Il ‘no’ secco di Zelensky al Papa: atto dovuto, come da copione, ma…
Negli ultimi giorni il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato, per certi versi, più prolifico di sempre quanto a dichiarazioni –tanto roboanti quanto contraddittorie e, soprattutto, smentite dai fatti correnti per quello che riguarda il loro valore, peso, significatività e, soprattutto, affidabilità– circa il da farsi prossimo venturo.
Particolarmente interessanti sono quelle che hanno fatto da premessa, resoconto e bilancio finale per ciò che riguarda la sua recente vista a Papa Francesco che molti osservatori e commentatori hanno valutato a tratti con stupore e a tratti con malcelato fastidio e disappunto per via del tono deciso –e a tratti quasi sprezzante– adoperato dalla massima autorità ucraina che, comunque, ha lasciato trasparire la sua notevole preoccupazione per il proprio destino, il prosieguo della guerra ed il futuro prossimo del proprio Paese.
A fare da supporto a questa lettura sicuramente abbiamo la recente dichiarazione del Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg: in verità un auspicio-esortazione rivolto agli alleati che conferma in pieno tutti i dubbi circa il futuro di questa guerra e che poco si conciliano con l’apparentemente cieca fiducia diZelensky nella vittoria finale. Procediamo con ordine, a questo punto, per dare corpo, sostanza e supporto a tutto quanto sin qui espresso. Il 13 maggio Zelensky ha incontrato Papa Francesco con il quale ha avuto un colloquio durato circa 40 minuti, al termine del quale ha rilasciato la seguente dichiarazione che ha affidato a Telegram: “Sono grato per la sua personale attenzione alla tragedia di milioni di Ucraini. Ho anche sottolineato decine di migliaia
di bambini deportati. Dobbiamo fare ogni sforzo per riportarli a casa. Inoltre, ho chiesto di condannare i crimini russi in Ucraina. Perché non può esserci uguaglianza tra la vittima e l’aggressore. Ho anche parlato della nostra formula di pace come dell’unica formula efficace per raggiungere una pace giusta. Si è offerto di unirsi alla sua attuazione”. Parole che hanno richiamato in senso lato la sua “formula di pace” come noto consistente di 10 punti, già presentati in videoconferenza al G20 di
Bali a metà novembre 2022, che tra le altre cose prevede “La restaurazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, sulla base dei principi fissati dalla Carte delle Nazioni Unite”. Un qualcosa che tradotto in parole povere vuol dire che il leader di Kiev persegue la riconquista di tutto il Donbass e anche della Crimea, annessa illegalmente dalla Russia nel 2014: proposito il cui perseguimento è sicuramente legittimo, ma alquanto poco realistico anche per gli alleati occidentali i cui Governi, a cominciare da quello americano, continuano a svicolare su quello che potrebbe essere il tornante decisivo della guerra.
Questo per non parlare dei punti numero:
6 – “Ritiro delle truppe russe e ripristino dei confini dell’Ucraina”: con o senza la Crimea? Con quanta parte del Donbass?
7 – “Istituzione di un tribunale speciale per perseguire i crimini di guerra commessi dai russi”, riguardo al quale va detto che ancora non è chiaro chi debba occuparsene visto che la giurisdizione dell’organismo proposto, la Corte Penale Internazionale dell’Aja, non è riconosciuta non solo dalla Russia, ma nemmeno dagli Stati Uniti e dalla stessa Ucraina: un inghippo di non poco conto cui, alla fine dello scorso novembre, la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, ha cercato di porre rimedio suggerendo di formare un non meglio definito tribunale speciale sostenuto dall’Onu;
9 – “Equilibri mondiali”, nel cui ambito l’Ucraina chiede la costituzione di un meccanismo di prevenzione dei conflitti, costruendo “un’architettura di sicurezza in Europa che includa garanzie per l’Ucraina”: un punto giudicato, giustamente, palesemente prematuro dai diplomatici dei Paesi alleati in quanto solleva, alquanto infantilmente, ora la questione di assetti futuri al momento in fase neppure avanzata di definizione.
