Il caso Sala: tra “lodo Moro”, Trump ed altri doppiogiochismi italiani
Sulla liberazione di Cecilia Sala, la giornalista arrestata recentemente a Teheran e nel momento in cui questo pezzo viene redatto in viaggio verso l’Italia, pesano molte legittime potenziali incognite interpretative sulle quali credo sia il caso di accendere per tempo i riflettori e procedere a quel lavaggio dei panni sporchi che potrebbe condurre a far luce su molte oscure vicende della storia italiana, a cominciare dai fatti occorsi nei cosiddetti Anni di Piombo, anni di cui molto si è discusso per lo più a sproposito.
Purtroppo il caso Sala sembra promettere altro anche e soprattutto ora, a liberazione avvenuta, ovverosia in un momento che è più che lecito ritenere terrá polarizzata l’attenzione dei media, soprattutto di quelli italiani, per diverso tempo, ma, a nostro avviso, non per le giuste ragioni di cui sarebbe il caso, per una volta, come vedremo, di parlare anche in relazione alla sua personale ed intricatissima vicenda.
In questo senso non posso non concordare con con quanto scritto da Davide Racca in un suo articolo apparso il 29 dicembre 2024 su OFCS.report con il significativo titolo “Caso Cecilia Sala: tratteremo ancora con il diavolo?” e l’ancora più interessante sottotitolo che testualmente recita “Sullo sfondo il rischio di un incidente diplomatico con gli USA”: una eventualità che anche la Premier Meloni, con la sua imminente virata a 180° gradi in politica estera, è sembrata alquanto intenzionata ad evitare se, dopo cotanto apparentamento con l’ex Presidente Biden e sbandierate identità di vedute con la passata amministrazione, ha ritenuto di sobbarcarsi in sole 24 ore un viaggio di andata e ritorno dagli USA per incontrare il Presidente Trump.
Quel Trump che era fin da subito lecito dubitare fortemente potesse essere interessato ed ancor meno intenzionato ad accettare, come suo primo atto politico, di chinare il capo di fronte al diktat di Teheran ed ancor meno a tollerare certi bizantinismi giurisprudenziali italiani per giungere alla liberazione della giornalista italiana colá detenuta dal 19 Dicembre scorso e ciò non per cinismo ed insensibilità, ma per mera logica strategica.
Una cosa che del resto, vista la posizione dell’Italia, le sue problematiche, le sue ambivalenze, nonché la contingente situazione politica in Medio Oriente, è pressoché impensabile possa essere anche solo stata richiesta all’attuale establishment statunitense nonostante il New York Times, nell’articolo dedicato alla visita della Meloni pubblicato il 5 gennaio 2025 con il titolo “Italian prime minister visits Trump at Mar-a-Lago”, abbia scritto, a proposito dell’ordine del giorno dell’incontro (per altro ancora in fieri Sabato sera), che “Un altro possibile argomento di discussione, secondo gli osservatori, era la detenzione in Iran di un’importante giornalista italiana, Cecilia Sala”.
Una affermazione che smentisce, collocandola nella giusta luce e prospettiva, la notizia diffusa dalla stampa italiana che ha parlato, dando per certa la cosa, di una Meloni che avrebbe “premuto in modo aggressivo sul caso Sala” quando a tale proposito lo stesso NYT, più volte citato come accreditata fonte, si era testualmente limitato a scrivere: “It (n.d.r l’arresto) happened a few days after Italy arrested, at the request of the United States, an Iranian suspected of providing drone components to Iran’s Revolutionary Guards. Iran has routinely detained foreigners and dual citizens to trade them for money and people” aggiungendo che “One person briefed on the meeting said Ms. Meloni had pressed aggressively for it”: una frase che faceva palesemente riferimento ad un “si dice” riferito ad una non meglio definita persona informata che non è dato sapere neppure se fosse italiana o statunitense, cosa questa evidentemente di non secondaria importanza ma che nessuno ora riterrà di darsi pena di cercare di chiarire.
In questo senso che il caso Sala sia stato toccato non è affatto una certezza, anche se personalmente dubitiamo fortemente che ciò sia avvenuto e, qualora se ne sia parlato, che il tutto si sia svolto nei termini e con i modi che si voluto far intendere in Italia dove la stampa si è ben guardata dal sottolineare la ben più interessante concitazione, la premura, l’urgenza con la quale si è arrivati a questo incontro che non si sa neppure se sia stato chiesto dalla Meloni o sollecitato da Trump, anche se è lecito supporre che la visita, di fatto privata nella forma, della Meloni sia stata fatta per promuovere sé stessa come l’alleata di riferimento di Trump in Europa, cosa del resto auspicata dai suoi supporters in Patria, il che vuol dire l’apripista dei dossier più delicati: dalla guerra in Ucraina alle tensioni in Medio Oriente, passando per l’aumento delle spese militari dei Paesi Nato e i dazi, minacciati da Trump, in arrivo.
Una partita difficile che potrebbe penalizzare non poco l’Italia in Europa essendo che la Meloni si è messa in competizione con quel Viktor Orbàn, che a Mar-a-Lago era venuto un mese fa, ora più che mai inviso nel Vecchio Continente poiché, tra le altre cose, ha puntato parecchio a incrinare la posizione ambita tanto da Parigi quanto da Berlino in seno alla EU ed ora pure presso la corte di Washington. Per somma cercare di saltare per tempo sul carro del vincitore per beneficiare dei suoi favori è una tattica tipicamente italiana che non si è mai rivelata vincente dai tempi della Grande Guerra, ma che è evidentemente dura a morire in Italia e che riteniamo in Europa parecchi ricordino molto bene.
E poco importa che Trump abbia lodato la Meloni con parole che lei certamente ha accolto con favore (“Sta prendendo d’assalto l’Europa“), visto che di fatto sono parole che pongono l’Italia alla mercé degli USA attirando su Roma prevedibili risentimenti continentali che espongono il nostro vulnerabile Paese a pesanti ritorsioni economiche, prima ancora che politiche.
Da questo punto di vista l’unica carta che pareva essere restata alla Meloni per liberare la Sala, una carta che se ben giocata avrebbe potuto valerle altre lodi da parte di Trump, era quella di convincere Biden a dare l’ok per lo scambio chiesto da Teheran, anche se questa scelta di Biden avrebbe danneggiato a tal segno gli Stati Uniti, oltre ad affossare definitivamente il Partito Democratico rafforzando la posizione di Teheran, da risultare decisamente troppo indigesta per poter sperare che fosse in qualche modo giocabile con successo.
Va poi notato che fino al momento della sua liberazione, tutto ciò che in questo viaggio può aver riguardato la Sala ha deposto a favore di una lettura di quanto posto in essere dalla Farnesina nei termini di un nulla di fatto essendo che la partita era a conti fatti ipotizzabile come appena iniziata, con buona pace di tutte le telefonate fatte alla famiglia della giovane, anche se a questo punto viene da domandarci cosa abbia dato in cambio l’Italia per giungere alla sua liberazione e a cosa abbia ricevuto l’eventuale Ok da Trump, fermo restando che la liberazione della giornalista rappresenta un’ottima occasione per il regime iraniano di assestare un colpo di non poco conto alla credibilità di quanti in Iran lo combattono pagando da anni un prezzo altissimo di sangue: uomini e donne che ora di certo non si sbracceranno per ringraziare la giornalista italiana dell’ottimo –si fa per dire– lavoro fatto.
