Che l’Arabia Saudita, per il tramite del suo Ministero degli Esteri, ritenga pubblicamente Israele responsabile di genocidio dei palestinesi di Rafah e degli altri ‘territori occupati’ e che lo Stato ebraico continui imperterrito la guerra nei confronti di Hamas, apparendo così entrambi politicamente distanti in modo irrecuperabile, non toglie per nulla che le due potenze, la monarchia saudita e la democrazia israeliana, siano a un passo dalla chiusura e dal compimento dell’intesa tecno-militare, securitaria e commerciale tra loro, quale propaggine calcolata degli Accordi di Abramo. Mentre le testate giornalistiche si affannano e affrettano a battere freneticamente la notizia dell’accusa estrema di Riad a Tel Aviv per il massacro sulle tende di Rafah, facendo intendere, in pratica, l’irrecuperabilità dei rapporti tra le due realtà statuali e la produzione di una spaccatura che, apocalitticamente, ancora una volta, dovrebbe incendiare, più di quanto già non lo sia, la regione mediorientale, il dialogo tra esse non smette mai di essere intessuto e promosso. E ciò nella piena consapevolezza da parte di Arabia Saudita e Israele di non potere minimamente contravvenire alla propria posizione e all’attuale propria missione ‘internazionale’, segnatamente di paladino della causa palestinese, il primo, e di neutralizzatore del terrorismo di Hamas, il secondo.
In pratica, Mohammed bin Salman (MbS) e Netanyahu sono impegnati su due fronti, che compongono integratamente la piattaforma delle loro relazioni politico-diplomatiche, anche e soprattutto sottotraccia: quello della divulgazione mediatica, sul quale devono mostrare di non poter contraddire l’immagine che hanno fino a ora prodotto di sé e costruito con certosina precisione e perseveranza, anche se questo comporta, evidentemente, una loro palese contrapposizione, e quello della fattualità dei loro rapporti, in virtù della quale, a prescindere da qualsiasi elemento di frizione e di stridente antitesi, essi sono seriamente interessati a individuare ragioni di unità, soprattutto militare e di intelligence, che ne possano favorire la protagonisticità in quel quadrante tensivo, su cui insiste prepotentemente il nemico comune iraniano. Per questo la retorica pubblico-propagandistica dell’uno e le azioni militari dell’altro, che in apparenza li vorrebbero divisi in maniera definitiva e insanabile, risultano essere solo la maschera internazionale sotto cui covano, al contrario, concrete ed efficaci consonanze e collaborazioni, che tanto ‘innervosiscono’ soprattutto i tifosi dell’isolamento israeliano, tanto nella regione quanto a livello globale.
Ma sarebbe sufficiente compiere un passo temporale indietro, solo di qualche giorno, per comprendere che la modalità della relazione saudita-israeliana si identifichi con uno studiatissimo programma, che prevede (e tollera) una continua oscillazione dei loro rapporti, determinata, il più delle volte, dalle occorrenze geopolitiche contingenti e dai ruoli che ciascuno dei due stati ‘deve’ interpretare sulla scena internazionale per corrispondere alle attese dei propri alleati. Un’oscillazione che fa letteralmente ‘impazzire’ soprattutto i giornalisti partigiani anti-israeliani, che, se un giorno sbrodolano, sbavano e godono scompostamente per le dichiarazioni dei sauditi contro gli ebrei, cariche delle stesse invettive che rimpolpano la narrativa contro-giudaica e pro-palestinese loro e in genere occidentale, il giorno seguente rimangono sbigottiti da ‘imprevedibili’ ‘ri-avvicinamenti’ di sorta tra gli arabi sunniti e gli israeliani.