In definitiva un “Piano di Pace” emotivamente comprensibile, ma strutturalmente a dir poco ridicolo se lo si pensa steso da chi dipende ed è sin qui dipeso totalmente –economicamente e militarmente– da un Occidente di fatto diviso su tutto e che, giocando al suo interno al gioco delle parti di pirandelliana memoria per quanto concerne l’impegno fattivo disposto ad assumersi militarmente parlando, auspica in primo luogo di poter principiare al più presto ad occuparsi della crisi economica che lo affligge non avendo, per somma, la benché minima intenzione (Stati Uniti in primis) di inviare un solo uomo a combattere a fianco dei soldati Ucraini: vera e propria carne da macello in una Proxy War più grande di loro.
E la conclusione del piano presentato dal Presidente Zelensky a suo tempo è ancora più surreale, prevedendo la richiesta della stesura di una “Dichiarazione di Pace” concepita come “un documento firmato da tutte le parti in causa che certifichi la fine della guerra”: per rendere il tutto ancora più farsesco sarebbe bastato accludere goliardicamente il menù del pranzo ufficiale celebrativo della vittoriosa fine delle ostilità. Quale, quindi, partendo dal presupposto che alla luce dei fatti il Presidente ucraino sta via via mostrando una crescente consapevolezza circa tutto ciò che è sin qui accaduto e le dinamiche che lo hanno determinato, il senso della dichiarazione finale di Zelensky?
Ed ancora: quale il motivo della sua visita al Pontefice ed il deciso, plateale rifiuto della sua mediazione soprattutto alla luce del fatto che, come si è appreso dalla Agenzia Tass (che ha citato una non meglio specificata “fonte vaticana”), il colloquio è avvenuto su sua precisa richiesta fatta pervenire, in deroga ad ogni codice diplomatico, appena qualche giorno prima? Per poter rispondere a questi quesiti occorre innanzitutto prendere in considerazione la richiesta di mediazione rivolta da Zelensky a Xi Jinping, il confermato reciproco interesse di Kiev e Pechino alla intensificazione dei rapporti economicamente strategici, il ribadito supporto di Kiev al progetto “Una sola Cina” in barba agli interessi ed agli impegni statunitensi rispettivamente nell’area dell’Indo-Pacifico e nei confronti (pretestuosi o meno che siano) di Taiwan, nonché la presa d’atto del significativo “NO” di Washington alla “road map” relativa all’ingresso dell’Ucraina nella NATO.
Come noto, il 6 aprile 2023 dall’autorevole Financial Times, con un articolo titolato: “US opposes offering Ukraine a road map to Nato membership” (Gli Stati Uniti si oppongono ai tentativi di alcuni alleati europei di offrire all’Ucraina una “road map” verso l’adesione alla NATO), è stata infatti diffusa, sulla base delle dichiarazioni rese allo stesso FT da quattro funzionari coinvolti nei colloqui, la notizia relativa alla presa di posizione degli Stati Uniti che, unitamente alla Germania ed all’Ungheria, in quella sede si sono opposti agli sforzi di Paesi come la Polonia e gli Stati baltici volti ad offrire a Kiev, nel minore tempo possibile, legami più stretti con la Nato e chiare dichiarazioni di sostegno per la sua futura adesione all’Alleanza Atlantica.
Un’opposizione che non solo ha messo inequivocabilmente in luce le sopra citate divisioni in Occidente sullo status postbellico di Kiev (in barba al piano di pace, testé richiamato, di Kiev), ma ha pure gettato un’ombra di sospetto sul reale valore e sull’affidabilità attribuibili tanto alle sbandierate promesse ufficiali di senso decisamente contrario formulate a più riprese sia dalla Casa Bianca che dalla Commissione Europea (per bocca della sua presidente, Ursula von del Leyen), quanto alle rassicurazioni date a Kiev per ciò che concerne il supporto a tempo indeterminato dagli stessi promesso a più riprese. Nello specifico, per quanto concerne la risposta di Zelensky a Papa Francesco, che reiteratamente in precedenza si era offerto per una mediazione con la Russia per avviare la quale a più riprese aveva già mosso diversi passi, si ha che le stessa è stata ribadita poche ore dopo il colloquio, nel corso di una intervista, con parole dal significato inequivocabile: “Con tutto il rispetto per Sua Santità, noi non abbiamo bisogno di mediatori, noi abbiamo bisogno di una pace giusta” e aggiungendo: “Noi invitiamo il Papa, come altri leader, per lavorare a una pace giusta, ma prima dobbiamo fare tutto il resto”.
