Henry Kissinger, last statesman of the West, meets Xi Jinping: a new Yalta?
Il recente incontro a Pechino dell’ex Segretario di Stato Usa, nonché Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, Henry Kissinger –nel bene e nel male l’ultimo vero statista globale ante litteram dell’Occidente nel XX secolo– con il Presidente cinese, Xi Jinping, resterà, come è giusto che sia, negli annali della storia diplomatica non solo statunitense, ma mondiale.
Per capirlo credo possa essere sufficiente, anche ai meno informati ed ai più giovani, leggere una lunga disamina apparsa a luglio dello scorso anno sulla testata giornalistica on-line “Gli Stati Generali” con il significativo titolo “Noam Chomsky: il mondo alla resa dei conti” (qui nella versione in lingua inglese): un testo che puntando ad analizzare le cause del recente conflitto russo-ucraino ci permette di ripercorrere le logiche geopolitiche ed economiche che hanno caratterizzato la storia dell’intero pianeta negli ultimi trenta anni.
Dal summenzionato lavoro emergono a chiare lettere le profetiche critiche che, in tempi non sospetti, sono state a più riprese mosse, scevre da qualsivoglia partigianeria, tanto dal politologo americano Noam Chomsky, quanto dall’ex Segretario di Stato H. Kissinger a tutto ciò che ha caratterizzato la delicata fase di transizione, guidata dagli Stati Uniti d’America, da un Ordine Mondiale tutto all’insegna del bipolarismo ideologico, ad un Nuovo Ordine Mondiale globale tutto all’insegna di quel Liberismo –segnatamente caratterizzato da quella circolazione esseri umani e capitali– che ha determinato una via via crescente delocalizzazioni dei sistemi produttivi primari Occidentali che, improvvidamente, ha purtroppo finito per mantenere basato “a casa” per lo più il solo terziario rendendo la Cina la “fabbrica del mondo”.
Un terziario che, come noto, solitamente rappresenta una via utile al più per la ridistribuzione della ricchezza generata dalle attività economiche primarie ovvero, in mancanza di questa, della ricchezza acquisita per lo più a debito in un contesto caratterizzato, come nel nostro caso, da una politica monetaria figlia diretta degli Accordi di Bretton Woods, dal 1944 al 1971 –e dallo Smithsonian Agreement , negli anni successivi, che ha visto sempre e comunque, per lo meno fino ad oggi, l’affermazione del primato incontrastato dello USD su qualsivoglia altra moneta per tutto quanto concernente le contrattazioni aventi per oggetto le commodities ed i prodotti energetici.
La logica ispiratrice di un tale folle modus operandi è stata quella di matrice imprenditoriale che ha puntato, dopo la fine della Guerra Fredda –e con essa del primato della politica sulle logiche del capitale– a sfruttare al meglio le più favorevoli condizioni ambientali di aree geografiche situate alla periferia (si pensi, ad esempio ai Paesi, dell’ex blocco sovietico), quando non addirittura al di fuori di quell’opulento Occidente in cui le normative fiscali e salariali, le leggi relative alla sicurezza ed alla tutela dei lavoratori ed i costi di produzione decisamente più favorevoli consentivano alle imprese ed alle multinazionali di massimizzare i profitti riducendo i costi.
Su tutto quanto sin qui richiamato ha costantemente gravato, poi, con significatività crescente, la spada di Damocle dei “derivati”, ovvero dei finti beni generati da quel fittizio mondo economico parallelo figlio dell’ingegneria finanziaria, ossia di quel ramo estremamente ibrido della finanza speculativa consistente delle metodologie volte alla massimizzazione dell’estrazione di valore dai prodotti finanziari ottenuta grazie all’utilizzo di sofisticate tecniche di modellizzazione fisico-matematica, di programmazione informatica ovvero facendo ricorso a strumenti derivanti dalla statistica e dal calcolo delle probabilità al fine di calcolare il valore attuale di strumenti derivati, determinare portafogli ottimali di investimento, modellare il rischio di un certo investimento in base alle esigenze e alla propensione al rischio del singolo, sviluppare algoritmi per finalità di trading o, ancora, combinare strumenti finanziari esistenti al fine di crearne di nuovi, al solo scopo di fare utile in un contesto in cui alle banche la delocalizzazioni delle produzioni ha tolto la possibilità di fare impresa (e quindi utile) operando come intermediario finanziario.