L’esempio più lampante – lasciando da parte, senza minimamente sottovalutarlo, il caso del fondamentale supporto informazionale e di intelligence fornito dall’Arabia Saudita, insieme agli Emirati Arabi Uniti (EAU), a Israele nella scaramuccia missilistica con l’Iran del 13/14 aprile 2024 – è rappresentato proprio dall’intervista che Abdulaziz Sager, direttore del think tank ‘Gulf Center’ di Riad, ha rilasciato il 10 maggio 2024 al quotidiano La Repubblica, nella quale egli, da una parte, legava a filo doppio la presenza di una forza di pace arabo-saudita a Gaza nel periodo post-bellico direttamente alla formulazione di un piano di emancipazione delle aree palestinesi occupate dalla presenza israeliana, dall’altra, vaticinava l’impossibilità del perfezionamento di ulteriori intese tra Riad e Tel Aviv, sull’onda lunga degli Accordi di Abramo, laddove non fosse sciolto il nodo della crisi israelo-palestinese e soprattutto non fosse affrontata, per essere risolta, la questione della costituzione di uno Stato per il popolo palestinese. A prescindere dal fatto che l’Arabia Saudita era sulla strada della conclusione di un accordo storico di normalizzazione dei propri rapporti con Israele già subito dopo la firma degli ‘accordi abramitici’ da parte EAU, Bahrein, Marocco e Sudan, e ciò del tutto indipendentemente dalla circoscrizione di confini sovrani per i palestinesi, vi è da registrare che, a quasi dieci giorni dalle dichiarazioni di Sager sulla propedeuticità della riconciliazione ebraico-palestinese alla ripresa delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele, in effetti queste si stanno regolarmente svolgendo, ancora una volta con la mediazione e la benedizione degli Stati Uniti, anch’essi più volte raccontati mediaticamente come sul punto di rompere con Israele per la sua politica eccedentemente aggressiva. Infatti il 19 maggio 2024 Biden ha inviato alla corte di MbS il suo Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ma non per discutere di come punire Netanyahu per le sue azioni militari a Rafah o della modalità per individuare un’area plausibilmente destinabile al popolo palestinese in fuga dagli attacchi israeliani, né per parlare di un piano di progressivo smorzamento delle tensioni belliche. Ciò su cui si sono soffermati a intendersi è stato comprensibile dai movimenti del Consigliere statunitense, oltre che dalle succedanee dichiarazioni ufficiali del Ministero degli Esteri saudita. Infatti Sullivan, una volta lasciata Riad, non è certo tornato subito a Washington, ma è partito immediatamente alla volta di Gerusalemme, dove, guarda caso, ha incontrato il primo ministro israeliano per discutere nel dettaglio di come poter perfezionare, quanto prima, gli accordi tra la monarchia saudita e lo stato israeliano.
A conferma, dunque, che, per quanto importante – e, si deve ammettere, anche in sé –, la questione di una territorializzazione ragionata dell’etnia palestinese, essa, purtuttavia, non sembra costituire un ostacolo insormontabile per la più cogente e interessante regolarizzazione dei rapporti tra lo stato a maggioranza sunnita e quello ebraico. Evidentemente colta, essa stessa, come probabile trampolino di (ri)lancio della pace tra palestinesi e israeliani, attesa, più che altro, da tutti quegli alleati di Riad, che oggi, almeno per una rinnovata questione di principio, anche religioso se si vuole, non permetterebbero – ma anche questo è tutto, comunque, da verificare sul campo e nei fatti! – che i processi di normalizzazione istituzionale tra la pretendente alla guida del Medioriente pan-islamico e l’attore principale della sicurezza militare della medesima regione possano essere condotti a termine senza una risposta seria e concreta alla richiesta di un proprio ‘spazio sovrano’ proveniente dai palestinesi. Da quanto ripreso da fonti americane da parte di Cbs News, questa sarebbe una delle tre condizioni poste, attraverso Sullivan, da Riad a Tel Aviv per poter procedere alla ‘stretta finale’ degli accordi. Le altre due si sostanzierebbero innanzitutto nell’assicurazione, da parte statunitense (ma anche, quindi, israeliana) di un ombrello tecno-missilistico e di un meccanismo di difesa dell’Arabia Saudita – soprattutto dall’Iran, ma in genere da eventuali altri Stati ostili – simile a quello che gli USA garantiscono ai propri alleati nel circuito NATO; e, in seconda battuta, nel riconoscimento pieno da parte saudita dello Stato ebraico, sponda giuridico-internazionale e diplomatica che costituirebbe l’acquisizione di un notevole credito e di un enorme vantaggio (geo-)politico per Israele, ma anche, per riflesso, per gli stessi sauditi.