Va da sé che alla luce di tutto quanto sin qui riportato possiamo dire che sicuramente quello a Mar–a–Lago è stato un incontro che comunque la Premier italiana deve aver valutato essere in primis perfettamente rispondente alla impellente necessità, tra le altre cose, di evitare i possibili fraintendimenti che l’incontro con Biden a Roma il 12 Gennaio, in occasione della sua visita ufficiale in Italia ed in Vaticano, avrebbe potuto alimentare e che, anche per –legittimi, intendiamoci– motivi personali, la stessa Premier ha voluto per tempo evitare da abile stratega nonché promoter di sé stessa e della propria immagine quale è, ovverosia da persona perfettamente consapevole che nel Belpaese una leadership non gradita oltreoceano ha vita decisamente breve.
All’incontro –e questa è la vera notizia di non poco conto– hanno anche partecipato Marco Rubio, il futuro Segretario di Stato, come testimoniato, tra l’altro, dalla giornalista della Cbs Jennifer Jacobs che sul proprio profilo ‘X’ ha pubblicato una foto del meeting, ma anche Mike Waltz, Peter Navarro, Alan Dershowitz, Rudy Giuliani, Michael Flynn, come reso noto dal giornalista del Wall Street Journal, Alex Leary, che a riguardo ha pure pubblicato una foto su ‘X’ testimoniante la presenza di Scott Bessent, il futuro Segretario al Tesoro, Tilman Joseph Fertitta che il Presidente eletto ha scelto come futuro ambasciatore USA in Italia e l’ambasciatrice italiana negli Usa, Mariangela Zappia.
In questo senso l’articolo di Racca si segnala per aver centrato in pieno il problema che va ben oltre la mera questione umana che, mi duole constatare, ha rubato un po’ troppo la scena –ed altra ne ruberá– a qualcosa, come detto già in apertura, di ben più pregnante dal punto di vista politico, geopolitico e strategico: ma tant’è, siamo in Italia, ovverosia in quel Belpaese ben noto all’estero per essere scarsamente caratterizzato da un giornalismo di qualità incline com’è, per lo più, a tifare, a far dimenticare, ad omettere e a distrarre –financo giungendo, talvolta, alla forzatura passando per il travisamento– i propri lettori dai veri temi degni di rilievo per quel suo essere fin troppo dedito a supportare questa o quella fazione politica, come del resto si conviene in un Paese in cui molti giornali sopravvivono, va ricordato, solo grazie ai finanziamenti pubblici quando la vera forza della stampa, la sua indipendenza e conseguente obiettività risiedono nei suoi lettori, sempre che questi siano in numero tale da costituirsi come il suo vero ed unico finanziatore.
Ed infatti la triste vicenda umana della Sala ha messo in evidenza non solo la effettiva natura della leadership iraniana, con buona pace di quanti si sono ostinati ed ancora si ostinano e si ostineranno ad abboccare alla sua propaganda illudendosi che un cambiamento di rotta, una sua qualche democratizzazione possa avvenire grazie ad una presa di coscienza indolore ma, per quello che riguarda l’Italia, anche il tunnel di ridicolo in cui da troppo tempo i vari esecutivi succedutisi alla guida del Paese si sono cacciati e che conduce alla messa in evidenza, come mai era avvenuto prima d’ora da 82 anni a questa parte, della inaffidabilità dell’Italia come alleato.
Un tunnel dal quale quello attuale non sembra minimamente in grado di trarsi fuori perfino quando a sospingerlo non sono interessi economico–politici strategici, ma la colpevole sprovvedutezza di una giornalista che ben poco opportunamente ha deciso di recarsi in Iran non si sa bene a che pro, vista la situazione corrente, e, per somma, contravvenendo a quanto da tempo invitato a non fare tanto dalla Farnesina, quanto –e questo è ciò che più conta– da molti giornalisti iraniani che ben conoscono la situazione del proprio Paese: una situazione che la protagonista di questa oltremodo spiacevole vicenda ha dimostrato di non conoscere e meno che mai di essere stata in grado fino all’ultimo di valutare e che ora, si spera, abbia finalmente compreso visto che comunque sia è stata fatta oggetto di un sequestro di persona operato da uno Stato sovrano.
Una circostanza quest’ultima sottolineata dalla stessa associazione Italia–Iran che alle note di rammarico, di rito in questi casi, per l’accaduto ha giustamente fatto seguire un commento che ha evidenziato, senza mezzi termini, “come in passato nei suoi reportage dall’Iran Cecilia Sala avesse descritto un’apparente apertura del regime della Repubblica islamica”, apertura che di fatto aveva letto e/o creduto di vedere solo lei dato che “Il suo arresto dimostra purtroppo l’infondatezza di questa analisi e l’errore in cui spesso incorrono diversi giornalisti occidentali” decisamente ingenui, oltre che palesemente decisamente impreparati ad affrontare realtà complesse come quella mediorientale dove tutto ciò che appare spesso non è.
D’altro canto, detto per inciso, già in precedenza la stessa Sala aveva dato prova di essere facilmente vittima di… abbagli, come quando ha firmato un articolo apparso sul quotidiano italiano Il Foglio il 26 Novembre 2022 con il titolo “Sul campo di battaglia neanche il freddo sta con Putin – I 300 mila kit artici di Kyiv contro i mobilitati Russi che non hanno i calzini e abbandonano il fronte”: un articolo che si commenta da sé essendo palesemente tutto fuorché frutto di un reportage degno di questo nome sicché sì, riportiamola a casa, ma facciamo anche il punto della situazione in cui ci troviamo.
Una situazione che vede l’Italia essere un Paese emotivamente agito da un sentire alla De Amicis che a ragion veduta, al di là delle fin troppo autocelebrative dichiarazioni dei suoi vari leader politici, tra i quali ben si colloca l’attuale Premier Meloni, non ha mai goduto di troppa stima e considerazione in epoca repubblicana per la sua summenzionata ben scarsa affidabilità pressoché insita nella genetica di uno Stato unitario nato grazie alla politica di quei Savoia dei quali si diceva già secoli e secoli fa che allo scoppio di una guerra che li vedeva coinvolti non si sapeva con chi l’avrebbero finita, ma certamente si poteva indicare fin da subito con chi per certo NON l’avrebbero terminata: immancabilmente con l’alleato con cui erano entrati in campo.
Anche se solo in apparenza poco pertinente merita ricordare che questa scalcagnata Repubblica é nata da una sconfitta militare che ancora gli Italiani fanno finta non sia mai esistita, conclusasi un tragico 8 Settembre del 1943 con una unilaterale resa senza condizioni, il cui testo quasi nessuno conosce, tenuta a mortifero battesimo da una cobelligeranza che ci ha guadagnato la ben poco lusinghiera paternità di un neologismo verbale inglese: “to badogliate” (lett. tradire) dal nome di quel Gen. Badoglio che alla comunicazione (volutamente tardiva per consentire al Re, ai suoi familiari e collaboratori di mettersi in salvo infischiandomene della sorte di milioni di sudditi civili ed in armi) della resa agli Angloamericani fece seguire un “La guerra continua!”, ma questa volta a fianco degli Alleati e contro i Tedeschi.
Tanto al solo scopo di creare quel mito posticcio di una antifascismo che fu commentato da Churchill con le emblematiche, giustamente spezzanti, parole: “Strange people the Italians. One day 45 million fascists. The next day 45 million between anti-fascists and partisans. Yet these 90 million Italians do not appear in the censuses”… ed ora a quanto pare un altro ‘45’, questa volta capzioso dal punto di vista legale, si fa avanti sulla via della dubbia gloria nazionale…
Già, un 45, per l’esattezza un ‘modulo 45’, un artificio procedurale con il quale poter vagliare il rispetto delle procedure internazionali, effettuare la verifica dell’aderenza ai protocolli previsti per l’esecuzione dei mandati d’arresto internazionali in territorio italiano nonché verificare la validità del mandato di arresto internazionale spiccato dagli Stati Uniti contro Mohammad Abedini Najafabadi –il personaggio reclamato dall’Iran e che Teheran ha a più riprese indicato essere colui che desiderava scambiare con Cecilia Sala in quanto detenuto al momento in Italia ed in attesa di essere estradato negli Stati Uniti–, al solo evidente scopo di trovare quel quid idoneo a consentire il rigetto della richiesta statunitense di estradizione e procedere allo scambio.
