La crisi della UE tra nuovi sussidi tedeschi ed un improbabile fondo sovrano europeo.
“Una valanga di sussidi alle sue imprese. Così Berlino rischia di scassare il mercato UE”: in tale modo l’Huffington post ha titolato, il 23 maggio 2023, un articolo in cui si può leggere di come l’ulteriore corresponsione, da parte della Germania (grazie al bilancio “ombra” approvato lo scorso anno per aggirare le regole fiscali), di ben 30 mld di euro di aiuti alle industrie farmaceutiche, siderurgiche, chimiche ed energivore si configuri come l’ennesimo maxi-supporto che rischia di minare ulteriormente la concorrenza del mercato unico UE.
In tale modo il citato quotidiano ha ritenuto di dare nuova decisa voce a quanti, anche in questa occasione, si sono preoccupati del presunto (in questo caso la forma dubitativa è d’obbligo) ulteriore vantaggio concorrenziale concesso dal Governo germanico alle aziende beneficiarie a patto che le stesse soddisfino ad un’unica condizione: che siano tedesche.
Molte altre testate, non solo italiane, in passato hanno sollevato con reiterato deciso disappunto il medesimo problema, ovverosia a quello che consegue direttamente dalla capacità tedesca di supportare le proprie imprese con sussidi che altri Paesi dell’Unione Europea sono impossibilitati ad erogare in quanto gravati da pesanti disavanzi e da tutta una serie di ulteriori problematiche che rendono inattuabile una medesima strategia, ovverosia quella che parte, come detto, dalla disponibilità di un “budget ombra” che, come tale, consenta di assumere nuovo debito attraverso nuove agenzie pubbliche indipendenti, senza includere i numeri nel bilancio federale.
Il, per certi versi, acritico risentimento manifestato in questo caso discende direttamente da certi perduranti atteggiamenti di chiusura ed egoismi di Berlino che hanno guadagnato, nel tempo, alla Germania quelle decise antipatie che hanno trovato una semplicistica razionalizzazione in questa non contestualizzata riproposizione strategica.
Tutto perfettamente comprensibile, quindi, sul piano umano, seppure in questo caso non oggettivamente fondata in quanto ritengo che nello specifico si sia palesemente trattato di una doverosa risposta (ma meglio farei a parlare di tentativo di risposta) alle perduranti problematiche generate dalla crisi energetica tedesca causata dal taglio netto e senza preavviso delle forniture energetiche provenienti dalla Russia attuato con un vero e proprio atto di guerra posto in essere da chi ha ritenuto, per i propri esclusivi interessi strategici, in primo luogo di compattare la NATO ridandole nuova vita e centralità geostrategica nel Vecchio Continente a tutto discapito di quelli della ‘alleata’ Unione Europea; successivamente ha varato senza concertazione alcuna il proprio piano di sostegno fiscale alle imprese di casa (il cosiddetto Inflation Reduction Act – IRA) del valore di 370 Mld di USD resosi necessario in conseguenza di una ben poco ragionata scelta operativa che in nessun caso ha tenuto conto delle esigenze ed dei rischi derivanti ai propri ‘alleati’; e da ultimo ha assunto, a sorpresa ed ancora una volta con occhio attento ai propri esclusivi bisogni, una posizione di rigetto della proposta di fissare la time-table relativa all’auspicato (un tempo ormai lontano) ingresso di Kiev nella NATO, salvo poi finire con l’affidare le proprie desiderata alla proposta avanzata dal Segretario Generale della NATO, J.Stoltenberg, agli ‘alleati’ europei affinché riflettano concretamente sulla possibilità di stabilire accordi collaborativi bilaterali con l’Ucraina atti a dare, sia pure per via traversa, concreta attuazione –ma smarcandosi abilmente–, all’Art.5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza Atlantica: il tutto senza che gli altri partner europei si scomponessero più di tanto e offrissero solidarietà a chi concretamente, la Germania, è risultato essere, dopo l’Ucraina, la prima vittima certa della guerra attualmente in corso.