Un “tutto il resto” che, come vedremo, può avere molti significati, ma che al momento Zelensky, sottolineando come nell’immediato non avesse alcun senso tentare di coinvolgere la Russia in un dialogo (“Non si può fare una mediazione con
Putin, nessun Paese al mondo lo può fare”), ha fatto sì che venisse letto in maniera
conforme alla narrativa corrente sottolineando come, quantunque per lui sia “stato
un onore incontrare Sua Santità”, il Papa fosse perfettamente a conoscenza della
sua posizione, ossia del fatto che “la guerra è in Ucraina e il piano deve essere
ucraino”, concludendo con un concessivo, ma deciso: “Siamo molto interessati a
coinvolgere il Vaticano nella nostra formula per la pace”.
Parole dure che, almeno per il momento, sembrerebbero aver vanificato l’offerta di
mediazione che il Papa gli avrebbe rinnovato anche nell’incontro del 13 maggio,
sempre che questo non fosse solo ciò che si voleva apparisse ufficialmente ai più ed
in particolare, prudentemente, agli Stati Uniti.
I quaranta minuti del colloquio, a quanto detto finalizzato a valutare se vi fossero i
margini per avviare una mediazione con la Russia che possa condurre in tempi brevi
a quel concreto cessate il fuoco che è stato fin da subito l’obiettivo che il Papa si è
dato, come confermato da quanto avvenuto il 25 febbraio 2024 (ossia il giorno
successivo a quel fatidico 24 febbraio 2022 in cui la Russia diede il via all’invasione)
allorché il Pontefice, con un gesto senza precedenti, si recò a sorpresa
all’Ambasciata russa presso la Santa Sede per chiedere un colloquio con il
Presidente russo Putin che, precedentemente, per ben tre volte (il 25 novembre
2013, il 10 giugno 2015 ed ancora il 4 luglio 2019) aveva ricevuto in udienza privata
nei sacri palazzi, alla luce delle dichiarazioni finali mi paiono effettivamente
eccessivi viste le pregiudiziali dichiarate a più riprese da Zelensky e la apparente
‘casualità’ dell’incontro che la Santa Sede si è affrettata a ribadire, pur mantenendo
il massimo riserbo sul colloquio, sottolineando che si era trattato di un incontro non
adeguatamente preparato e programmato.
E a questo punto la situazione, da un punto di vista interpretativo, si complica
ulteriormente in quanto, stando ad una nota dell’Agenzia Tass del 17 maggio 2023,
Zelensky avrebbe sollecitato l’incontro con il pontefice per ottenere l’approvazione
del proprio piano di pace: una approvazione che gli sarebbe stata negata.
La notizia appare alquanto strana e a mio avviso non veritiera per una semplice
ragione: vista la posizione di equidistanza assunta dalla Santa Sede è impensabile
che Zelensky abbia chiesto in modo così estemporaneo di incontrare Bergoglio e,
soprattutto, di averlo fatto senza una adeguata preparazione: una considerazione
che legittima a ritenere la sedicente fonte vaticana, da cui l’agenzia russa ha
dichiarato di aver ottenuto l’informazione, o male informata o addirittura
inesistente, il che ci porta a domandarci il motivo del rilascio di tale ‘informazione’ il
cui valore potrebbe giustamente essere equiparato a quello di una ulteriore
smentita dell’esistenza –se non proprio di una trattativa– di un qualche ‘approccio’
in essere che si vuole mantenere segreto e che possiamo ritenere essere in corso
non fosse altro altro che per l’entrata in campo del Presidente cinese Xi Jinping che,
come è facile intuire, mai e poi mai si sarebbe scomodato se solo avesse sentore
della mancanza totale di un consistente e concreto margine di trattativa.