Una estradizione che, a quanto pare, su mandato del Governo italiano –difficile pensare che vi sia un altro responsabile– la magistratura competente sta tentando in tutti i modi di evitare invocando un qualche vizio di forma ricercato nella documentazione fornita dagli Stati Uniti verificandone pure il rispetto delle normative europee nonché quello dei diritti del detenuto qualora non siano stati rispettati pienamente quelli garantiti a un cittadino straniero arrestato in Italia, inclusa –e qui sta il bello– la comunicazione tempestiva con il suo consolato: il che vorrebbe dire far validare la legittimità dell’arresto da Teheran, ossia dal Paese che ha beneficiato del presunto traffico illegale all’origine di tutto quanto sin qui descritto.
Un traffico avente per oggetto i sistemi di navigazione e la strumentazione utilizzati dai missili da crociera, da quelli balistici nonché dai veicoli aerei senza pilota (UAV), come pure da quelli subacquei e di superficie senza equipaggio di produzione iraniana ed usati tanto nella guerra contro Israele che contro l’Ucraina essendo detti dispositivi forniti da tempo pure a Mosca, nonché per colpire i militari americani.
In questo contesto che vede Roma dichiararsi ripetutamente, anche per bocca del suo Premier attuale, alleata fedele della NATO, di Kyiv e di Gerusalemme, ma che al tempo stesso in qualche modo alla prima occasione si è da subito smarcata dichiarando che la liberazione della Sala era nelle mani degli Stati Uniti, non possiamo non sottolineare che la situazione era decisamente complicata in quanto proceduralmente lo scaricabarile prontamente messo mediaticamente in atto dalle autorità italiane, sia con il coinvolgimento decisamente tardivo della stampa (non si capisce infatti a che pro diffondere la notizia dell’arresto della Sala per poi invitare i giornalisti al silenzio, ovvero lo si capisce benissimo, ma per decenza lo lasciamo decifrare a chi legge) che con quello della Corte d’Appello, non prometteva di realizzare quella quadratura del cerchio che forse la Premier Meloni stava cercando di attuare collocando sul piatto della bilancia i vantaggi che potrebbero derivare agli USA dall’accrescimento del peso della sua immagine in seno alla EU qualora senza strappi si fosse trovata la possibilità di giungere alla liberazione della giornalista detenuta a Teheran.
E forse è in questo senso che va letto il cambio di passo di Teheran che sembra aver improvvisamente deciso, altrimenti inspiegabilmente, di scindere la questione della liberazione della Sala da quella del suo uomo detenuto in Italia visti i, tutto sommato, buoni rapporti con l’Italia per via di quel Lodo Moro, di cui parleremo più avanti, che possiamo dire abbia giocato non poco a favore di Teheran in Libano per decenni e del quale potrebbe ancora beneficiare in qualche modo grazie ad una Meloni in pole position nell’area mediterranea.
Talvolta in politica estera giocare d’astuzia è più pagante per tutti, così come lo è il cambiare passo, il rendersi conto che prendersi il tempo necessario prima di agire è fondamentale visto che, oltretutto, il continuare ad operare come fatto sin qui è assolutamente non pagante alla luce di una semplice banale riflessione riguardante il fatto che dopo la pronuncia dell’Alta Corte italiana, che per iter procedurale potrebbe arrivare anche tra due mesi, l’ultima parola spetterebbe comunque all’alquanto oltremodo ‘smemorato’ Ministro Carlo Nordio, ossia a colui che il 27 Dicembre aveva dichiarato che nulla era in suo potere in merito all’estradizione trattandosi di una decisione di stretta competenza della Corte d’Appello.
Un Carlo Nordio ‘smemorato’ in quanto via Arenula, per motivi politici, potrebbe ribaltare il verdetto dei giudici milanesi ed ancor più ‘smemorato’ per aver omesso di sottolineare la cosa nel corso della riunione convocata d’urgenza il 27 Dicembre 2024 ed alla quale erano presenti pure Tajani, Mantovano e i Servizi.
Per somma l’ipotizzato cambio di strategia di cui abbiamo or ora parlato sarebbe giustificato dalla presa di coscienza del fatto che è alquanto improbabile che la Corte d’Appello decida nel senso che è lecito essere sin qui stato auspicato dal Governo a causa di uno spiacevole precedente che sembra pochi ricordino, ma che merita di essere qui richiamato in quanto quella qui demandata ad esprimersi è la stessa magistratura che si è trovata a dover fronteggiare le conseguenze della decisione dei magistrati che avevano messo ai domiciliari Artem Aleksandrovich Uss, il figlio quarantenne di un oligarca russo vicino a Putin, poi evaso nel 2023 e fuggito clamorosamente a Mosca.
Ed in questo senso a poco serve che i tre giudici che gli avevano accordato i domiciliari siano stati assolti a Ottobre 2024, dopo una lunga indagine del Csm sicché, a maggior ragione in questo contesto il Governo non si trova nelle migliori condizioni per forzare la mano –una cosa, questa, smentita a suo tempo dall’Esecutivo, ma non creduta dai più– e l’impressione è che l’orientamento prevalente attuale sia quello volto a prendere tempo.
Nello specifico vale qui la pena di ripercorrere la vicenda testé richiamata per procedere sulla via di quella presa di coscienza auspicata in apertura, ovverosia la vicenda di quel Artem Uss, evaso dai domiciliari in costanza della richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti era stato messo ai domiciliari con un provvedimento di cinque righe solo perché aveva “una moglie e una casa” a fronte del provvedimento di quattro pagine “documentatissimo” e “ampiamente motivato” con il quale la Procura della Corte di Appello di Milano si era opposta alla richiesta dei domiciliari facendo presente che Uss aveva “conti bancari in tutto il mondo” e “appoggi internazionali” che rendevano alto il rischio di fuga: tanto stando a quanto ricostruito a suo tempo dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio alla Camera.
Una richiesta inoltrata, per giunta, per ben precisi capi di imputazione quali l’associazione a delinquere finalizzata a frodare un dipartimento o un’agenzia degli Stati Uniti; l’associazione a delinquere finalizzata alla violazione dell’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA); l’associazione a delinquere finalizzata alla frode bancaria; l’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro per il contrabbando di petrolio e lo schema IEEPA, ossia reati correlati tra l’altro a presunti traffici illeciti di materiale civile e militare “dual use” ed al contrabbando di petrolio dal Venezuela verso Cina e Russia eludendo le sanzioni.
La cosa più interessante è che, dopo la fuga, dagli uffici dell’Ambasciata degli Stati Uniti, qualcuno ha fatto filtrare ai giornali una lettera inviata qualche mese prima al Ministro Nordio nella quale l’addetto alla Giustizia Josh Cavinato chiedeva alle autorità italiane di “prendere tutte le misure possibili per disporre nei confronti di Uss la misura della custodia cautelare per l’intera durata del processo di estradizione, compreso un ricorso alla Corte di Cassazione contro il provvedimento degli arresti domiciliari della Corte d’Appello di Milano“.
Come è facile rendersi conto che quella che ha avuto per protagonista Artem Uss si configura come una storia che ha spalancato ed ancora spalanca le porte a tutta una serie di incresciose, ancorché legittime domande volte a comprendere se il tutto sia stato in qualche modo il frutto di una più o meno squallida vicenda caratterizzata da volgari tangenti o semplicemente come una poco lusinghiera vicenda tutta all’insegna della mera incompetenza. Ovvero come una storia di farraginosi equilibri tra i vari poteri dello Stato che gestiscono i propri ambiti di competenza come se fossero feudi in competizione tra loro, o –ancora– come l’ennesima prova provata di un doppiogiochismo politico–istituzionale tutto all’italiana.
