Narratività nella storia, nella cultura e nelle vite. «Leviatanologia» delle strutture, ovvero la postura discorsiva che produce mostri culturali.
La mente umana ha una forte predisposizione per le narrazioni che consentono di proiettarci in spazi e temporalità diverse da quelle che quotidianamente sperimentiamo. Potremmo azzardare che il nostro tardivo e contingente successo evolutivo dipenda in qualche modo anche dalla nostra capacità di astrazione che si manifesta anche con l’attitudine a narrare storie. Le tecniche illustrate da Marco Tullio Cicerone nel saggio “De oratore” ne dimostrano la efficacia, benché avremmo dovuto aspettare il Novecento per sperimentare regimi totalitari con il controllo assoluto dello Stato e in grado di annullare l’identità dei singoli cittadini. Fascismo, nazismo e comunismo emersero come feroci dittature, che Hannah Arendt definì come un fenomeno nuovo e radicale; guidate da leader che manipolarono le masse attraverso propaganda e repressione, controllavano le coscienze, e annullavano l’individualità con l’ideologia e il terrore. I loro principi autoritari permeano ancora oggi il discorso politico.
In tale ottica, una delle modalità più interessanti dell’evoluzione sociale e culturale contemporanea dipende fortemente dalla narratività, che spesso ci ha affascinato con le sue illusioni di necessità e, soprattutto, linearità del progresso. In tale quadro, l’illusione più pericolosa è stata quella proposta rispettivamente dal presidente della Federazione Russa e dalla Guida Suprema iraniana, che hanno ricostruito il passato per giustificare il presente, come se fosse l’unico, se non addirittura il migliore, dei mondi possibili.
Gli schemi e gli scenari culturali, se non addirittura i drammi cosmologici ci sono stati tramandati attraverso le nostre narrazioni principali; questa è la condizione generale degli esseri umani nella cultura e nella storia. Intenzionalità, scopi, e desideri sono riproduzione e trasformazione della cultura e della storia. Queste intenzionalità sono sempre fortemente strutturate da cornici culturali create da un ristretto numero di attori che condizionano e limitano fortemente gli elementi materiali della nostra vita sociale e politica.
Paradossalmente e secondo canoni ampiamente condivisi dai pensatori marxisti, l’individuo si ritroverebbe in un mondo sociale che nelle parole di Bordieu è fatto di relazioni; non interazioni o legami intersoggettivi tra agenti, ma relazioni oggettive che esistono «indipendentemente dalle coscienze e dalle volontà individuali».
Ora, è sotto gli occhi di tutti il modo in cui la “cultura” venga spesso reificata in un’entità oggettiva dal carattere omogeneo, discreto e prescrittivo; per non parlare poi di come sovente oscuri la pluralità di voci e favorisca asimmetriche relazioni di potere all’interno delle varie comunità, se non addirittura ne criminalizzi l’esistenza, come assistiamo recentemente nei confronti dei cittadini israeliani e nei confronti degli individui di fede ebraica.
A nulla è valso il movimento postmodernista che richiama l’attenzione sulla natura contingente o socialmente condizionata della conoscenza e dei sistemi di valori, intendendoli come prodotti di supremazie politiche, sociali o culturali, lasciando, pero, incoerentemente impregiudicato un sistema autoritario comunista che, insieme a quello fascista, ha portato i pensatori postmodernisti a promuovere l’autoreferenzialità e il relativismo epistemologico e morale.
Nella realtà, un simile movimento ha favorito uno scetticismo metafisico, e successivamente il nichilismo, calpestando la dignità del singolo individuo, vero agente di una società pluralistica nella cultura occidentale liberale e dalle radici giudaico-cristiane. L’unica modalità principale di teorizzazione contemporanea che si pone come anti-narrativa-post-strutturalista e/o teorizzazione postmoderna è quella rivolta all’Occidente democratico. Gli eredi delle Grandi narrazioni del ‘900, che adesso sono paesi autocratici e imperialisti, cercano, cosi, di cancellare le Narrazioni principali, a cui i paesi occidentali non vogliono rinunciare.
Una narrativa postmodernista condizionata da esistenzialisti come Sartre, convinti che gli uomini siano “condannati alla libertà” e che nella storia non ci fosse spazio per la libertà assoluta nell’accezione esistenziale, aspira inevitabilmente al Partito, governato dal Minamor (Miniluv), ovvero il Ministero dell’Amore, evocato da George Orwell in 1984. Anche Camus aveva già condannato il massimalismo pericolosamente inconsistente di Sartre. Ovviamente, in una tale visione non poteva mancare come catalizzatore della rabbia dei postmodernisti, il ritratto nei manifesti propagandistici con lineamenti ebraici, un nuovo Emmanuel Goldstein, di orwelliana memoria.