Insomma ancora una volta, esteriormente e formalmente, la questione palestinese sembra presentarsi, nella sua possibilità di risoluzione, come la condizione di sormontabilità di tutti quegli ostacoli che si frappongono al brindisi, già ampiamente preconizzato, tra lo Stato del petrolio e quello della tecnologia militare – e non solo – ultra-avanzata, che tanto fa gola a chi ne ha bisogno per schermarsi da un nemico imprevedibile, come la Repubblica islamica dell’Iran, sostenitore, indifferentemente, di gruppi terroristici, temibili su ogni fronte, quali Hezbollah e Hamas. Eppure, a ben guardare, la posizione saudita su tale questione è fortemente problematica, soprattutto se si pensa che, a complicare il quadro delle richieste ‘condizionali/condizionanti’ rivolte a Israele per la conclusione positiva del processo di normalizzazione dei loro rapporti, si pone proprio l’argomento della leadership di un eventuale Stato palestinese. Si potrebbe, infatti, chiedere a Israele di accettare la formazione di un’entità sovrana palestinese a guida Hamas, dopo che il governo ebraico starebbe addirittura mostrando di accettare lo sdegno morale della comunità internazionale, l’ipotesi di interruzione dei rapporti con la monarchia saudita e la sospensione, se non proprio, l’annullamento degli Accordi di Abramo proprio per combattere ed estirpare definitivamente Hamas? Potrebbe Riad stessa sopportare, come anche Israele, che, laddove si spinga internazionalmente per un governo a trazione Olp di un futuro Stato palestinese, in tale configurazione politica possa essere ammessa, tra le altre sigle/fazioni palestinesi, anche e proprio Hamas, che costituisce una spina – filo-iraniana – nel fianco saudita, e che certo non sarebbe depotenziato nella sua forza militare e nella sua pericolosità terroristica dalla sua ‘diluizione’ in un coacervo politico pluri-identitario? E ancora: sarebbe immaginabile raggiungere una qualche forma di stabilità regionale a seguito della formazione di uno Stato palestinese, laddove comparisse, seppure in modo camuffato e (pseudo-)‘normalizzato’, quell’Hamas, rigettato da tutti i paesi del Golfo, a eccezione del Qatar, in ragione del suo elevatissimo tasso di imprevedibilità gestionale dal punto di vista militare e della sua stretta collusione con il finanziatore iraniano?
Come ben si comprende, la questione palestinese, nodo centrale per la chiusura dell’intesa arabo-israeliana, non è un problema solo per Israele, ma anche per l’Arabia Saudita. Che sa benissimo – come lo sapeva, da attenta e interessata osservatrice (ancora per poco) ‘esterna’, anche prima, ma soprattutto in corrispondenza della strutturazione e della sottoscrizione degli Accordi di Abramo – che, a prescindere dalla sua intrinseca importanza ai fini del riconoscimento politico-esistenziale dei palestinesi e di una maggiore saldatura dei Paesi islamici dell’area del Golfo (dai quali Riad attende di essere riconosciuta senza esitazione come Stato-pilota della medesima), rimane pur sempre un vero e proprio impedimento alla costruzione di adeguati e moderni rapporti internazionali e diplomatici con Israele e con quell’Occidente che esso rappresenta in quella regione. Quasi certamente l’Arabia Saudita e i Paesi firmatari degli Accordi di Abramo avevano addirittura contato sul fatto che proprio questi ultimi avrebbero significato la tappa essenziale del percorso di un progressivo spegnimento ed esaurimento – per sfinimento, si potrebbe dire – della questione palestinese, e che il popolo di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est avrebbe gradualmente accettato di costituire una delle due componenti, assieme a quella ebraica, di un unico Stato bi-nazionale israeliano. Prospettiva d’un tratto svanita grazie alle violenze da mattatoio di Hamas, ora sempre più temuto e rigettato non solo da Israele, ma da tutti quegli Stati che con questo prevedono di poter tornare a dialogare e stringere nuove produttive alleanze politiche ed economico-finanziarie. E che, gioco forza, indipendentemente dalle loro previsioni e dai loro progetti a breve e lunga scadenza, in cui l’argomento-Palestina non era per nulla previsto, ma al contrario, completamente evaporato, si sono ritrovati a dover discutere e difendere, come fosse per loro una questione dirimente – che sembrava così non essere più –, il problema dei palestinesi, per come essi lo interpretano nel senso ordinario del loro diritto a una dimensione territoriale, e in quello stra-ordinario della loro difesa dalla ‘furia vendicativa’ e ‘genocidario-sterminativa’ di Israele.