In Italia, purtroppo, ogni domanda è lecita e pertinente, ma altra cosa è ottenere delle risposte ed ancor più, quando queste arrivano, poter credere a ciò che esprimono e fin troppo spesso fingono di spiegare.
Ed infatti in un primo momento nulla era trapelato a riguardo anche perché la stampa nazionale aveva per lo più lasciato scivolare via certe affermazioni sibilline come quella contenuta in una dichiarazione affidata dal padre del fuggiasco, una volta che quest’ultimo aveva riguadagnato casa, al suo canale Telegram.
Una dichiarazione contenente un esplicito riferimento all’aiuto ricevuto da non meglio definiti amici italiani che qualcuno in Russia (il canale Telegram VChK-OGPU a quanto pare vicino all’intelligence del Cremlino) aveva posto in relazione ad un non ex ufficiale delle forze speciali dell’esercito italiano residente da anni a Mosca: una notizia giudicata giustamente all’epoca tutta da verificare vista la imperante ondata di disinformazione che deve aver stimolato l’avvio di qualche indagine (complici i molti –casuali?– riferimenti facilitanti l’identificazione degli implicitamente menzionati) da parte di chi di dovere.
È stato così che alla fine –dopo un po’ meno di un anno dalla fuga e dopo che la Corte Meshansky di Mosca, come riferito dall’agenzia di stampa russa Tass, aveva ritirato il mandato d’arresto, con relativa richiesta di estradizione, dalla stessa emesso nell’ambito di un’inchiesta in cui Uss era accusato di “riciclaggio di un’ingente quantità di fondi”, accusa probabilmente montata ad arte per ottenere il rimpatrio del proprio uomo– la magistratura italiana è giunta a spiccare 8 mandati di custodia cautelare tra i quali 6 a nome di USS, dei bosniaci Vladimir e Boris Jovancic, padre e figlio, dello sloveno Matej Janezic e dei serbi Srdjan Lolic e Nebojsa Ilic – tutti accusati di procurata evasione. Sei mandati palesemente riguardanti la manovalanza senza alcun riferimento, a quanto è dato sapere, all’ex ufficiale menzionato dal canale Telegram VChK-OGPU, nemmeno per sottolineare la infondatezza della notizia ovvero l’estraneità della persona ai fatti.
Interessante notare come Boris Jovancic il 5 Luglio 2024 sia risultato liberato dalla prigione Croata in cui era detenuto essendo stato catturato a Zagabria nel Dicembre 2023, estradato in Italia ed attivamente cooperante con le autorità italiane, come Lolic, al punto che gli Stati Uniti hanno fatto decadere la richiesta di estradizione: una collaborazione che sembra sia alla base dell’ultima incriminazione di cui si è avuto notizia, ovverosia quella resa nota il 14 Giugno 2024 e riguardante Dmitry Chirakadze, un imprenditore russo residente in Svizzera con interessi in Sardegna.
La domanda che sorge spontanea è, a questo punto, la seguente: ed i Servizi? Possibile non siano stati coinvolti? Ufficialmente la norma 124 del 2007 prevede che i Servizi si attivino solo su nulla osta dell’autorità giudiziaria competente o su comunicazione del Ministero della Giustizia, oppure su segnalazione di un’Agenzia alleata – che nel caso specifico sarebbe stata l’Fbi o la CIA: in altri termini la mancanza di una richiesta da parte dei giudici, di Nordio, ovverosia di Quantico e Langley avrebbe fatto sì che i Servizi segreti abbiano evitato di interessarsi al caso Uss, di fatto –almeno in linea di principio– favorendolo.
Il che impone una rivisitazione del quesito ora proposto e la sua riformulazione nei seguenti termini: perché di fronte al concreto rischio di fuga di un detenuto del peso di Artem Uss, né il Presidente del Consiglio, né il Ministro della Giustizia e né il Ministro degli interni si sono attivati per coinvolgere gli 007 nella sorveglianza di un tale detenuto?
Una ingenua dimenticanza? Una mera svista procedurale? Talvolta, che dire, può capitare, come quando Nordio, allora PM nell’inchiesta sulle Coop Rosse (1993–1995) dimenticó –così disse lui stesso – di trasferire i fascicoli degli allora indagati Massimo D’Alema ed Achille Occhetto alla procura di competenza per l’archiviazione come disposto dal GUP, una dimenticanza di cui si ravvide appena nel 2004 quando i termini erano abbondantemente prescritti: una circostanza che valse perfino un risarcimento, sia pure simbolico, tanto ad Occhetto quanto a D’Alema… A tale proposito, infatti, la Corte d’Appello incaricata di decidere della concessione dei domiciliari ad Uss ha dichiarato di non aver ricevuto la copia della comunicazione con la quale gli USA sottolineavano la necessità di custodire con estrema cura il Russo per evitarne la più che probabile fuga…: dimenticanza… o omissione? Legittimo dubitare, impossibile –come detto– appurare se in trasmissione o in ricezione, sicché non resta che attenerci ai fatti comprovati o comprovabili.
Comunque sia un po’ di luce sulla vicenda l’ha fatta il Prefetto Adriano Soi, ex funzionario di lungo corso del Dis, che ha richiamato l’intervento alla Camera del Ministro Nordio, per altro dettagliatissimo, dal quale chiunque può verificare che quando la Corte d’Appello ha deciso per i domiciliari il Ministro è parso ragionare solo come il preposto al vertice di quella specifica amministrazione, e non come una entità politica a tutto tondo.
Come titolare di un dicastero facente parte a pieno titolo del CISR, il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica (ovverosia dell’alter ego del COBRA britannico che vede la presenza degli MI5 ed MI6; del vertice di crisi della comunità di intelligence USA che si riunisce alla White House e della quale fanno parte pure generali a cinque stelle e membri dell’Esecutivo, come pure dell’equivalente consesso che riunisce agenti operativi e Ministri della Repubblica Francese), un CSIR del quale fanno parte, oltre ai summenzionati aventi diritto, anche i vertici dei Ministeri della Difesa, degli Esteri, dell’Economia e persino dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, tutti con poteri di indirizzo di fronte a situazioni di emergenza che coinvolgono vari aspetti della Sicurezza Nazionale (di modo che allorché i funzionari o i Ministri di una di queste amministrazioni avvertono una minaccia possono discuterne all’interno del CISR e stabilire misure adeguate, inclusa, come è ovvio che sia, l’attivazione dei Servizi Segreti), stupisce non poco che in questo frangente nessuno, ripeto nessuno di loro abbia avvertito l’urgenza di rappresentare la cosa alla Presidenza del Consiglio.
In altri termini, come ha detto il menzionato Soi: “Sembra che il suo compito fosse finito lì, dopo la risposta agli Americani e la trasmissione (n.d.r. a detta della Corte d’Appello milanese mai avvenuta) della loro lettera a Milano. Ma in realtà sei ministro di un governo, e quel governo ha anche altri strumenti oltre alle forze di polizia, per esempio l’intelligence. L’intelligence non dipende direttamente dal ministro della Giustizia, ma il ministro della Giustizia ha canali privilegiati per attivarla. Tutto questo non è successo, e sicuramente il ministro Nordio non ne ha parlato in Parlamento”.
E parimenti nessuna risposta è giunta alla richiesta di chiarimenti inoltrata al Ministero della Giustizia da Antonio Talia, estensore del qui già citato articolo “Artem Uss: il trafficante d’armi che non abbiamo saputo catturare” pubblicato il 2 ottobre 2024 sul sito di Lucy Agency, quell’Antonio Talia scrittore, giornalista d’inchiesta, già autore di un interessante libro pubblicato nel 2023 con l’eloquente titolo “La stagione delle spie. Indagine sugli agenti russi in Italia”.
