La difesa del pianeta ha un costo, pesantissimo, di vite umane aderenti ai movimenti ambientalisti e di popolazioni indigene che lottano in tutto il mondo per tutelare le proprie terre e la natura.
Numeri e scenari emersi nel corso della seconda giornata del XIII° Forum internazionale per l’informazione ambientale organizzato da Greenaccord, in collaborazione con i ministeri Affari Esteri e Ambiente, a Frosinone e dedicata alle storie dei Climate Savers
“Ogni anno nel mondo muoiono oltre 700 persone vicine ai movimenti ambientalisti”, ha detto Joan Martinez Alier, economista spagnolo e docente presso l’Università Autonoma di Barcellona, che nella lectiomagistralis “Giustizia climatica e debito ecologico” ha ricordato come “il 12% dei conflitti ambientali nel mondo si macchia di almeno una vittima e nel 2015 sono stati uccisi 3 ambientalisti a settimana”.
Numeri incredibili che nascono da quelli che Martinez Alier definisce “conflitti di distribuzione socio-ecologica, che portano ad un accesso poco equo delle risorse naturali, generando quei movimenti di ambientalismo dei poveri e degli indigeni evidenziati anche dall’enciclica di papa Francesco”.
L’economista ha presentato il lavoro svolto da enti di ricerca, atenei e associazioni ambientaliste che hanno realizzato una mappatura dei conflitti ambientali presenti sulla terra visibile sul sito www.ejatlas.org. “Abbiamo raccolto almeno 1880 casi di conflitti ambientali nel mondo – ha detto – che evidenziano un’emergenza di giustizia ambientale a cui bisogna rispondere creando meccanismi di tutela per chi vuole proteggere la terra”.
La battaglia per salvare il pianeta riconosce, quindi, un ruolo fondamentale ai Climate Savers, le cosiddette sentinelle del clima che in molti luoghi del pianeta sono rappresentate dalle popolazioni indigene, spesso escluse dai processi decisionali e costrette all’isolamento dai grandi poteri economici. Storie di ordinaria ingiustizia, raccontate nella seconda giornata Forum Greenaccord. È il caso del popolo indigeno americano dei Navajo, raccontato nella testimonianza di Wahleah Johns, Solar Project Coordinator, Black Mesa Water Coalition. Dal punto di vista etnico i Navajo appartengono all’insieme delle nazioni Apache stanziate dal 1500 in un vasto territorio che si estende dall’Arizona al Texas occidentale e dal Colorado al nord del Messico.
“In America esistono 500 tribù aggrappate alla propria terra, quella dei Navajo è composta da 110 comunità che vivono in zone estremamente rurali, nelle quali il 40% della popolazione non ha accesso all’acqua corrente e 20mila abitazioni non sono collegate alla rete elettrica”.
Estremamente significativa è la battaglia condotta contro un oleodotto che dovrebbe attraversare il fiume Dakota e contro il quale le popolazioni indigene hanno attivato una grande protesta pacifica con oltre mille persone accampate da diversi mesi. “Le popolazioni indigene abitano terre che ospitano l’80% della biodiversità del mondo, ma quelle terre ospitano anche l’80% delle risorse fossili”, ha spiegato Johns, ciò che serve quindi “sono politiche volte ad un miglioramento climatico capaci di coinvolgere le popolazioni indigene nei processi decisionali”.
Conflitti ambientali che spesso si traducono in vere e proprie emergenze umanitarie, come il caso delle popolazioni indigene della regione Chittagong Hill Tracts del Bangladesh. Qui, come ha spiegato MrinalKantiTripura, direttore della Maleya Foundation è in corso “una vera e propria appropriazione di terre attraverso la militarizzazione”. In quell’area esiste infatti la diga idroelettrica più grande dell’Asia creata negli anni ‘60.
“Oltre 40mila ettari di terra coltivabile sono stati sommersi dall’acqua, il 95% della nostra popolazione non ha accesso all’elettricità e molti popoli indigeni sono stati costretti a trasferirsi in India senza diritti riconosciuti”, ha denunciato il direttore della Maleya Foundation.
Diritti calpestati anche in Honduras, come sostenuto da Gaspar Sanchez, rappresentante del Copin (consiglio civico delle popolazioni indigene), che riunisce 250 comunità lenca.
“Nelle terre abitate dalle nostre comunità indigene il governo ha approvato 50 progetti idroelettici, tra i quali la costruzione della diga sul Rio Gualcar. Progetti cosiddetti per lo sviluppo ma non per le comunità locali che sono abituate a vivere senza energia elettrica”, ha spiegato Sanchez.
La ricchezza che i popoli indigeni vogliono preservare si chiama “acqua e terra”, ha spiegato il rappresentante del Copin, che ha ricordato il gravissimo omicidio della leader ambientalista Berta Caceres, uccisa il 2 marzo del 2016.
La difesa dell’ambiente può e deve partire dal basso, dalle popolazioni indigene che lottano in prima linea ma può avere un protagonista anche in coloro che sviluppano progetti di sostenibilità. A parlarne è l’architetto Wittfrida Mitterer della Fondazione Italiana Bio Architetture incaricato di coordinare il progetto di aiuto finanziato dal governo federale tedesco destinato al paese di Onna, uno dei centri abruzzesi più colpiti dal terremoto del 2009.
Ad Onna, ha spiegato l’architetto, “la situazione ancora complicata e devastante. Onna è divisa in 27 aggregati edilizi approvati nel 2010 ma di questi 3 dei 5 cantieri partiti sono già stati bloccati”. Come la ricostruzione può contemplare il rispetto dell’originario con le esigenze di sicurezza e compatibilità ambientale è dimostrato dal forno del paese raso al suolo dal terremoto del 2009 che sarà il primo edificio storico a essere ricostruito. Per lui sono arrivati 250mila euro di fondi dell’associazione costruttori Ance e dalle Casse edili. “Manterremo intatte le facciate originarie e gli edifici di alto valore storico. Ma l’intero centro urbano osserverà i principi di antisismicità, risparmio energetico, bioclimatica», spiega Wittfrida Mitterer, coordinatrice del pool di architetti che segue la ricostruzione. Una dimostrazione di urbanistica partecipata, che può diventare modello da esportare. Anche dal punto di vista economico. “Perché con un programma ben studiato – spiega Mitterer – si spende meno che costruendo male”.