Lo ha annunciato dal prato della Casa Bianca solo pochi giorni prima della giornata mondiale dell’ambiente. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso che il suo Paese si ritirerà dagli accordi di Parigi sul clima. I termini andranno, quindi, rinegoziati almeno per quanto riguarda le parti non vincolanti stabilite alla Cop21. Era una delle promesse fatte in campagna elettorale dal tycoon, quella di intervenire sulle “disastrose” (così le ha definite) scelte fatte dal suo predecessore Obama in materia di riduzioni delle emissioni inquinanti. Lo slogan “America First” è stato onorato.
L’accordo di Parigi, secondo Trump, lederebbe gli interessi delle industrie pesanti americane e in generale di tutto il comparto energetico: gas, carbone e petrolio. Gli annunci rivolti ai minatori del West Virginia e del Wyoming sono stati così rispettati, se non per la difesa dei loro posti di lavoro, quanto meno con una decisione dalla forte incidenza simbolica. Negli ultimi anni in particolare gli Usa hanno puntato molto sul fracking (particolare tecnica estrattiva del petrolio o dei gas presenti nelle formazioni rocciose) per soddisfare il fabbisogno interno di energia, senza dover ricorrere al petrolio dei paesi arabi (sauditi in primis).
La decisione di Trump dovrebbe portare a un maggiore isolamento degli Stati Uniti rispetto al tema del cambiamento climatico, spingendo Europa e Cina in un’insolita intesa, almeno per quel che riguarda la corsa alla riduzione delle emissioni sancita nella Cop21. Un’armonia confermata dalla dichiarazione congiunta dei vertici istituzionali di Italia, Francia e Germania, in cui si esprime rammarico per l’uscita degli Usa, ma viene ribadita allo stesso momento la non negoziabilità dell’accordo di Parigi. Uno scenario economico nuovo e incerto sembra così delinearsi per il settore della green economy mondiale, soprattutto se le conseguenze dovessero essere quelle paventate, non solo da ambientalisti ma da studi scientifici internazionali, ovvero di un aumento significativo delle emissioni di gas serra prodotte dagli Stati Uniti.
“L’uscita degli Stati Uniti complica e rallenta il processo, ma non può bloccare il cambiamento epocale che è in atto: la lotta ai cambiamenti climatici sta diventando sempre più una preoccupazione trasversale – spiega a Ofcs Report la presidente di Legambiente, Rossella Muroni – Se Trump ha un merito è quello di aver consolidato il fronte a favore del clima, che in passato era stato timido se non evanescente, a Parigi sino all’ultimo c’era incertezza sull’esito degli accordi. La stessa dichiarazione congiunta Italia, Francia e Germania nasce proprio come una reazione all’uscita di Trump e va nella direzione di maggiore unità e di una leadership forte, non solo a livello europeo, sul tema dei mutamenti climatici e delle energie rinnovabili”.
L’accordo di Parigi è stato firmato nel dicembre 2015, al termine della Conferenza sui cambiamenti climatici, detta anche Cop21. L’intesa sul clima prevede un impegno, “non vincolante”, per mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto dei 2 gradi centigradi, rispetto ai livelli dell’epoca preindustriale. Un punto di partenza importante, per chi lo aveva siglato, nel responsabilizzare i paesi aderenti in una logica di coordinamento e di rilancio delle energie rinnovabili. In ogni caso, dopo i 4 anni dalla firma è prevista sia la possibilità di recedere dagli accordi presi precedentemente, che quella di rientrarvi eventualmente in futuro.
Un impegno che sarà rispettato dalla Cina, primo paese al mondo per emissioni di Co2, che ha investito solo nel 2015 il doppio degli Usa nelle tecnologie pulite (110 miliardi di dollari contro i 56 degli Stati Uniti), puntando a diventare paese guida a livello mondiale nella corsa alla decarbonizzazione (il doppio dei paesi G7). Il gigante asiatico è quello che ha speso più di tutti in assoluto nelle energie rinnovabili: 288 miliardi di dollari impiegati in energia pulita solo lo scorso anno (fonte Bloomberg). Ai numeri si è aggiunto un ulteriore smacco per l’amministrazione a stelle e strisce. Il suo ambasciatore a Pechino, David H. Rank, si è dimesso negli scorsi giorni dall’incarico in segno di protesta contro la decisione di Trump nel dire addio all’accordo sul clima.
Secondo recenti studi, qualora gli Stati Uniti non dovessero rispettare gli accordi di Parigi, si stima che le emissioni si ridurrebbero solo del 15-19% rispetto ai livelli del 2005, anziché tra il 25 e il 28%, come stabilito dagli impegni presi dall’allora presidente Barack Obama. Il paradosso è che il paese che più inquina al mondo, la Cina, si appresta così a diventare leader mondiale nello sviluppo delle energie rinnovabili.