Questo scenario, però, che vede l’Arabia Saudita interloquire apparentemente a fatica con Israele, e che, però, non disdegna certamente la condivisa mediazione statunitense per mantenere sempre accesa la fiamma del dialogo e dell’intesa con gli ebrei – questo, sì, il fuoco dei suoi reali interessi geopolitici –, è però incardinato in un macro-progetto commerciale, che l’eventuale firma degli accordi di normalizzazione con Tel Aviv effettivamente condurrebbe a realizzazione, e che Riad di certo non si lascerebbe sfuggire solo per accarezzare il sogno palestinese di un proprio Stato, laddove questo rappresentasse un freno se non proprio un intralcio ai propri programmi di sviluppo economico e politico. Si tratta di un super-progetto, denominato ‘Gaza 2035’, che, sulla scia di un altro macro-piano immobiliare relativo alla marina di Gaza, gestito dall’impresa israeliana ‘Harey Zahav’ (‘Montagne d’oro’) e, in pratica, promosso e sostenuto da Jared Kushner – noto per essere il genero di Donald Trump, ma anche e soprattutto, per essere stato uno dei protagonisti attivi degli Accordi di Abramo – prevede la realizzazione della cosiddetta ‘Gaza-Arish-Sderot Free Trade Zone’. La quale non solo si presenta come area a intenso sviluppo tecno-abitativo, provvisto dei più aggiornati sistemi di acquisizione, conservazione e impiego/sfruttamento di energia solare, ma anche come snodo logistico strategico per le attività commerciali dell’area mediorientale, in cui l’interlocutore privilegiato sia proprio l’Arabia Saudita. Immaginata sul modello di città avveniristiche come Dubai o Abu Dhabi, la Gaza-Arish-Sderot Free Trade Zone è previsto sia collegata alla futura Neom, la iper-tecnologica, super-smart e iper-lussuosa città arabo-saudita da costruire nel bel mezzo del deserto, voluta con fermezza e determinazione dal principe ereditario MbS. La connessione ferroviaria tra la nuova Gaza e Neom rappresenterebbe, dunque, il solido legame tra il futuro di Israele e quello di Riad. Non a caso il nome stesso ‘Neom’ sarebbe l’unione del termine greco (occidentale!) ‘neo’, ‘nuovo’, e della lettera ‘m’, iniziale tanto del termine arabo (mediorientale!) Mustaqbal, che vuol dire, per l’appunto, ‘futuro’, quanto del nome del principe ereditario stesso.
La città futuristica, da circa 1 trilione di dollari, e divisa in dieci regioni, tra le quali spiccherebbero quattro in particolare, oggi già in fase di costruzione – quali Sindalah, isola artificiale dalle abitazioni di lusso; Trojena, montagna continuamente innevata a partire dal 2026 e capace di ospitare i giochi invernali dell’Asia del 2029; Oxagon, plesso industriale galleggiante; The Line, area a elevatissima densità abitativa – costituisce, dunque, non solo il segnale di uno sviluppo interno all’Arabia Saudita, ma, nel suo prossimo collegamento con una Gaza, del tutto trasformata nel suo aspetto e nella sua funzione – coma appare dalle immagini presenti sulla pagina della rivista virtuale israeliana The Architect’s Newspaper, poi riportate sul blog del geoeconomista Adam Tooze, sulla base di un progetto direttamente elaborato dall’Ufficio del primo ministro Netanyahu –, anche e soprattutto un sistema di raccordo commerciale ed economico, in grado di testimoniare una chiara ed evidente volontà di intesa con Israele. Per la quale, dunque, è necessaria quella pace che il permanente, inesaurito e irrisolto conflitto dello Stato ebraico con i palestinesi, ovvero, che la ‘questione palestinese’ mette a dura prova, e rispetto a cui l’Arabia Saudita, pur nella ‘doverosa’ pubblica, partecipata e internazionalmente esibita condanna delle azioni delle Idf a Rafah come genocide, comincia, evidentemente, a provare, in realtà, un senso di stizzita insofferenza. Non foss’altro che tale situazione costringe non solo l’Arabia Saudita e Israele, ma l’intero quadrante mediorientale a stagnare in un presente che sa di passato remoto, quasi ‘bellicamente’ e ‘religiosamente’ medievale, quando, al contrario, l’orientamento della maggior parte dei Paesi della regione è ambiziosamente verso un futuro di benessere, laico e libero dalla violenza e dalla guerra.