La stessa Tass ha poi riportato la dichiarazione, resa in questa ottica con
comprensibile tempestività, del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha
sottolineato come le dichiarazioni di Zelensky ignorassero la realtà odierna. Così
pure si sarebbe espressa la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria
Zakharova, che avrebbe affermato che “la proposta del regime di Kiev di tenere un
vertice di pace alle Nazioni Unite è un’idea senza senso e una trovata pubblicitaria di
Washington”, riproponendo un concetto ribadito dal rappresentante permanente
della Russia presso le Nazioni Unite, Vasily Nebenzya, che avrebbe affermato che le
iniziative di pace di Zelensky sono una presa in giro dell’idea di un piano di pace.
Peccato che tali affermazioni smentiscano ampiamente quanto, sempre il 17
maggio, la Tass ha diramato (appena tre ore prima del comunicato testé citato) una
dichiarazione del Presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, che il 16 maggio,
parlando a nome di ben sei nazioni africane (Egitto, Zambia, Repubblica del Congo,
Senegal, Uganda e Sudafrica) si era espresso in merito alla disponibilità manifestata
dalle autorità russe e ucraine a ricevere una delegazione africana per cercare una
soluzione pacifica al conflitto, rendendo così di pubblico dominio un qualcosa che il
coordinatore per le comunicazioni strategiche del Consiglio di sicurezza nazionale
della Casa Bianca, John Kirby, aveva dichiarato sostenibile da parte degli Stati Uniti
qualora fosse stata accolta dal Presidente Zelensky: una disponibilità ed una
trattativa che il 18 maggio l’amministrazione presidenziale sudafricana non ha
ritenuto né di confermare né di smentire affidando al portavoce del presidente
sudafricano, Vincent Magwenya, il compito di dichiarare il solo essere in corso di
“intense consultazioni con le parti interessate su vari aspetti del programmato
viaggio in missione di pace delle nazioni africane a Mosca e a Kiev”.
Un bel rompicapo, non c’è che dire, che a breve potrebbe riservarci delle
interessanti sorprese: una sorta di nonsense pieno di colpi di scena se solo
confrontiamo l’incompatibilità delle affermazioni di Dmitry Peskov, Maria Zakharova e Vasily Nebenzya con quelle di Cyril Ramaphosa e Vincent Magwenya, soprattutto se consideriamo l’asserita e poi negata impossibilità a trattare con Kiev.
Non credo che, giunti a questo punto, si possano bollare queste considerazioni
come frutto di una dietrologia degna di miglior causa in quanto, non solo ritengo
venga spontaneo domandarsi, viste le dichiarazioni finali rese e/o omesse da
Zelensky e Bergoglio, a quale scopo gli stessi si siano più che dovuti, voluti
incontrare, ma anche per il corollario che ha fatto da contorno, per così dire, a
questa visita: intendo riferirmi all’incontro del Papa con il Premier ungherese Orban.
Il problema che si vuole affrontare –ed in qualche modo contribuire a risolvere– con
questa lettura/analisi pressoché in tempo reale dei fatti, risiede nella
carenza non banale delle informazioni e delle ipotesi più accreditate possibili utili
tanto al privato cittadino per comprendere il mondo in cui vive, quanto –e
soprattutto– ai responsabili politici dei Paesi alleati per decidere tempestivamente
quali scelte operare e quali prontamente rigettare nell’interesse dei propri Paesi.
Con tale spirito va doverosamente notato che molto probabilmente non è stato
casuale che Volodymyr Zelensky sia ritornato in Vaticano (l’ultima volta che il
Presidente ucraino e Bergoglio si erano guardati negli occhi era stato l’8 febbraio
2020) per una visita che la Santa Sede, come già detto, ha definito “non
pianificata”, ma stranamente collocata ad esattamente 48 ore di distanza
dall’udienza papale di congedo dell’ambasciatore russo presso la Santa
Sede, Alexander Avdeev, diplomatico di alto rango stimato dal Pontefice. Una
udienza tradottasi in un faccia a faccia di circa mezz’ora alquanto singolare se
consideriamo quanto recentemente avvenuto allorché, a fine aprile 2023, il
Pontefice ha dichiarato (con forse un po’ troppo ingenuo orgoglio) che era in corso
una missione di pace del Vaticano non ancora resa pubblica, missione che
prontamente il 2 maggio sia Kiev che il Cremlino hanno dichiarato essere un
qualcosa di cui non erano a conoscenza: una espressione che, alla luce di quanto
sin qui visto, non va inteso come un diniego deciso, ma piuttosto come un qualcosa
della cui esistenza l’Ente e/o l’Istituzione interpellata non è a conoscenza.