In un tale contesto il trasferimento di know-how occidentale a Paesi all’epoca decisamente più arretrati, ovvero in via di sviluppo, ha determinato la progressiva crescita economica e politica di questi soggetti geopolitici, tra i quali spicca significativamente proprio la Cina, che ora stanno presentando il salato conto a tutti noi scatenando reazioni tra le quali fanno pessima mostra di sé le scelte strategiche adottate dagli Stati Uniti, dalla NATO e dagli alleati dal 1989 ad oggi.
Nello specifico dell’incontro oggetto del presente articolo va doverosamente osservato che, al di là di tutte le considerazioni e di tutte le dichiarazioni rilasciate a margine dell’incontro —ma meglio faremmo a dire “degli incontri” visto che questo viaggio è stata l’occasione per incontrare non solo Xi Jinping ma anche il massimo diplomatico cinese , Wang Yi , nonché il Ministro della Difesa Li Shangfu (nonostante che quest’ultimo sia sotto sanzioni statunitensi e che a Maggio abbia respinto una richiesta del Pentagono per un incontro con il segretario alla Difesa Lloyd Austin a margine di un forum sulla sicurezza a Singapore)— lo stesso rappresenta un ulteriore esempio della real-politik di H. Kissinger, un uomo di cui si possono dire molte cose tranne due:
- che non sappia agire, a 100 anni compiuti, pragmaticamente, senza lasciarsi condizionare da schemi preconfezionati, bensì guardando alla realtà per quella che è –e non per quella che si vorrebbe fosse
- che non abbia ben chiaro quale debba essere il ruolo strategico della politica in senso lato –e di quella statunitense in senso stretto– nel contesto globalizzato attuale che, per tutta una serie di ragioni, non può prescindere dall’accettazione del multipolarismo (meglio se in chiave neo-bipolare) caratterizzante il nascente Nuovo Ordine Mondiale.
A tale proposito sono illuminanti le parole con cui Wang Yi, stando a quanto diffuso dal sito web ufficiale del ministero degli Esteri cinese, si è rivolto a Kissinger durante il loro incontro di mercoledì scorso: “La politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina richiede saggezza diplomatica in stile Kissinger e coraggio politico in stile Nixon”, qualcosa che da diversi lustri non alberga nelle stanze dell’establishment statunitense, come purtroppo ben testimoniano le incongruenze e le inutili guasconate populiste informanti tanto la politica estera dell’attuale Presidente statunitense, quanto quella del suo predecessore.
Parole che non possono essere minimamente fraintese, per quanto vadano attentamente analizzate per ciò che riguarda la forma espressiva e non solo il contenuto, in quanto pronunciate ed articolate da chi -nella fattispecie il Presidente Xi– era ed è sicuramente perfettamente consapevole che una delle accuse mosse da Kissinger all’establishment statunitense ha riguardato la poco lungimirante, nonché raffazzonata e priva di consistenza strategica, politica di respingimento di quel Cremlino che in alcun modo si sarebbe dovuto indurre a perseguire apparentamenti diplomatici, politici a noi del tutto sfavorevoli come quello attuale con la Cina.
Una consapevolezza che sicuramente può far comprendere le ragioni di una altrimenti inspiegabile assenza dai colloqui del 57-enne Qin Gang (dai più considerato un protetto del presidente Xi Jinping), ex ambasciatore negli Stati Uniti prima che Xi a Dicembre lo promuovesse a Ministro degli Esteri, evidenziatosi a più riprese per i suoi toni duri e ritenuto una delle voci più importanti della Cina nel mondo esterno, nonché noto per essere stato uno dei primi ad adottare la retorica combattiva in seguito conosciuta come la “diplomazia del guerriero lupo” cinese nonostante lui ed il suo Paese abbiano di recente stemperato i loro toni.
