Il melting pot come motore dell’evoluzione, il mix di popoli e razze quale portatore di progresso. Un mantra che da decenni gli evoluzionisti danno per assunto. Adesso però uno studio de la Sapienza di Roma, in collaborazione con il National Geographic, potrebbe cambiare le carte in tavola.
In un’epoca in cui il rimescolamento della popolazione, dovuto a migrazioni e maggiore velocità di spostamento, viene dato come la via maestra della prosecuzione della specie, una ricerca scientifica abbatte il tabù dell’isolamento come ostacolo all’evoluzione. Secondo i due ricercatori che hanno condotto lo studio, Paolo Anagnostou e Giovanni Destro Bisol, tramite lo studio degli isolati sarebbe possibile comprendere come ambiente, società e demografia abbiano plasmato il Dna nei gruppi umani.
I risultati della ricerca, condotta sul genoma delle popolazioni europee, avrebbero indicato come tra i gruppi isolati esista una variabilità fino a sedici volte maggiore che non tra quelli “aperti”, come spagnoli, russi o greci.
In altre parole non esisterebbe quella differenza, basata sinora su un netto discrimine, fra popolazioni che hanno subito un forte mescolamento e quelle che invece hanno resistito al fenomeno vivendo in comunità chiuse. L’esempio del professor Bisol va ancor più nello specifico: “Prendiamo le tre isole linguistiche germaniche di Sappada, Sauris e Timau, originatesi da nuclei che hanno popolato aree contigue delle Alpi orientali in epoca medievale – spiega il docente – le differenze genomiche tra queste tre comunità sono risultate davvero ragguardevoli e del tutto paragonabili a quelle osservate paragonando tra loro gruppi molto lontani per storia e geografia, come i Baschi della Francia meridionale e gli abitanti delle isole Orcadi al largo della Scozia”.
La storia dell’evoluzione umana non si basa soltanto sulla biologia, ma sulla cultura
Un fattore determinante nello spiegare il perché di questa comunanza genomica sarebbe individuabile nell’identità. La storia dell’evoluzione umana infatti non si basa soltanto sulla biologia, ma sulla cultura. Nel caso citato dal professor Bisol infatti vanno considerate le scelte matrimoniali delle tre comunità prese in esame, più inclini a cercare una continuazione della specie all’interno della loro comunità. Il risultato della ricerca è quindi di portata storica: cade la divisione fra le popolazioni aperte e chiuse, un discrimine che i genetisti avevano eretto finora per distinguere le popolazioni oggetto di studio. Un altro esempio, prendendo in esame e paragonando due gruppi nella nostra Penisola, spiega ancor meglio i risultati dello studio. I Cimbri, un gruppo di origine tedesca che si è insediato tra il X ed il XII secolo nell’altopiano di Asiago in Veneto, e gli abitanti di Carloforte, nell’isola di San Pietro, vicina alla coste meridionali della Sardegna, sono le due popolazioni messe a paragone. I primi sono andati, nel tempo, incontro a una parziale assimilazione culturale che li resi più “porosi” agli influssi linguistici e genetici delle popolazioni locali, mentre l’isolamento dei carlofortini è stato nel tempo mitigato da rapporti intermittenti da parte di popolazioni esterne.
Per questi motivi i due gruppi mostrano un’attenuazione dei segnali tipici dell’isolamento nel loro genoma, la cui struttura è risultata più simile a quella dei gruppi aperti, come i francesi o gli italiani del nord-ovest, che non a quella di altre comunità isolate. Ora più che mai appare chiaro come l’analisi del Dna umano non sia più contenibile in schemi che non riguardino la cultura dei gruppi oggetto di studio. E fra questi fattori non è estranea l’identità.