A tale proposito è sicuramente degna di nota la significativa ignava astensione della Francia (scontata quella –di pari disvalore etico– statunitense) alla votazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU relativa alla richiesta avanzata da Cina e Russia di istituire una commissione indipendente per indagare sugli attentati ai gasdotti Nord Stream 1 e 2.
Per somma la notizia della ulteriore trance di sussidi è stata diffusa mancando di prendere in esame taluni significativi aspetti ben evidenziati dalla relativa nota di agenzia della Reuters del 22 maggio 2023 dalla quale si apprende:
- che il piano consiste dello stanziamento di circa 4 Mld di EUR all’anno per complessivi 25-30 Mld di EUR spalmati su un arco temporale che ne prevede l’eliminazione graduale entro il 2030;
- che il finanziamento avverrà attraverso il Fondo di Stabilizzazione Economica (FSE), originariamente introdotto nel 2020 per salvare la compagnia aerea Lufthansa durante la pandemia;
- che all’inizio del mese il ministero delle Finanze tedesco aveva respinto il piano di sovvenzioni promosso dal Ministero dell’Economia in quanto il bilancio non lo prevedeva e i fondi esistenti non potevano essere reindirizzati:
tutti elementi che acquistano ancora più significato alla luce della notizia, diffusa il 25 maggio, dell’entrata ufficiale della Germania in una fase recessiva: di fatto la più grande economia europea ha problemi soldi per la prima volta da un decennio a questa parte.
I dati ufficiali diffusi giovedì ci mostrano, infatti, una produzione economica in calo dello 0,3% durante il primo trimestre dell’anno, il secondo trimestre consecutivo caratterizzato da un calo del PIL in gran parte attribuito alla minore spesa dei consumatori a causa dell’aumento dei prezzi a fronte di un’inflazione del 7,2%: dati che non lasciano ben sperare in quanto lo stato attuale delle cose sembra preannunciare un taglio di bilancio quantificabile, ad oggi, pari a 22 Mld di EUR nel 2024.
Stando alle previsioni del ministero delle Finanze tedesco l’unica strada attualmente percorribile risulterebbe essere quella dei tagli di tutti i costi possibili tenuto conto che il gettito fiscale nei prossimi anni dovrebbe subire una contrazione pari a 30 Mld di EUR a causa delle conseguenze del conflitto russo-ucraino che ha comportato, in aggiunta ai maggiori costi energetici e ad una riduzione degli investimenti, un deciso aumento dei tassi di interesse sul debito che, a fronte dei 3,9 Mld di EUR del 2021, ne lascia ora prevedere ben 39,9 Mld per l’anno corrente.
Fino ad ora certe situazioni sono state effettivamente affrontate creando ad hoc dei fondi speciali (la cui erogazione è prevista sia distribuita in un arco temporale di anni) al di fuori del bilancio ordinario, come nel caso del controverso fondo da 200 Mld di EUR costruito ad hoc per ridurre i prezzi del gas e dell’energia per privati e aziende, ovvero del fondo da 60 Mld di EUR costituito al fine di integrare quanto preventivato come necessario per il conseguimento degli obiettivi ambientali, ma al momento si tratta di fondi paiono aver raggiunto dimensioni tali da non rendere più opzionabile, politicamente parlando, il loro ulteriore incremento visto che si sta trattando di cifre considerevoli: si parla, infatti, di qualcosa che lo scorso anno è ammontato a ben 360 Mld di EUR, ovverosia al 75% del bilancio ordinario di quest’anno che ammonta a 476 Mld di EUR.
