“Rispetto alle attese, la Cop22 di Marrakech sembra al momento decisamente sotto tono. Le questioni più importanti, come la definizione di un sistema di monitoraggio che valuti il rispetto degli impegni assunti dai paesi, sono rimandate alla Cop23 del 2017. Allo stesso modo l’aumento delle ambizioni contenute negli impegni presentati dai paesi attenderà il 2018, anno del primo dialogo teso al rafforzamento degli impegni. Insomma, più che azione si può parlare purtroppo ancora una volta di procrastinazione”. Solo le parole di Marica Di Pierri, portavoce dell’Associazione ‘A Sud’, in questi giorni inviata a Marrakech in occasione di Cop22.
Il 4 novembre è entrato in vigore l’accordo di Parigi ma secondo il rapporto “Emissions Gap” gli impegni non sono abbastanza ambiziosi, è così?
“Gli impegni assunti sono assolutamente insufficienti per raggiungere l’obiettivo previsto dall’art.2 dell’Accordo. L’Unep lo ha confermato nei giorni scorsi, proprio mentre l’Accordo entrava in vigore: con i target attuali andiamo dritti verso uno scenario a fine secolo tra i +2,9° e i 3,4°, mentre per avere una chance di centrarli dovremmo lavorare alla riduzione di un altro 25% di emissioni. Oltre all’Unep a dirlo sono in molti, a partire dalla Unfccc e da decine di centri studi e università di tutto il mondo. Pe esempio il centro di ricerca Climate Action Tracker ha valutato 59 Ndc, concludendo che nessuno paese rappresenta un modello da seguire: tra essi ve ne sono solo 5 sufficienti, tra cui nessuna potenza mondiale, 11 non del tutto adeguati, tra cui spiccano Cina, Usa, Ue e ben 15 completamente inadeguati, tra cui paesi emissari come Canada, Australia, Emirati Arabi. C’è bisogno di maggiore ambizione. Occorre rinunciare da subito a nuovi progetti estrattivi, disegnare road map serrate e smettere di credere che timidi correttivi ci salveranno dalla catastrofe climatica. Ci vuole una inversione di rotta radicale”.
Segolène Royal, ministro dell’Ambiente francese, ha affermato che serve “una giustizia climatica”. Cosa lega il clima ai conflitti sociali?
“È positivo che il concetto (e la rivendicazione) di giustizia climatica arrivi anche sulle bocche dei rappresentanti istituzionali. Per i movimenti sociali di tutto il mondo parlare di giustizia climatica vuol dire sottolineare anzitutto che c’è un’ineguale distribuzione degli impatti dei cambiamenti climatici e che a pagarne le conseguenze più drammatiche sono proprio le zone del mondo che meno hanno contribuito alle emissioni atmosferiche: il continente africano, le aree tropicali, i paesi del sud est asiatico. Aumento dei fenomeni climatici estremi, desertificazione, erosione costiera, siccità etc. minacciano popolazioni già svantaggiate dal punto di vista socio-economico unendo discriminazione a discriminazione, disagio a disagio. L’anno scorso 14,7 milioni di persone sono state sfollate da eventi climatici. La stragrande maggioranza sono popolazioni povere. Distruggendo le condizioni di sussistenza di vaste zone, ad esempio rurali, è evidente che i cambiamenti climatici si traducano anche in violazioni di diritti umani, e in fattori di ingiustizia sociale. Questo è un elemento che rafforza la necessità di un’azione globale concertata e immediata. Il rischio è che anche questo concetto venga utilizzato dai politici come un feticcio: la battaglia per la giustizia climatica ha bisogno di assunzione di responsabilità politiche e di azioni concrete, non di parole ad effetto durante cerimonia ufficiali”.
Donald Trump, come nuovo inquilino della Casa Bianca, ha previsto tra gli impegni dei suoi primi 100 giorni quello di favorire l’industria del carbone e in campagna elettorale ha chiaramente detto che il cambiamento climatico non esiste. Sarà un arresto della lotta globale al cambiamento climatico?
“L’elezione di Trump ha gettato nello scompiglio le delegazioni presenti a Marrakech. Trump ha annunciato di voler recedere dall’accordo, il che non è possibile: dopo la ratifica si può recedere solo trascorsi 4 anni. Certo, in mancanza di strumenti di monitoraggio e sanzione anche senza recedere l’amministrazione americana potrà fare ciò che vuole, e siccome Trump vuole rilanciare carbone e fracking, cancellare la moratoria per l’estrazione in mare, costruire il contestato oleodotto Keystone XL e nominare ai vertici dell’Epa e del Dipartimento per l’Energia personalità che hanno fatto della negazione dei cambiamenti climatici la loro bandiera, lo scenario è preoccupante. Anche perché questa era la prima volta che gli Usa firmavano un accordo internazionale vincolante sulla tutela ambientale, e il braccio di ferro con la Cina ha paralizzato i negoziati per anni. La società civile americana promette battaglia. Staremo a vedere”.
L’Italia vista da Parigi, vostro ultimo report, mette in evidenza le contraddizioni del nostro paese. Da una parte l’obiettivo di riduzione del 33% delle emissioni entro il 2030, dall’altra politiche non adeguate. In cosa sta investendo l’Italia invece che sul clima?
“Sta investendo sul passato, in progetti per l’estrazione di petrolio e gas, in terra e in mare. Per citarne solo alcuni: i 30.000 kmq di concessione dati alla Spectrum Geo in Adriatico, in un’area che interessa dall’Emilia Romagna al Salento, i 4.000 kmq nello Ionio e le altre concessioni nel mare di Sicilia. E ancora, otto nuovi inceneritori che emetteranno in atmosfera 1,500.000 tonnellate di Co2 in piu l’anno, le megainfratrutture stradali tra cui la contestata Orte Mestre che da sola costerà 10 miliardi. Dall’altro lato, la riduzione (incredibilmente retroattiva) degli incentivi all’energia solare e una centrale a carbone in Sulcis che riceverà contributi pubblici per 20 anni. Basta leggere i provvedimenti, per rendersi conto che questo governo è molto bravo con la propaganda, ma dal punto di vista delle politiche adottate merita l’epiteto di Governo Fossile”.