Quello che da tutta questa ricostruzione emerge è il desolante quadro di un Paese che lascia sistematicamente senza risposta fin troppe domande e che vive ancora le conseguenze di una ampia serie di sconvolgimenti storici divenuti istituzionali, come ad esempio, tutto quanto ha preso a fare bella mostra di sé con l’emersione delle connivenze, in piena Cold War, tra il PCI e l’URSS, tra un partito politico italiano e i servizi segreti di una potenza straniera oltretutto nemica a causa di una guerra combattuta e persa due volte: l’8 Settembre 1943, e poi ancora il 25 Aprile 1945 a causa del perdurare di quella nefasta lettura di una per decenni negato essere stata una vera e propria guerra civile.
Una guerra civile a ben guardare pure duplice perché combattuta dagli antifascisti contro i nazifascisti, ma pure dai partigiani comunisti contro gli altri (Malga Porzus e i tragici eventi della Venezia Giulia docent) ed ancora proseguita negli anni successivi di acclarata ‘pace’, come del resto sembrerebbe emerso e confermato dalla pubblicazione del dossier Mitrokhin e della relazione finale della Commissione di Inchiesta Parlamentare istituita ad hoc.
Tanto dicasi ovviamente fino a prova contraria in quanto, storiograficamente parlando, per quanto concerne il dossier Mitrokhin –altra cosa sono le risultanze relative all’attività dei Servizi Segreti italiani– non vi è la prova provata della sua assoluta autenticità visto che nessuno ha avuto modo di mettere le mani sui documenti originali, come si conviene in ogni studio storiografico serio per evitare casi come quello emblematico della Donazione di Costantino istituente lo Stato Pontificio, donazione mai esistita come comprovato dalla ricerca e relativo studio dello scrittore umanista Lorenzo Valla che nel XVI sec. smentì l’autenticità del documento su cui si fondava, come detto, l’esistenza dello Stato Pontificio e, soprattutto, il primato del potere spirituale su quello temporale.
Tant’è però che, come per lo Stato Pontificio, falso o non falso che fosse il documento citato, anche nel caso qui in oggetto non poche sono le conseguenze reali ed inoppugnabili che hanno da ciò preso le mosse creando le premessa per una diffidenza inter–istituzionale di non secondaria importanza quale quella che ha fatto sì che, posto che sul piano istituzionale fosse possibile fare di più per aumentare la vigilanza su Artem Uss, alla fine sia prevalsa la percezione, in primis, della inopportunità della cosa sul piano dell’equilibrio tra le varie amministrazioni.
Un valido supporto interpretativo giunge nello specifico dalla dichiarazione resa da un ex capo del controspionaggio dell’AISI stando al quale tra i servizi di sicurezza si sarebbe da tempo diffuso un forte timore a intervenire in casi su cui sta già lavorando il ministero della Giustizia. Queste le sue parole: “Credo che l’intelligence sia sempre chiamata a fare un passo indietro davanti all’autorità giudiziaria perché abbiamo assistito già in passato a situazioni in cui gli agenti che si interessavano a casi del genere si sono ritrovati indagati dai magistrati”.
Una frase che lascia intendere, qualora confermata, che il caso Uss sia stato problematico su un altro versante: quello politico sia interno che internazionale, ma non per le ragioni che qui si vuole adombrare, bensì perché, come il caso Toni–De Palo di cui parleremo più oltre lascia intendere, i Servizi –o almeno una parte di essi– avevano tutto l’interesse a evitare di trovarsi nella condizione di dover rendere conto di cose di cui né i cittadini, né la magistratura e né il Parlamento avevano il benché minimo sentore in quanto facenti parte di giochi ambigui che avevano per protagonisti ancora oggi non meglio definiti ed inquadrati interessi, abituati come siamo a considerare un po’ troppo l’Italiano in guerra una sorta di Cap. Corelli, ed in pace una sorta di canterino buontempone di buon cuore, interessi che ufficialmente sono stati posti in relazione al mantenimento dell’Italia fuori da quel giro di attentati di matrice per lo più islamica, anche quando attribuiti a gruppi come le BR e simili, che hanno interessato altri Paesi occidentali negli anni ’70 e non solo in quelli.
Purtroppo tocca constatare, detto per inciso, come allo stato attuale, causa la crisi mediorientale ed il cambio di assetti in essa registrati, quella, per così dire, tolleranza, fa sì che l’Italia si trovi in linea di massima caratterizzata dall’infiltrazione di una fitta rete terroristica di matrice islamica che non poco rischia di minacciare la sicurezza del suo territorio anche a causa della comparsa sulla scena globale di organizzazioni jihadiste in linea di principio potenzialmente in grado di dare vita ad un cambio di strategia: ma di questo ci occuperemo in un prossimo lavoro analitico a tempo debito.
Tornando a noi vi è da dire che un’implicita prima conferma a quanto sin qui proposto giunge proprio dalla lettura della relazione finale della Commissione d’inchiesta di cui sopra, se non altro per la parte concernente le attività di intelligence, che consente di comprovare come dietro tutto quanto ha caratterizzato il terrorismo degli anni ’70 –e non solo– vi sia stato il KGB per tramite deI Servizi della ex DDR nonché di quelli di buona parte dei Paesi del Patto di Varsavia secondo una logica che l’attuale Proxy War tra Mosca e Washington di fatto ci lascia presupporre sia stata rispolverata –se mai è stata accantonata– dal Cremlino visti gli apparentamenti all’Iran e alle milizie palestinesi in funzione decisamente anti occidentale.
In questo senso va sicuramente letto quanto avvenuto a fine ottobre del 2023, allorché Putin ha ospitato a Mosca il vertice con i miliziani di Hamas e l’Iran: una chiara azione rientrante nel quadro dell’operazione russa volta ad attrarre il Sud Globale al fine di indebolire l’Occidente, come pure di accrescere il proprio ruolo nell’ambito dei BRICS in palese, sia pure cauta per ovvie ragioni, opposizione a Beijing nella fase tormentata di edificazione del NWO.
Così pure ritengo vada letto quanto il 7 giugno 2024 Fiamma Nirenstein ha scritto commentando una presa di posizione sicuramente discutibile del Presidente russo allorché lo stesso ha dichiarato che: “la guerra di Israele è ‘una distruzione totale della popolazione civile’, la situazione è frutto ‘di un fallimento totale degli Stati Uniti’” aggiungendo, ha continuato la Nirenstein, che “’la Russia cerca sempre la pace’ ma il ruolo centrale spetta a un Paese mediorientale e lo assegna al leader che ha dichiarato Netanyahu uguale a Hitler: Erdogan. Il compito risolutivo è l’istituzione di uno Stato palestinese: ricorda con orgoglio che già ai tempi dell’Urss era stata quella la scelta russa”, una scelta che, viene spontaneo dire, abbiamo avuto modo sin qui di apprezzare, per non parlare della scelta di un personaggio, Erdogan, che ha tratto a sé Hamas dando ricovero ai vertici di una organizzazione di fatto criminale.