Il che mi riporta alla mente un paio di episodi a mio avviso alquanto significativi che
possono farci capire come mai le negate trattative in corso di fatto è più che
verosimile siano in qualche modo in corso ovvero perlomeno in fieri, seppure con
tutti i distinguo del caso, alla luce del mutato grado di indipendenza ed autonomia di
un Putin che può, al momento, dire “No!” a tutti tranne che a Pechino:
1) a sole due settimane dall’inizio dell’invasione di Mosca, il presidente ucraino
Volodymyr Zelensky era pronto a trattare con Vladimir Putin. All’epoca sul
tavolo c’erano Crimea e Donbass e con riferimento ad essi il Presidente ucraino
aveva dichiarato in un’intervista esclusiva dell’8 marzo 2022 resa a David
Muir della ABC News: “Penso che per quanto riguarda i territori
temporaneamente occupati e le pseudo-repubbliche non riconosciute da
nessuno tranne che dalla Russia, possiamo discutere e trovare un
compromesso su come questi territori vivranno”. Aggiungendo, giustamente: “La cosa importante per me è come vivranno le persone in quei territori che
vogliono far parte dell’Ucraina”, senza mancare di sottolineare che su queste
basi si sarebbe potuto trattare fermo restando un doveroso “non accetteremo
ultimatum dal Cremlino”.
A ben guardare un insieme di affermazioni che evidenziavano come in ballo vi
fosse un’altra opzione consistente dell’applicazione estensiva del cosiddetto
“modello Austria”. A tale proposito si può ricordare che Vienna, dopo la fine
della Seconda Guerra Mondiale, aveva inserito nella sua Costituzione il
principio di “neutralità perpetua” del Paese pur facendo comunque parte
degli Stati associati alla Nato, cioè invitati ai vertici come osservatori.
Se a Kiev fosse stato permesso di seguire questa strada, molto probabilmente
oggi non ci troveremmo in questa situazione e Putin si sarebbe fermato
consentendo così al governo ucraino di sopravvivere modificando la
Costituzione che dal 2019 prevede un percorso di avvicinamento alla Nato
voluto fortemente da Washington, che ha sin qui operato al solo
scopo di tutelare i propri interessi e non certamente quelli dell’Ucraina e men
che mai dell’Europa: questo, ovviamente, nell’ipotesi che quelli dichiarati
all’inizio da Putin fossero i reali obiettivi della sua azione militare e non, come
ho sottolineato in precedenza e sembrerebbe essere confermato sempre più
dai fatti, un attacco contro la NATO come Istituzione a leadership
statunitense. Una lettura, questa ultima, che riceverebbe una ulteriore
conferma dalla risposta del Cremlino che il 7 marzo 2022 aveva dichiarato di
essere pronto a fermare la sua campagna militare mortale in un momento se l’Ucraina avesse soddisfatto le sue richieste di riconoscere la Crimea come
regione russa e le regioni separatiste di Donetsk e Luhansk come repubbliche
indipendenti: una opzione ‘non opzione’ resa inaccettabile di proposito
per Kiev in quanto si sarebbe trattato di un passo indietro dal punto di vista
politico e psicologico in quanto vanificante la rivolta di Maidan e la cacciata
del presidente filorusso Viktor Yanukovic nel 2014.