In una tale prospettiva, le grandi narrazioni dimostrano ancora una vitalità, a dispetto delle principali narrazioni e contrariamente a quanto sostenuto da Jean-François Lyotard nel celebre libro “La condizione postmoderna” in cui affermava che le grandi narrazioni e il metadiscorso della filosofia fossero in declino.
In tutto questo Foucault è una figura cardine. Foucault, infatti, affermava che la verità si costituisce nella pratica del discorso. I partecipanti al discorso non costituiscono la verità come tale: costituiscono il mondo in cui un certo tipo di affermazioni o concezioni sono incluse, in quanto in potenza vere o false. Il discorso di verità si riferisce quindi alla possibilità di inserimento delle affermazioni nel discorso: non si decide cosa è vero, ma come le affermazioni possono essere vere o false. Quest’aspetto è molto simile alla posizione di Kierkegaard, secondo cui quando si sceglie l’etica si sceglie la distinzione tra bene e male: non si sceglie il bene, ma la distinzione. Magistrale la visione di Foucault, secondo il quale in ogni periodo vi sono alcune affermazioni che possono essere considerate vere, e introdotte nel discorso di verità.
Analogamente, nella nostra società post-moderna le persone sono collocate in cornici narrative non di loro scelta, rompendo sistematicamente la capacità delle persone a narrare la propria verità. Per questo, le manifestazioni di piazza non sono momenti aggreganti, in cui gli individui confrontano le proprie idee per veicolarle in maniera propositiva alle autorità preposte, ma si traducono in continue mobilitazioni che impongono il discorso dominante in un processo squisitamente autoritario. Un processo di negazione del sé che sfocia ineluttabilmente in manifestazioni di violenza, ovvia manifestazione della fine della loro narratività con una vendetta; così come la fine della storia in quanto tale.
Il postmodernismo, fortemente influenzato dallo storicismo marxista, si identifica in un insieme specifico di caratteristiche della vita sociale e della nostra rappresentazioni della vita sociale caratterizzato dalla disgregazione e appiattimento della soggettività di un individuo, come attore sociale responsabile, e si concretizza nella radicale rottura delle narrazioni culturali, la radicale incoerenza di forme culturali e il radicale decentramento del soggetto e della nostra concezione di soggettività.
La frustrante incapacità di formulare e attuare i propri progetti e di narrare sé stessi, sia come prodotto di un passato coerente, sia come agente di un futuro immaginabile, porta una drammatica deresponsabilizzazione dell’individuo; la passività è in una certa misura indotta nella grande maggioranza delle masse, private di riferimenti storici certi e di capacità di agire. La maggior parte di questi cittadini sono come gli “eroi vittime“, cui si riferiva il folklorista Propp, riferendosi alle eroine delle favole che, nonostante siano le protagoniste, l’azione della storia è mossa in virtù delle cose brutte che accadono loro, piuttosto che delle loro azioni iniziali come nel caso della maggior parte degli eroi maschi.
Gli effetti nefasti del secolo buio con le sue derive autoritarie continuano a riverberarsi ai giorni nostri e la pericolosa conseguenza del decentramento e dell’appiattimento della soggettività e la rottura sia del passato che del futuro sono specificamente effetti delle filosofie che li hanno sottesi. La rottura della narratività come esercizio del potere discorsivo degli individui ripropone la imposizione di una narrazione unica che soffoca le identità personalità a favore di un’identità massificata.
Questo processo, inesorabile in Cina e Russia, deve essere contrastato con vigore nelle democrazie mature riconoscendo e rispettando i modi in cui le persone stesse hanno da sempre provato e continuano a provare a rendere le loro vite e i loro mondi coerenti.
Il potere creativo delle storie nella nostra manifestazione identitaria è splendidamente incarnato nel romanzo di Salman Rushdie, “Haroun e il mare delle storie”. Il padre di Haroun, Rashid, è un narratore che mette insieme storie meravigliose dai molteplici flussi colorati del grande Story Sea. La capacità del padre di raccontare le sue storie è paralizzata dall’operazione di che il malvagio mago Khattamm-shud che sta intenzionalmente inquinando quel mare. Il figlio va via per salvare suo padre, e alla fine affronta il padrone delle forze del silenzio. Nonostante tutti i pericoli Harun riuscirà a sconfiggere il male e a riportare in vita il mare delle storie. Il suo paese tornerà ad avere un nome e suo padre riprenderà a narrare storie meravigliose.