Dal metodo hawala alla zakat, le cellule terroristiche rappresentano delle entità economicamente autonome ed in grado di auto-rigenerarsi di continuo. Ma come si finanziano i terroristi islamici da al Qaeda alle cellule del Califfato?
Rispetto alle capacità dei vari gruppi di autofinanziarsi, occorre specificare che vi sono due livelli di ricerca ed invio dei fondi:
Il primo riguarda essenzialmente il finanziamento alle singole cellule, ed a tale scopo vengono delegati i singoli componenti del gruppo tramite piccoli lavori in nero o, comunque, le attività degli aderenti; il secondo è relativo al finanziamento dell’entità maggiore, la struttura madre, alla quale i fondi pervengono per mezzo di vere e proprie attività imprenditoriali, perlopiù riferibili a trasferimento fondi o di servizi di telefonia.
Il primo livello, come detto, riguarda l’esistenza della singola cellula, ed a tale scopo, ogni affiliato, rimette il 10% del proprio guadagno mensile da destinare al fondo cassa, basandosi sulla zakat, l’elemosina che nel campo dell’estremismo Islamico prende la forma di vera e propria raccolta fondi per il sostentamento della jihad, in ciò attenendosi ad uno dei pilastri della religione Islamica.
È palese che data la situazione di clandestinità di molti aderenti alle frange Islamiste, le attività svolte dagli stessi non possano essere scevre da illegalità legate perlopiù ad illeciti quali la ricettazione, il falso documentale ed il furto.
Il secondo livello, evidentemente più tecnico, è dato dal finanziamento all’organizzazione madre per il sostentamento della Jihad. Vi è qui da distinguere i due tipi di raccolta fondi, frazionabili per religiosa e laica, dove per religiosa s’intenda la mera raccolta di offerte all’interno dei vari centri Islamici e/o Moschee più o meno clandestine, mentre per laica si recepisca tutto quel panorama di attività perfettamente lecite poste in essere dai fiancheggiatori e che vanno dalla conduzione di call centers ad attività di money transfer. Per queste ultime la possibilità d’intervento è improba poiché gli aderenti alla comunità musulmana utilizzano il metodo hawala, ovvero, non lo spostamento dei fondi, bensì la comunicazione di trasferimento di denaro in qualsiasi paese nel quale si trovi un referente pronto a fornire i fondi richiesti al destinatario dietro il pagamento del 5% circa della somma. In questo modo il trasferimento richiesto dal mittente non è comprovato da nulla che non sia la mera richiesta telefonica, in quanto il metodo hawala è fiduciario e non richiede, quindi, qualsivoglia rilascio di ricevute. La complessità di rinvenire fonti di prova nel campo del finanziamento al terrorismo internazionale deriva proprio da tale metodo di interscambio di fondi.
Le peculiarità che sono state elencate rientrano nell’ambito di una progettualità che prescinde da qualsiasi altra finalità personale. Tali caratteristiche, infatti, hanno come sfondo il vasto panorama della cultura dell’Islam radicale che, nel corso dei decenni, ha posto a suo fondamento alcuni cardini che in sede di analisi, non possono essere sottovalutati. Anche il mujahed più mediocre conosce bene ogni sfaccettatura della dottrina radicale e ciò lo fa sentire parte di un programma che è disegno divino.
Così, nella mentalità jihadista è di costume ritenere che vi siano due universi completamente contrapposti: Dar el Harb, la casa della guerra e Dar al Islam, Casa dell’Islam.
La prima considera tutti i territori abitati dai cosiddetti infedeli, per alcuni si identifica anche nella Dar Al Kufr – Casa della miscredenza, come luoghi di guerra e conquista, ed a ciò si rifanno i numerose messaggi dapprima dei vertici di Al Qaeda e, successivamente dell’Islamic State, nei quali si rinnova il desiderio di riappropriarsi dei territori sottratti all’influenza Islamica in vari periodi della storia. Nella seconda si riconoscono tutte le nazioni a prevalenza religiosa Islamica. In mezzo a queste due entità si colloca la Dar al’ahd la Casa del patto. Quest’ultima è sintomatica del legame che gli aderenti alle varie cellule hanno con i fondamenti religiosi dell’Islam. Per Casa del patto, infatti, si intende un territorio che ospita, a vario titolo, delle minoranze islamiche che sono assoggettate alle Leggi vigenti del Paese ospitante. Ebbene, l’Islam radicale vieta agli ospitati di colpire il paese che li ha accolti, anche in caso di Jihad. Il militante, incaricato di un’azione, viene esentato da tale obbligo solamente uscendo dal Paese ospitante e successivamente rientrandovi, si badi bene, clandestinamente e non in modo regolare, con il solo obiettivo di portare a termine la sua missione.
È chiaro che a tale regola possono sfuggire alcuni aderenti alle cellule giovandosi di “dispense” particolari, le già citate fatawas, emesse a loro favore dal sedicente sheikh di turno, ma di regola l’attinenza alla Sharia è d’obbligo per tutti. Si pensi ai terroristi dell’11 settembre. In questo caso non si è trattato di militanti ospitati in un paese della casa del patto, bensì di operativi in missione in un paese obiettivo del jihad quale gli Usa, definito dagli estremisti Islamici quale esempio di empietà e miscredenza.
Da qui si rilevi il pericolo palesato dalla rilevata volontà di numerosi affiliati al terrorismo, di fare rientro clandestinamente nel nostro Paese, giovandosi delle rotte della disperazione, basandosi sulla nostra proverbiale incapacità di distinguo tra profugo e jihadista e di tutto quanto ne possa derivare.
L’ovvia conclusione è che la creazione e l’organizzazione di cellule eversive, sia a sfondo politico che religioso prescinda da una loro sottovalutazione da parte degli organi delegati alla sicurezza che paiono aver incentivato il finanziamento dei soli apparati tecnologici a scapito delle investigazioni “old style” condotte su strada dai vecchi specialisti d’intelligence.