A tale proposito si consideri quanto riportato a partire da pag. 271 (Cap. IV “Il gruppo Carlos e i suoi legami con i Servizi segreti dei Paesi del Patto di Varsavia e con il terrorismo”) con riferimento alla parte relativa ai rapporti dei Servizi Segreti italiani con Carlos, alias Ilich Ramirez Sanchez, un terrorista la cui carriera era iniziata a Parigi a partire dai primi anni ’70 sotto la guida, recita il documento, “dell’algerino Mohamed Boudia, responsabile in Europa del PFLP –Popular Front for the Liberation of the Palestine–“ rendendosi responsabile “di una serie di attentati e di atti terroristici tra i quali quello contro Joseph Sieff a Londra, nel Dicembre 1973; quello all’aeroporto di Orly, il 13 Gennaio 1975; il triplice omicidio a Parigi di due agenti dei Servizi segreti francesi e del cittadino libanese Michel Moukharbal, il 27 Giugno 1975; nonché la presa in ostaggio dei rappresentanti dell’OPEC a Vienna il 21 dicembre del 1975“.
Ebbene, questo Carlos che nei dolorosi anni del terrorismo rivoluzionario, —anni in Italia denominati “anni di piombo”, è stato particolarmente attivo in Germania dove “un cospicuo numero di militanti dell’estrema sinistra rivoluzionaria della Germania Ovest è stato formato dal PFLP, in strutture del Vicino e del Medio Oriente”, anni che lo hanno visto intessere stretti rapporti con quello che sarebbe diventato il suo braccio destro, Johannes Weinrich, ma non solo, visto che quelli sono stati anche gli anni in cui “le reti terroristiche del PFLP e delle Cellule Rivoluzionarie (RZ) erano saldate soprattutto per quello che riguardava il recupero e l’acquisizione di rilevanti partite di armi” al punto che in un documento della Stasi si è trovata la formulazione dell’ipotesi che Carlos avesse deciso di “togliere completamente autonomia alle Cellule Rivoluzionarie per farle ‘lavorare’ soltanto per la sua organizzazione” (una cosa in parte avvenuta “con il progressivo reclutamento di intere ‘cellule’ dell’organizzazione che faceva capo a Böse, Weinrich, Kram, Albatros, Kopp e Fröhlich”)—, è lo stesso Carlos che troviamo avere rapporti con una miriade di organizzazioni terroristiche in Europa ed in Italia (BR in testa) nonché con i Servizi italiani, ma evidentemente non solo con quelli, come emerso a margine della cosiddetta “vicenda dei missili di Ortona”.
La cosiddetta vicenda dei missili di Ortona fu, come dovrebbe essere noto, un caso giudiziario che ebbe inizio nella cittadina abruzzese con il fermo e poi l’arresto di diversi membri di Autonomia Operaia nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 mentre stavano trasportando due missili terra-aria spalleggiabili Strela-2 (noto anche come SA-7 “Grail” in codice NATO) di fabbricazione sovietica destinati alla resistenza palestinese.
A seguito delle indagini sul banco degli imputati finì, dopo essere stato arrestato a Bologna il 13 novembre successivo, il giordano Abu Anzeh Saleh, militante altresì di Separat (nome in codice del gruppo Carlos adottato dall’MFS, l’apparato ministeriale dell’ex Germania Orientale che includeva i vari servizi di sicurezza della DDR, tra cui la Stasi, delegata alla sicurezza interna vera e propria e l’HVA – Hauptverwaltung für Aufklärung– per l’estero) e del PFLP, garante per la consegna dei missili destinati alla resistenza palestinese alla nave mercantile Sidon, battente bandiera libanese, attraccata al porto di Ortona, dove avrebbero dovuto essere presi in carico dal trafficante di armi siriano Nabil Kaddoura, imbarcato come ufficiale di macchina sul Sidon con il nome di Nabil Nayel, e solo in seguito arrestato a Parigi dalla polizia francese su segnalazione dell’Interpol di Roma, il 28 maggio 1981, ma mai estradato in Italia sebbene fosse già stato condannato in contumacia.
Ebbene, dalla succitata –e mi sa poco letta– relazione parlamentare apprendiamo testualmente che ad un certo punto del procedimento giudiziario avviato presso il tribunale di Chieti nella forma del rito direttissimo il 17 dicembre 1979 sono avvenuti due fatti importanti dei quali il primo consistente dell’invio “da parte del Comitato Centrale del Fronte popolare di Georges Habbash, di una lettera al Presidente del Tribunale di Chieti (n.d.r. dr. Pizzuti) con la quale il PFLP, rivendicando la liberazione degli imputati e la restituzione delle armi, ricordava al Governo Italiano il rispetto degli accordi bilaterali”.
Tanto avvenne nel corso dell’udienza del 10 gennaio 1980 allorché si assistette alla lettura in aula –lettura fatta da uno degli avvocati difensori nonché deputato del Partito Radicale, Mauro Mellini– dell’intero testo della summenzionata missiva datata 2 gennaio 1980, scritta in inglese e tradotta dai Carabinieri, con la quale il PFLP, dichiarando senza alcuna reticenza la proprietà dei missili, richiedeva quanto sopra detto.
Una lettura che venne fatta passare, alquanto fantasiosamente, come facente parte della strategia del collegio di difesa volta a dimostrare l’esistenza di un patto segreto tra l’Italia e il PFLP di Habbash relativo al transito di armi sul territorio nazionale, cosa questa che avrebbe comportato automaticamente la non punibilità degli imputati: così la Commissione di inchiesta, anche se per la verità una tale lettura sarebbe dovuta apparire fin da subito decisamente risibile essendo facilmente rigettabile in mancanza di un testo di accordo scritto, come del resto ingenua appare pure la scelta della difesa che avrebbe dovuto adire, per logica, vie diverse (magari chiedendo un’udienza a porte chiuse) per arrivare al risultato auspicato nell’interesse del proprio cliente e della Sicurezza Nazionale.
Ed infatti la richiesta, formalizzata dai difensori degli imputati, prevedeva la chiamata a testimoniare di: “Francesco Cossiga (Presidente del Consiglio), Vito Miceli (ex Capo del SID), il Col. Stefano Giovannone (Capo Centro del SISMI a Beirut, il quale teneva i contatti con le organizzazioni palestinesi), Rita Porena (giornalista di Paese Sera), Liliana Madeo (giornalista de La Stampa), Pino Buongiorno (giornalista di Panorama), Mario Scialoja (giornalista de L’Espresso), Bassam Abu Sharif (rappresentante del PFLP che aveva rilasciato un’intervista a Rita Porena), Stefano D’Andrea (Ambasciatore italiano a Beirut), e Giuseppe Santovito (in qualità di Direttore del SISMI)” che era impensabile ritenere avrebbero ammesso pubblicamente quanto sostenuto senza alcun documento reale di supporto.
Peccato che proprio l’allora Premier Cossiga, poi Presidente Emerito della Repubblica, abbia successivamente smentito se stesso dando sostanza all’esistenza di quell’informale accordo impropriamente noto come Lodo Moro. Per somma il legame piuttosto stretto emerso dalla summenzionata relazione tra Carlos e non solo la DDR, ma pure tra Carlos e molti Paesi dell’allora Patto di Varsavia, Russia compresa, aveva gettato le basi per una certa qual sudditanza nei confronti di Mosca, una sudditanza accentuatasi con il crollo del regime comunista, l’insediamento di Vladimir Putin al Cremlino e, soprattutto, la globalizzazione che ha aggravato la posizione di debolezza dell’Italia nei confronti di Mosca per via delle molte imprese colá basate come pure della ricattabilitá di una parte dell’establishment politico italiano data la posizione alquanto ambigua nella NATO, le relazioni con lo Stato di Israele al pari di quelle, parimenti non troppo limpide, con gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Un qualcosa che spiegherebbe anche perché la UNIFIL in Libano abbia chiuso non uno, ma due occhi su quanto gli Hezbollah hanno fatto per anni nella zona di loro competenza in assurda deroga dal loro mandato, salvo risentirsi allorché sono stati fatti pesante oggetto di critiche da parte di Tel Aviv.
