La scelta del Brexit deriva da interessi materiali ben chiari e prevedibili. Oggi siamo nel mezzo di una contrapposizione di interessi tra blocco franco-tedesco (che vorrebbe avocare a sé il governo europeo) e blocco anglosassone, con gli Usa per ora silenti fino all’elezione del prossimo presidente.
Al di fuori delle ipotesi fantasiose di una ripetizione del referendum, della probabile secessione scozzese ed altri macro eventi decisamente dirompenti, il sistema britannico ha già preso posizione: prima di tutto ha annunciato che il surplus di bilancio al 2020 non ci sarà, idem l’atteso aumento delle imposte (si farà deficit con lo scopo di far crescere l’economia anche con un taglio delle tasse). Parallelamente il governatore della banca centrale inglese ha dichiarato che l’obiettivo istituzionale sarà supportare l’economia usando le parole di Draghianamemoria “whatever it takes”, anche un taglio dei tassi questa estate.
In breve, Londra ha deciso di svalutare pesantemente la sterlina. In effetti questo era già stato paventato dal governatore della Banca centrale europea nei giorni successivi al Brexit: “Guerra delle valute” , ha detto, a chi svaluta di più. Questo sarà il mantra dei prossimi mesi: svalutare per innescare la crescita a pena di un po’ di inflazione, utilissima ad erodere il debito accumulato in passato. Chiaramente per i britannici che votano, non importa se il pound si svaluta, basta che l’economia cresca.
Chi pensa che l’uscita dall’Ue sarà la fine dell’Inghilterra non ha capito: sarà il perfetto contrario. Chi soffrirà saranno i paesi che oggi esportano in Inghilterra, Germania in testa. Ad esempio, la bilancia commerciale di Londra è oggi ai vertici mondiali come deficit, una diretta conseguenza del legame con l’Ue che non permetteva di fare debito per sostenere l’economia per non permettere ai paesi periferici di fare lo stesso (i Piigs sono l’obiettivo dell’austerità eurotedesca, per asfissiarli economicamente al fine di acquisirli a basso prezzo, col tempo, ndr). Il pound debole ridurrà drasticamente il deficit commerciale britannico rendendo meno competitivi i beni importati. Visto l’enorme deficit commerciale dell’Inghilterra verso l’Ue (oltre 60 miliardi di euro) una forte svalutazione si tradurrà in merce invenduta da parte dell’Europa. Dunque, il Brexit aumenterà grandemente il rischio deflazione in Ue.
Successivamente in Inghilterra ci sarà forte crescita – anche grazie agli accordi commerciali in firma con i paesi del Commonwealth, Usa, Cina ed India – la Scozia se ne guarderà bene dal lasciare il cavallo vincente per andare assieme ai tedeschi che usano asfissiare con l’austerità i propri partners.
Se poi consideriamo le opzioni di difesa del proprio mercato, dalla limitazione dei flussi migratori per i cittadini Ue, alla richiesta di contribuzione per il welfare fornito ai non cittadini residenti in Inghilterra per i primi 5 anni, all’aumento delle tasse universitarie per gli studenti stranieri che scappano da una disoccupazione europeriferica quasi certa, ecco emergere un quadro ben chiaro: l’Ue ha più bisogno della Gran Bretagna – e dei suoi consumi e servizi – che viceversa.
In tale contesto i paesi Ue oggi vittime dell’austerità eurotedesca rischiano di assistere alla rinascita economica di Londra fuori dall’Ue. E per questa ragione saranno costretti a considerare l’opzione di aggregarsi ad un blocco europeo filo-anglosassone alternativo a Berlino. E l’Italia, cosa sceglierà se l’austerità si condensasse in una spirale di crisi economica-disoccupazione-aumento delle tasse? Preferirà restare (e morire) o andare con Londra?