Data la situazione meglio sarebbe per tutti se questa, sia pure tardiva, presa di coscienza dell’establishment tedesco venisse utilizzato per rifondare su altre basi la cooperazione tra i Paesi dell’Unione Europea, piuttosto che disperdere le energie in inutili diatribe che, al momento, lasciano palesemente il tempo che trovano: se l’unione fa la forza, credo sia giunto il momento per le Cancellerie europee di prendere coscienza del fatto che quello che sta accadendo alla Germania ora, a breve capiterà ad altri Paesi e che il confronto partitocratico (testimoniato dalle già manifestate resistenze dei vari dicasteri tedeschi per quanto concerne la concertazione ragionata dei tagli di bilancio necessari) che già si profila all’orizzonte in Germania, un confronto tutto all’insegna di distinguo operativi tra i vari partiti della coalizione di Governo finalizzati a preservare il consenso elettorale, sia di monito per tutti i Tedeschi e per tutti gli Europei non abbisognando nessuno di noi qui, ora, di una nuova Weimar allargata.
Per meglio comprendere il senso di questo auspicio vale la pena continuare la disamina di tutto quanto ha dato il la a questa riflessione: il nuovo piano di sussidi recentemente annunciato da Berlino.
Come forse si ricorderà, un analogo piano di supporto al comparto industriale energivoro tedesco era stato varato dalla Germania, per complessivi 49 Mld di EUR facenti parte di un ben più ampio programma da 200 Mld di EUR, alla fine dello scorso anno: un maxi-piano approvato dalla Commissione Europea che lo aveva non solo trovato in linea con le regole europee, ma pure giudicato “necessario, appropriato e proporzionato per porre rimedio a un grave disagio economico di uno Stato membro”.
A ben guardare si era trattato di una fuga in avanti di Berlino che aveva generato reazioni, in quel contesto legittime e doverose, non favorevoli da parte dei principali partner europei, che avrebbero preferito approntare un piano a livello di UE idoneo a fronteggiare collegialmente quelle che erano state saggiamente definite dall’allora Presidente del Consiglio Italiano, Mario Draghi, delle minacce comuni.
Un’implicita critica ed un auspicio, quelli testé richiamati e da altri riformulati oggi, che ritroviamo nei commenti apparsi su molti quotidiani che per lo più mascherano la ragione prima del disappunto espresso in primis da quei Paesi europei, tra cui l’Italia, che non avevano ed ancora non hanno la possibilità di stanziare simili somme rimanendo all’interno delle regole di bilancio fissate dall’Europa, dimenticando che questa soluzione autonoma di Berlino ha fatto seguito alla mancata risposta degli Stati Uniti all’appello congiuntamente rivolto, a Dicembre 2022, da Francia (una Francia che forse incominciava a muovere qualche passo sulla via di una ritrovata consapevolezza: quella che l’aveva motivata ad anticipare di ben 5 anni la firma del Trattato di Aquisgrana, stipulato nel 2019) è Germania agli Stati Uniti affinché gli stessi estendessero anche ai prodotti “made in UE” gli incentivi fiscali contenuti nel citato Inflation Reduction Act.
La versione ufficiale, che cerca di mascherare il vizio di forma della comprensibile critica attuale (quella già richiamata in precedenza, per l’esattezza) per la quale il mancato cambiamento di rotta di Berlino disattende ai tanti richiami alla salvaguardia del mercato interno dell’Unione Europea e dei principi della corretta concorrenza tra gli Stati membri è alquanto, come visto, limitativa, ancorché foriera di un accoglimento interessato da parte di Washington che non ha alcun interesse che da ciò scaturisca un novello spirito comunitario che sinora solo a parole è riecheggiato nelle dichiarazione della Commissione Europea per bocca della sua Presidente che sempre più appare il garante degli interessi statunitensi in Europa.
Lo affermo alla luce dell’assurdo sostegno e legittimazione dato all’azione unilaterale della Germania testé citato allorché la stessa è stata giudicata necessaria, appropriata e proporzionata per porre rimedio a un grave disagio economico di uno Stato membro, usando parole che possono solo essere, per il ruolo super partes di chi le ha pronunciate, o il frutto bacato di una eclatante miope incompetenza (cosa di cui dubito), ovvero di una ‘scelta di campo’ diversa da quella che ci si aspetterebbe in un tale frangente, una scelta tutta all’insegna di una adesione incondizionata, per interessi e motivi personali, ad un atlantismo feudale a conti fatti non solo inutile, ma a tratti dannoso perfino per gli stessi Stati Uniti.