Un ulteriore aspetto degno di nota emerso nel corso dell’intervista citata
rilasciata alla ABC, riguarda la presa di coscienza di Zelensky del fatto che la
porta d’ingresso della NATO fosse di fatto chiusa per l’Ucraina: “Ho
raffreddato la questione molto tempo fa, dopo che abbiamo capito che la
NATO non è disposta ad accettare l’Ucraina”. Sicché resta un mistero
cosa lo abbia spinto a fidarsi degli Stati Uniti e della Unione Europea e,
di fatto, a continuare scientemente ad ingannare i suoi compatrioti (e a farsi
lui stesso ingannare dando credito a ulteriori promesse fattegli e
successivamente palesemente disattese di cui non abbiamo notizia), quanto a
rilanciare, ancora alla fine del 2022, con il suo piano in 10 punti che
concretamente non ha e non avrà mai possibilità alcuna di attuazione dando
ulteriore agio a Putin di portare avanti la sua narrativa relativa al proprio
eroico intento di contrastare il ‘nazismo’ serpeggiante nella vicina Ucraina.
2) L’intervista, guarda caso rilasciata il 6 aprile 2023, da Andriy Sybiha,
vicecapo dell’ufficio di Volodymyr Zelensky al Financial Times, cui ha parlato
dell’apertura (condizionata) del Governo ucraino ad una discussione sulla
cessione della Crimea nonché di negoziati in corso in Svizzera: notizia
prontamente smentita, verosimilmente per le pressioni statunitensi, dallo
stesso Zelensky.
È a questo punto che, tornando al recente colloquio dell’ex Ambasciatore russo con
il Santo Padre, risulta quanto mai degna di credito la voce secondo la quale al
diplomatico sarebbe stata consegnata una lettera per Putin dal contenuto non reso
noto, ma legittimamente ipotizzabile in linea con tutto quanto sin qui narrato
seppure ufficialmente dichiarato inerente a non meglio definite ‘questioni
umanitarie’: una notizia che farebbe da corollario ad una dichiarazione, diffusa dalla
Tass esattamente il 13 maggio, dalla quale si è evinto che Mosca avrebbe in qualche
modo ritenuto comunque (a scanso di equivoci?) di minimizzare il più possibile
l’importanza dell’incontro tra il Papa e Zelensky (la Tass ha infatti ha asserito che lo
stesso non era legato alla missione di pace, citando una non meglio identificata “fonte vaticana”).
Interessante a questo punto notare che Zelensky, stando a quanto a vario titolo
sottolineato, avrebbe richiesto il colloquio in questione solo alcuni giorni prima di
essere ricevuto dal Papa nell’ambito della sua visita a Roma: se è comprensibile che
in guerra i codici diplomatici saltino, lo è un po’ meno che, in un tale frangente, un
incontro con il Papa possa essere considerato un evento incidentale nel quadro della
missione romana, soprattutto per i motivi ufficialmente ipotizzati e/o dichiarati
stanti alla base della intempestiva e alquanto estemporanea modalità di richiesta.
Vi è poi un paio di ulteriori aspetti da prendere in considerazione per meglio
inquadrare il contesto in cui ci stiamo tutti muovendo il primo dei quali consiste
della recente dichiarazione del Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg.
che lunedì 15 maggio in occasione del Copenhagen Democracy Summit 2023, preso
atto del diniego statunitense del 6 aprile, ha dichiarato (ovviamente palesemente
opportunamente e opportunisticamente imbeccato da Washington) di attendersi
che i membri della NATO sostengano l’ascesa dell’Ucraina all’organizzazione,
aggiungendo che la formazione di ulteriori legami potrebbe portare l’Alleanza vicino
al principio di difesa collettiva del Trattato Nord Atlantico: “Se gli alleati della NATO
iniziano a rilasciare garanzie di sicurezza bilaterali all’Ucraina, siamo molto vicini
all’articolo 5”.
A questa dichiarazione, che di fatto conferma –a scanso di equivoci– quanto avverrà
in luglio al Vertice NATO per ciò che concerne la questione dell’ammissione della
Ucraina nell’Alleanza Atlantica (un’ammissione che possiamo escludere anche per gli anni a venire per l’ovvia indisponibilità dell’America ad un coinvolgimento diretto nel conflitto ai sensi dell’Art. 5), si vuole in qualche modo far assumere un ruolo primario ai Paesi UE per ciò che riguarda sia le garanzie richieste da Kiev in tema di sicurezza, che per quello che riguarda la partecipazione della NATO al conflitto affidandosi ad un trucco che di fatto millanta, per bocca di Stoltenberg, la possibile invocazione dell’Art. 5.