Per quello che riguarda le relazioni con la Mosca di Vladimir Putin vi è da dire che, stando a quanto riferito da Talia, che ha attinto alle confidenze ed alle considerazioni di un funzionario di lunga esperienza al Ministero della Giustizia, un certo Balanzone, il caso Uss ha messo in luce un aspetto spesso trascurato delle relazioni tra il Cremlino e Roma.
A tale proposito Talia ha scritto: “Secondo Balanzone, l’Italia – come ogni altra democrazia occidentale – si trova di fronte a una contraddizione strutturale ogni qual volta un cittadino russo di rilievo come Artem Uss viene fermato o arrestato” chiarendo meglio il tutto aggiungendo che “I russi sono noti per attuare ritorsioni indiscriminate, piegano le regole del giusto processo a loro piacimento e i cittadini italiani residenti in Russia sono molti, spesso si tratta di dirigenti di grandi aziende o imprenditori. Tutti loro rischiano l’accusa per qualche reato mai commesso e la prigionia a tempo indeterminato in attesa di giudizio di fronte a un tribunale della Federazione Russa”.
Da qui l’potesi di una prassi che sembrerebbe diffusa tra le autorità italiane, quella che, a detta di Balanzone, farebbe sì che “di fronte all’arresto di un cittadino russo di alto profilo come Artem Uss tutti quanti farebbero il minimo indispensabile, evitando così ritorsioni sugli italiani residenti in Russia”: una tesi ovviamente tutta da verificare, ma che meriterebbe un adeguato approfondimento anche perché nel periodo del caso Uss gli Stati Uniti stavano affrontando la vicenda di Evan Gershkovich, il corrispondente del Wall Street Journal da Mosca arrestato con una accusa di spionaggio che, a detta degli USA, sarebbe stata montata ad arte e la cui liberazione sarebbe stata possibile, a quanto pare, offrendo in cambio quell’Uss che l’Italia si sarebbe fatto sfuggire di mano per evitare di trovarsi coinvolta in una vicenda che avrebbe rischiato di comportare l’arresto di qualche Italiano operante nella Federazione Russa.
Una tesi fantasiosa? Tutto è possibile così come che la cosa abbia risentito della presenza nella maggioranza che sostiene il Governo Meloni di personaggi che, a più riprese, hanno mostrato ed ancora mostrano simpatia e stima per Putin.
Comunque la si voglia mettere un fatto è certo: la fuga di Uss è avvenuta grazie ad un gruppo d’azione alquanto sui generis essendo composto da un impiegato in una fabbrica di patatine, un commerciante attivo nel settore dell’abbigliamento con qualche precedente nel contrabbando, nonché un direttore commerciale d’albergo ed il suo autista, con l’unica eccezione, al livello, per così dire, superiore, di un imprenditore russo rispondente al nome di Dimitry Chirakazde, arrestato a Fiumicino il 15 Giugno 2024, anche se residente in Svizzera da dove curava vari business miliardari come il controllo dei sistemi informatici di tutti i tribunali russi, oltre ad essere uno dei soci della famiglia Uss e bene introdotto negli ambienti dei Servizi segreti russi.
In altre parole questo vorrebbe dire che una delle peggiori figure dell’Italia e del suo apparato di sicurezza sarebbe stata determinata non da un gruppo d’azione addestrato ed abituato ad un certo tipo di operazioni, come sarebbe stato logico che fosse, ma da un gruppetto di dilettanti allo sbaraglio: da qui a sospettare che si siano volutamente tralasciati parecchi tasselli importanti nel corso delle indagini per evitare l’emersione di eventuali connivenze tutte italiane è quanto mai legittimo al punto di imporci di spostare l’analisi dell’accaduto sul piano politico.
Prima però merita riprendere in esame il caso del summenzionato Dimitry Chirakazde che dopo essere stato fatto oggetto di un provvedimento di custodia cautelare disposto a seguito dell’arresto effettuato su ordine della gip Sara Cipolla, nell’inchiesta del pm Giovanni Tarzia con il Procuratore Marcello Viola, con l’accusa di procurata evasione in concorso aggravata dalla transnazionalità, a metà Dicembre 2024, con dispositivo –a quanto pare– ancora senza motivazioni, ha potuto beneficiare della decisione dei giudici della sesta sezione della Suprema Corte che avrebbero accolto almeno alcuni dei sette motivi d’appello presentati dalla difesa Chirakadze, avvocati Tatiana Della Marra e Federico Sinicato, in particolare con riferimento all’appello organizzativo dato alla fuga dal discendente del Granduca della Georgia e sull’aggravante della trasnazionalità.
Una decisione che sta a significare che nel corso delle prossime settimane il Tribunale del Riesame di Milano dovrà prendere una nuova decisione tenendo conto delle indicazioni degli ermellini, nonostante che lo stesso Chirakadze sia stato incastrato dal già menzionato membro del commando Vladimir Jovancic, le cui dichiarazione sarebbero state confermate dal “traffico” telefonico che lo ha localizzato in Italia nelle date e nei luoghi in cui si sarebbero svolti gli “incontri” e le “riunioni” preparatorie della fuga di Uss, inclusi alberghi e ristoranti di lusso della provincia di Milano, nonché dalle liste di imbarco dei voli aerei acquisite dagli inquirenti, che così hanno potuto riscontrare la presenza dell’imprenditore nelle città italiane sede dei meeting di cui si è appena detto: un qualcosa che, dopo la decisione della Cassazione, fa sì che tutto sia inspiegabilmente tornato in discussione.
Cercare di capire quale logica politica cospirativa, ovvero quale vera strategia –ammesso e non concesso che ve ne sia una– si celi dietro tutto questo complesso, articolato e dominante scaricabarile populista italico non è agevole da comprendere con i metodi usuali d’indagine in quanto tutto ciò è anche la diretta conseguenza di quella visione umorale delle cose che da sempre tiene banco in Italia e trova espressione in esecutivi la cui maggioranza di riferimento persegue spesso il conseguimento di mete diametralmente opposte, nonostante una millantata unitarietà di intenti nel rispetto degli accordi stipulati con gli alleati politici.
Un qualcosa che, detto in altri termini, fa sì che se –ad esempio– da una parte, come nello specifico del Governo Meloni, si assiste al profondersi di sperticate dichiarazioni di atlantismo militante e, ad esempio, si promette diuturno supporto a Kyiv, dall’altra ci troviamo di fronte alla progressiva emersione di un crescente dissenso nei confronti dell’uso in profondità sul territorio russo degli armamenti forniti a Zelensky per via di quel surrettizio occhio di riguardo riservato a Putin: un occhio attento ed opportunistico fin che si vuole, ma comunque sia foriero di comportamenti poco congrui come quello evidenziatosi in relazione all’affaire Uss.
Purtroppo nessuno mai esce davvero indenne da uno scaricabarile tra poteri dello Stato: né le istituzioni, né l’opinione pubblica, né l’amor proprio dei cittadini e men che mai l’immagine dell’Italia visto che, come recita un antico proverbio, le bugie hanno le gambe corte come palesemente è emerso per quello che concerne il Lodo Moro.
Ed infatti, comunque la si voglia mettere, nonostante il tentativo di insabbiamento della intera questione riguardante il testé menzionato accordo, alla fine è stata la stessa relazione finale della Commissione parlamentare ad aprire una falla nel muro di omertà e connivenze di cui qui stiamo trattando, una falla che emerge a chiare lettere laddove si legge testualmente che: “Riflessioni conclusive: È plausibile che vi sia stato un accordo tra Governo italiano e organizzazioni terroristiche palestinesi finalizzato alla prevenzione e alla deterrenza di possibili atti terroristici nel nostro Paese in un periodo che va almeno dal 1974 al 1979” e noi potremmo aggiungere… ed oltre.