Molte, infatti, in un recente passato le critiche sollevate a livello internazionale sul tipo di approccio che la Cina ha fin qui recentemente mostrato con decisamente poca accortezza: critiche che hanno imposto, di fatto un ‘rebrand’ stilistico sollecitato dallo stesso Xi Jinping che già nel Giugno 2021 aveva avuto modo sottolineare pubblicamente, nel corso di una riunione di studio del Partito Comunista (stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua), l’importanza per le Cina di migliorare la propria narrativa ufficiale a livello globale nel senso di una più consona pacatezza che possa riflettere il crescente status della seconda economia mondiale: “Dobbiamo prestare attenzione a cogliere il tono, essere aperti e fiduciosi ma anche modesti e umili, e sforzarci di creare un’immagine credibile, amabile e rispettabile della Cina”.
Da questo punto di vista è lecito ritenere che tanto l’accoglienza riservata a Kissinger, quanto l’assenza di Qi Gang (che oltre ad essere il Ministro degli Esteri cinese è anche Consigliere di Stato, alto funzionario del Consiglio di Stato, l’organo esecutivo del Partito Comunista Cinese al potere) così come pure la stessa presenza dell’ex-Segretario di Stato a Pechino, quantunque dichiaratemene non in veste ufficiale, rappresentino più che altro la risposta a livello globale alle esigenze di comunicazione di Washington e Pechino che a questo punto dovrebbero essere coralmente addivenuti alla conclusione di non avere entrambi alcuna possibilità di ripristinare, ovvero di costruire, un Nuovo Ordine Mondiale monopolare per quella oramai conclamata irreversibile interdipendenza economica che lega i due Paesi e, come tale, nega ad entrambi ogni possibilità di prevalere l’uno sull’altro.
Personalmente dubito fortemente che il viaggio di Henry Kissinger sia stato un semplice viaggio di piacere come pure del fatto che l’anziano statista si sia prestato, per qualche ingenuità senile, al gioco delle parti di Pechino: ci potremmo aspettare qualcosa del genere da un Donald Trump e da un Biden, ma non certamente da un navigato uomo di stato come Kissinger.
In un tale contesto scenografico nulla, da entrambe le parti, è stato lasciato al caso sicché perfino l’assenza di Qi Gang viene a rappresentare la significativa sottolineatura di un messaggio diretto a quanti nel mondo pensano di poter assurgere ad un ruolo diverso da quello gregario sin qui ricoperto: intendo riferirmi ai BRICS, all’India, ai Paesi Arabi, alla Turchia, a Parigi e alla stessa Federazione Russa: un messaggio anticipatore di una Nuova Yalta, questa volta a due voci, il cui fallimento non favorirebbe né Washington né Pechino in quanto questo spianerebbe la via ai neofiti della geopolitica mondiale.
Le prime vittime sacrificali sono sotto gli occhi di tutti: in primo luogo l’Ucraina, in secondo luogo Taiwan ed in terza battuta la Federazione Russa e l’Europa il cui confronto attuale sembra configurarsi e profilarsi come la Proxy War per eccellenza di questo XXI secolo, deprivati come sono entrambi di quella indipendenza politica ed economica da, rispettivamente, la Cina e gli Stati Uniti, che potrebbero riacquistare solo nel caso in cui, deposte le armi, dessero vita ad un blocco strategico euro-asiatico autonomo e sovrano come nelle tramontate aspirazioni della Germania e della stessa Francia.
Cosi la dichiarazione di Matthew Miller, portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller, circa il fatto che l’amministrazione Biden era a conoscenza della visita di Kissinger in Cina, ma che l’anziano statista stava agendo “di sua spontanea volontà” e non “per conto del governo degli Stati Uniti”, a questo punto non fa altro che richiamare alla mente una celebre frase di Otto von Bismarck:
“Non credere mai a nulla fintanto che non è stato ufficialmente smentito.”