Comunque la si voglia mettere, tutto ciò si configura come un chiaro segno del progressivo acuirsi della crisi strutturale di quella Unione Europea che ha visto il proprio progetto di integrazione – per altro già in crisi per ragioni che discendono direttamente dalla sua genetica– di fatto azzerato dalla recente crisi geopolitica e da tutte quelle azioni (regime sanzionatorio in primis) che hanno fatto e fanno da corollario al conflitto.
Un tentativo di mediare tra i contrasti attuali in materia di aiuti di Stato UE lo si è visto emergere, almeno a parole, nella proposta europea dello scorso Febbraio, allorché la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in risposta all’IRA targato Biden, ha presentato le linee programmatiche di quel Green Deal Industry Plan concepito (cercando di non deragliare rispetto a Washington e Pechino) allo scopo di agevolare il processo di trasformazione dell’industria europea per accompagnarla nell’era delle “emissioni nette zero” con modalità che, tuttavia, già a livello propositivo sono state giudicate da più parti “insufficienti” in quanto gravate dal più che concreto rischio di volgere i Paesi dell’Unione l’uno contro l’altro in virtù del diverso spazio d’azione fiscale.
Quello che maggiormente ha colpito a Febbraio, ma che pressoché nessuno ha sottolineato, è la triste realtà di una Commissione Europea che nell’immediato ha fanciullescamente deciso –ed amenamente annunciato– di voler aprire i rubinetti degli aiuti di Stato, sulla base di regole più flessibili rispetto a quanto accaduto fino a quel momento, proponendo di permettere fino al 2025 sussidi a tutti quei settori green sui quali pende, come una spada di Damocle, il concreto rischio della delocalizzazione delle produzioni: una proposta apparentemente ragionevole completata dalla possibilità concessa ai Governi dell’Unione di offrire anche agevolazioni e aiuti diretti alle aziende con modalità che ricalcano quelle adottate dagli americani, ma che naufraga nel momento in cui non prende dolosamente in esame in alcun punto della sua illustrazione il reale stato delle cose e, di conseguenza, il concreto rischio che un tale modo di procedere di fatto promette: quello di segnare l’inizio della fine definitiva del progetto europeista.
La domanda che chiunque avrebbe dovuto porsi sarebbe dovuta essere: per conto di chi hanno lavorato ed ancora lavorano la Commissione Europea e la sua Presidenza? Una domanda legittima in quanto tutto sarebbe più comprensibile se il suo incarico avesse come scopo la messa in liquidazione della UE.
Messa in questi termini è facile comprendere il perché la proposta non abbia convinto neppure sul fronte dei finanziamenti di medio termine, dove tutto è rimasto come prima senza aggiungere risorse fresche in quanto il fondo per la sovranità è stato inquadrato nel contesto ancora vago di una non meglio definita “revisione del bilancio comune” cui, allo scopo di raggiungere i circa 350 Mld di EUR necessari, è stata affiancata la proposta, di un rimescolamento delle carte dei fondi già esistenti, affidandosi in primo luogo ai 250 Mld previsti per il Recovery fund e il RePowerEu ed ai 100 Mld destinati alla politica di coesione, oltre ai fondi InvestEu e per l’Innovazione: un palese gioco delle tre carte in ossequio al fronte costituito da quei Paesi che, all’epoca, capeggiati da Germania e Paesi Bassi, si erano già ripetutamente improvvidamente opposti all’idea di nuovo debito in comune.