In un certo qual modo, infatti, una ulteriore conferma dei sospetti circa l’esistenza di connivenze tra l’Italia ed il PFLP ed in particolare circa le relazioni con Habbash è giunta anche per altra via nel 1985 in relazione all’inchiesta sulla scomparsa di due giornalisti italiani avvenuta in Libano nel Settembre del 1980: Italo Toni e Graziella De Palo, dei quali ha scritto, ad esempio, in tempi non sospetti Claudia Tabor sul quotidiano La Repubblica il 2 marzo 1985 in un articolo intitolato “No al mandato di cattura per Habbash”.
Nell’articolo si può leggere della risposta data dall’allora Consigliere Aggiunto Renato Squillante alla richiesta che il Pm Giancarlo Armati aveva fatto nell’ambito dell’inchiesta da lui condotta sulla scomparsa dei due testé menzionati giornalisti, ovverosia di un mandato di cattura internazionale per il Capo della Resistenza Palestinese George Habbash del quale l’inquirente aveva chiesto l’incriminazione per i reati di sequestro di persona e omicidio, indicandolo quale responsabile della morte dei due giornalisti, i corpi dei quali però non sono mai stati trovati. (In particolare, stando al Pm, Habbash avrebbe ordinato la morte di Italo Toni e Graziella De Palo credendo fossero due spie, un po’ come pare sia accaduto, sia pure in altro contesto, a Giulio Regeni).
Ora il dato più interessante riguarda il fatto che alla motivazione addotta a suo tempo da Squillante per il rigetto dell’istanza del Pm Armati, rigetto motivato asserendo che gli elementi di prova addotti dal magistrato dell’accusa per sollecitare il grave provvedimento erano insufficienti, ha fatto da contraltare quanto dichiarato nei giorni precedenti dall’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi che, interpellato dall’allora Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Miriam Mafai, aveva confermato il Segreto di Stato opposto da uno degli imputati, il Col. del SISMI Stefano Giovannone, alle domande dei magistrati in quanto “La diffusione di alcune notizie“, aveva spiegato Craxi, “potrebbe recare danno alle relazioni del nostro Paese con altri Stati“.
All’epoca dell’inchiesta sulla scomparsa dei due summenzionati giornalisti il Col. Giovannone, che nella relazione della più volte sin qui menzionata Commissione parlamentare è stato rubricato come “Capo Centro del SISMI a Beirut, il quale teneva i contatti con le organizzazioni palestinesi”, era stato accusato di favoreggiamento in quanto “avrebbe conosciuto la sorte dei due scomparsi fin dall’inizio e avrebbe fatto di tutto per proteggere i loro assassini”, nonché “di rivelazione di segreto di Stato e notizie riservate (per aver informato i responsabili dell’Olp dei risultati di alcune delicate inchieste in corso in Italia)” e per inciso sempre all’epoca “Lo stesso Col. del SISMI era “imputato a Venezia nell’inchiesta del giudice istruttore Carlo Mastelloni su un traffico d’armi partite dal Libano consegnate alle Brigate Rosse”.
Detto per inciso, ha scritto sempre l’ottima Claudia Tabor, nell’inchiesta era rimasto coinvolto anche l’ex capo del Sismi Giuseppe Santovito (per il quale fu dichiarato il non luogo a procedere essendo lo stesso nel frattempo deceduto), in quanto la stessa partí “in ritardo anche perché i nostri servizi segreti accreditarono alcune false piste sulla sorte toccata a Italo Toni e Graziella De Palo”.
È a nostro avviso in questo senso che va letto il richiamo di Davide Racca relativo al “Lodo Moro” allorché ha parlato del caso di Cecilia Sala.
Quel “Lodo Moro” risalente agli anni ‘70 del quale nessuno ama parlare, quel “Lodo Moro” che si configura come un accordo atipico evocato in termini espliciti da Francesco Cossiga in due circostanze (nel 2005 in una lettera al deputato di Alleanza Nazionale, nonché membro della Commissione Stragi, Enzo Fragalà e, in forma pubblica, nel 2008 dalle pagine del Corriere della Sera) che rimanda ad un consolidato modus vivendi dell’Italia con i Palestinesi e, in subordine, con il mondo arabo (accordo la cui atipicità consisterebbe, a quanto si sa, del fatto che non si tratterebbe di un trattato diplomatico divulgato e controfirmato dai contraenti —una circostanza, questa, che in un interessante libro di Valentine Lomellini sull’argomento intitolato “Il ‘lodo Moro’: Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986” ha fatto sì che l’espressione in oggetto comparisse virgolettata per rimarcarne l’informalitá).
Quell’accordo che sarebbe maturato nel cuore degli anni Settanta ad opera di Aldo Moro e di una intera pluralità di altri soggetti politici tra i quali troviamo Mariano Rumor, Giulio Andreotti e Bettino Craxi, un qualcosa che si inserisce a pieno titolo nella ragnatela degli altri segreti del potere che caratterizzano il decennio e che faceva riferimento ad una linea di politica estera filo araba che sarebbe stata il frutto del menzionato accordo che con non del tutto chiara finalità, lo statista democristiano –ma non solo– aveva in qualche modo richiamato per collegare la strage di Bologna del 2 agosto 1980 a un mancato rispetto italiano degli accordi con i palestinesi (non fosse che le indagini accantonarono ben presto l’attendibilità di questa ipotesi) attribuendo al solo Aldo Moro la responsabilità di un qualcosa che, a posteriori, Cossiga era parso voler giudicare scellerato.
Un accordo che la professoressa Lomellini ha dimostrato essere un qualcosa che si è configurato non solo come un accordo tra l’Italia e la resistenza palestinese, ma addirittura come un accordo che dal 1973 in avanti si è configurato come un qualcosa che ha visto nella posizione di interlocutore dello Stato italiano tutta una serie di Stati “sponsor” del terrorismo internazionale dell’epoca quali la Libia, l’Iraq e la Siria, un accordo che da un documento datato 23 Ottobre 1973 si evince aver riguardato la trattativa tra l’Italia e l’Olp rispetto ad alcuni terroristi in quel momento detenuti in Italia.
Il Lodo Moro, posto in questi termini sulla scena pubblica, ha assunto un carattere dirimente, specialmente se piegato a essere letto come aiuto italiano al terrorismo palestinese sul quale si inserisce la collusione con le BR, aspetto già qui sottolineato con dovizia di particolari.
La migliore definizione e rappresentazione di cosa sia stato il “Lodo Moro” e di come si sia mutato in “Lodo Italia” ce la da la prof.ssa Valentine Lomellini che, intervistata nel 2022 da Gianluca Zanella, ha testualmente detto: “Il Lodo non si è mai concretizzato nel mancato arresto di guerriglieri sul suolo italiano, non c’è una sorta di “divieto” di arresto o di impunità dei terroristi. I guerriglieri vengono sempre arrestati e poi, grazie all’intervento degli Interni, degli Esteri e alla collaborazione di alcuni magistrati e addirittura –nel 1976– dell’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che dà la grazia ad alcuni terroristi libici, vengono liberati. Dunque il Lodo si concretizza in un processo agevolato, ma mai nella prevenzione dell’arresto“, in altri termini una politica che si sviluppa ad altissimo livello e resta gravata da pesanti dubbi che sarebbe ora qualcuno sciogliesse a beneficio di tutti noi e relazioni con i nostri partner finalmente più chiare visto che dopo tutto in altri ambiti questo nostro modus operandi è un segreto di Pulcinella.
A tanto si arriva se solo si considera che per il lavoro sul “Lodo Moro” la prof.ssa Lomellini ha attinto a documenti provenienti dalle fonti estere delle diplomazie tedesche, inglesi, francesi passando per le carte della CIA e per gli archivi italiani tra i quali si segnalano i documenti della Divisione affari riservati conservati all’Archivio centrale dello Stato.