti con un senso di sfiducia e di precarietà già all’interno del loro nucleo familiare. I loro genitori infatti sono per lo più ultra-quarantenni che non hanno un lavoro stabile, ma si adeguano alle condizioni mutate del mercato del lavoro. Diverso da quello in cui si muovevano i loro padri.
É dunque svanito il mito del posto fisso? Sbiadito semmai. Perché ben tre ragazzi su quattro sognano ancora di metter su famiglia grazie a un contratto stabile (65%) e una casa (10%). Quello che viene chiamato “welfare riparativo” non incontra però più i desideri di una fascia seppur minoritaria ma considerata in crescita dagli analisti dell’Iref. Chi preferisce contare su credito e servizi per avviare un’impresa rappresenta il 25% dei romani ascoltati.
“In questo caso parliamo di welfare abilitante – spiega il dottor Gianfranco Zucca dell’Iref – perché il giovane chiede di avere garantite le condizioni di partenza per la propria attività, dopodiché si dice sicuro di ammortizzare la somma nel giro di pochi anni”.
Cambia, in parte, l’identità lavorativa ma i sentimenti più condivisi tra le nuove generazioni restano confusione, precarietà e angoscia. E le speranze? Più della metà del campione (57%) si trasferirebbe all’estero per raggiungere una stabilità economica. Il 28,5% ha dichiarato che lascerebbe la capitale seppur rimanendo in Italia. “Questi dati pesano come macigni e rappresentano un campanello d’allarme – afferma Lidia Borzì, presidente delle Acli di Roma – Servono una cultura dell’ascolto e una larga alleanza per il lavoro, perché oggi la sana occupazione è il vero fertility day”.