Il 9 Marzo di quest’anno la Commissione Europea ha adottato un nuovo quadro temporaneo di crisi e transizione per promuovere misure di sostegno in settori fondamentali per la transizione verso un’economia a zero emissioni nette, in linea con il piano industriale del Green Deal –ed in questo senso sono state illuminanti le parole con cui Margrethe Vestager, Vicepresidente Esecutiva responsabile per la Concorrenza, lo stesso giorno ha commentato la delibera citata: “Le norme in materia di aiuti di Stato, e in particolare il quadro temporaneo di crisi, hanno aiutato gli Stati membri a tamponare l’impatto dell’attuale crisi in Europa. Il quadro adottato oggi offre agli Stati membri la possibilità di concedere aiuti di Stato in modo rapido, chiaro e prevedibile. Le nostre norme permettono agli Stati membri di accelerare gli investimenti a zero emissioni nette in questa difficile congiuntura, tutelando nel contempo le condizioni di parità nel mercato unico e gli obiettivi di coesione. Le nuove norme sono proporzionate, mirate e temporanee”.
Un’affermazione che testimonia come alla fine sia stato recepito il rischio di frammentazione del mercato unico sottolineato da diversi attori comunitari: peccato che, a conti fatti, per disinnescare questa vera e propria bomba sarebbe stato necessario intensificare anche i finanziamenti europei allestendo da subito –e non in un non meglio definito medio termine–un Fondo Sovrano Europeo la cui necessità era stata sì finalmente dichiarata a gennaio 2023, ma subordinandola ‘stranamente’ alla mai presa realmente in esame revisione del bilancio comunitario.
La questione cruciale, purtroppo, era ed ancora è quella del bilanciamento dei finanziamenti comunitari e di quelli derivanti dagli aiuti di Stato nazionali, le cui regole sono già state allentate tramite il Temporary Crisis Framework, il regime speciale adottato a Marzo 2022 per far fronte alle conseguenze economiche della guerra in Ucraina.
Purtroppo nel documento pubblicato il 9 marzo 2023 si parla sistematicamente ancora di proroghe concesse ai singoli Stati di operare nel quadro di autonomia già previsto lo scorso anno –e lo stesso dicasi per quanto concerne le nuove misure, applicabili fino al 31 dicembre 2025, introdotte per accelerare ulteriormente gli investimenti in settori strategici per la transizione verso un’economia a zero emissioni nette, consentendo aiuti agli investimenti per la fabbricazione di attrezzature strategiche, segnatamente batterie, pannelli solari, turbine eoliche, pompe di calore, elettrolizzatori e dispositivi per la cattura e lo stoccaggio del carbonio, per la produzione di componenti fondamentali e per la produzione e il riciclaggio delle materie prime critiche necessarie.
Ed ancora un nulla di fatto ritroviamo nella modifica al regolamento in vigore per quanto concerne la maggiore flessibilità concessa agli Stati membri nella progettazione e nell’attuazione diretta di misure di aiuto in settori fondamentali per la transizione verso la neutralità climatica e verso un’industria a zero emissioni nette, senza che occorra l’approvazione preliminare della Commissione.
Di fatto le perplessità espresse da diversi Paesi che ad un certo punto hanno a più riprese manifestato il timore che il mancato intervento diretto della UE, a fronte di una eccessiva liberta’ di manovra concessa ai singoli governi possa provocare una “corsa ai sussidi” tale da compromettere il funzionamento del mercato interno, sono rimaste senza risposta così come la lettera che a tale riguardo ben sei Paesi, quali la Danimarca, la Finlandia, l’Irlanda, i Paesi Bassi, la Polonia e la Svezia (si noti la significativa presenza, tra i firmatari della missiva, dei Paesi Bassi), hanno inviato alla Commissione chiedendo cautela su questo argomento.
Ad oggi, tuttavia, la costituzione del Fondo Sovrano Europeo resta solo sulla carta dopo il secco NO della Germania giunto già il 30 Gennaio 2023 per bocca del Ministro delle Finanze tedesco Lindner che, alla luce di quanto da quel momento, nel breve volgere di pochi mesi, è accaduto, si spera possa farsi interprete di una diversa visione delle cose e dismettere il ruolo di comodo alibi ad uso e consumo della Commissione Europea per il proprio reiterato far nulla con spirito comunitario.
In attesa degli eventi non possiamo fare altro che accettare i fatti per quelli che sono, seppure personalmente io ritenga la bocciatura del Fondo Sovrano Europeo definitiva in quanto ravviso che il solo modo di perseguirne l’obiettivo non potrebbe prescindere dall’attingimento alle riserve auree di Italia, Francia e Germania, come suggerito ottimamente a più riprese da Alberto Quadrizio Curzio nel 2008, che unite assommerebbero alla più ampia riserva aurea esistente al mondo, seppure la metà di essa è depositata, purtroppo, negli USA.
Credo infatti che, visto il comportamento sin qui tenuto da Washington, anche qualora il “no” tedesco rientrasse, non sarebbe possibile all’Europa aggirare una comprensibile opposizione statunitense per varie ragioni tra le quali in primis considererei quelle che discendono dalle considerazioni a seguire per tutto ciò che, come vedremo, attiene alla possibilità di concrete ingerenze straniere in quella UE che l’America considera, fatti alla mano, una vera e propria dependance strategica.
In aggiunta a tutto ciò va poi considerato che, poiché qualora venisse finalmente messa a punto una politica comunitaria unitaria di approvvigionamento tanto degli idrocarburi fossili che delle commodities usando l’EUR come moneta di riferimento (mutandone il rango di “moneta interna” in quello di “valuta internazionale” di crescente rilievo, come sta accadendo per lo Yuan Renmimbi cinese), il tutto si configurerebbe come la nascita di un terzo polo monetario globale, –terzo tra il dollaro e lo yuan–, ecco che la cosa si configurerebbe come un ulteriore attacco alla supremazia valutaria statunitense: un attacco inaccettabile per Washington in un momento cruciale per la sua stabilità economica e finanziaria già stressata dallo spaventoso debito pubblico a Stelle e Strisce.
Vi sono, infatti, due ulteriori aspetti sin qui non presi in esame, due aspetti tecnici dei quali non vi è traccia nella ventilata proposta dello scorso Settembre 2022 di costituzione di un Fondo Sovrano Europeo, due aspetti dei quali:
- il primo concerne la sua efficacia in ragione della sua consistenza. Quando qui da noi si parla di fondi sovrani si dimentica di considerare che il beneficio del loro utilizzo dipende da detto parametro, come del resto è facile rendersi conto prendendo in esame le capitalizzazioni dei colossi mondiali esistenti dei quali, tanto per citare, i quattro dei Paesi del Golfo e quello norvegese (finanziati con i proventi derivanti dalla commercializzazione degli idrocarburi estratti e da altri surplus commerciali) che capitalizzano rispettivamente 2.200 e 1.100 Mld di USD: un comparto (del quale fa parte anche il China Investment Corporation) che se oggi si sommassero le capitalizzazioni complessive vanterebbe una disponibilità globale ammontante a qualcosa come 5.000 Mld di USD;
- il secondo attiene alla disciplina dei vari Stati europei rispetto ai Fondi Sovrani, in primis quelli esteri che, come è facile rendersi conto, è tutt’altro che materia secondaria per evitare che la presunta soluzione si muti, in tempi rapidi, in qualcosa di peggiore, nell’immediato, del problema che si vorrebbe per tale via risolvere dovendo operare in un contesto di palese divergenza di intenti e discrepanze normative che offrirebbe il fianco ad ingerenze di non poco conto se solo si considera che le risorse finanziarie in questione vengono investite anche in società estere per ben note ed intuibili finalità extraeconomiche.
È evidente a questo punto come, in un tale contesto, la costituzione di un Fondo Sovrano italiano, capitalizzato con 1 Mld di EUR inglobando nello stesso sia il Fondo Patrimonio Rilancio della Cassa Depositi e Prestiti, sia le Casse previdenziali dei professionisti, sia una cosa a dir poco ridicola, così come del resto non meno risibile appare quella della Presidente Ursula von der Leyen.
Il bagno di realtà sembra essere alle porte, ma tutto lascia presumere che a breve l’effetto finale non sarà foriero della stabilità da tutti auspicata.
Per approfondire
- “A common European approach to Sovereign Wealth Funds”
- “I fondi sovrani” di Alberto Quadrizio Miceli e Valeria Miceli