Dico ‘millanta’ in quanto il Patto Atlantico, istitutivo della NATO, all’Art. 5
testualmente recita, trattandosi di una struttura difensiva: “Le parti convengono che
un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale
sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza
convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del
diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni
attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso
saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste
misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure
necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali” e
come tale non prevede intervento militare congiunto nel caso in cui uno dei Paesi
NATO attacchi un Paese terzo.
Ora, nel caso di un accordo bilaterale tra un Paese NATO e l’Ucraina che contempli
un intervento militare in appoggio a Kiev, sarebbe il Paese in questione ad attaccare
la Russia, nella fattispecie, qualora inviasse proprie truppe sul suolo ucraino ovvero
consentisse l’uso delle proprie strutture militari (quali, ad esempio, basi aeree o
missilistiche) alle FFAA ucraine, come pure se le usasse in prima persona, per colpire
l’esercito di Mosca in Ucraina, ovvero obiettivi militari in territorio russo: nessun
automatismo sarebbe quindi invocabile in caso di risposta dei Russi che, piaccia o
non piaccia, sarebbero gli aggrediti e non gli aggressori. In questo caso, pertanto,
nessun altro Paese NATO sarebbe costretto ad intervenire e certamente non gli Stati
Uniti.
In questo senso la ‘spiritosa invenzione’ di Stoltenberg si configura al più come una
presa in giro per Kiev –che dubito Zelensky non abbia colto– ed un tentativo Made in
USA di scaricare sugli Europei la pessima gestione dell’intera faccenda: se l’Europa
ha nella Russia una minaccia ed un pericolo, non minore minaccia per i nostri
interessi strategici rappresenta il nostro ‘alleato’ principale: gli Stati Uniti d’America.
Non è questione di antiamericanismo, ma di semplice oggettiva obiettività.
Il secondo aspetto da prendere in esame è contenuto in una dichiarazione dello
stesso Volodymyr Zelensky rilasciata rispondendo alla domanda postagli il 13
maggio scorso nel corso della sua partecipazione al programma di approfondimento
Porta a Porta (Rai 1 – Italia) su come cambierebbe l’appoggio di Washington a Kiev
nel caso in cui Trump tornasse ad essere presidente: “Chi sarà il prossimo presidente
degli Stati Uniti lo deciderà il popolo americano, non so se Donald Trump potrà
aiutarci in questa situazione”.
Tirando le somme credo sia legittimo supporre, a questo punto, che in realtà il
Presidente Zelensky stia pensando seriamente a porre termine alla guerra
approfittando della mediazione ad hoc cinese con il supporto del Vaticano che
potrebbe fungere, e ritengo stia fungendo, da tramite tra Mosca e Kiev (da qui il
faccia a faccia del Santo Padre con l’ex Ambasciatore russo e la non prevista udienza
papale con il Presidente ucraino) cosa che ritengo sia avvenuto il 13 maggio con
l’ausilio di Papa Bergoglio: ipotesi da verificare, ma che ritengo plausibile visto il
quadro generale e le ben scarse prospettive di vittoria tanto di Kiev, quanto di
Mosca soprattutto alla luce di un quadro economico internazionale alquanto
preoccupante e, per ciò che concerne l’Occidente, la ormai evidente inaffidabilità ed
inconcludenza delle obsolete strategie e scelte politiche statunitensi.
A corollario di quanto sin qui riferito giungono emblematiche le parole con cui, in
qualche modo, Zelensky ha riassunto, sempre nel corso del suo intervento al
programma Porta a Porta, il clima ed il tenore dei suoi rapporti con la Casa Bianca:
“Innanzitutto ringrazio il Congresso e il presidente Joe Biden che ci danno un
sostegno molto grande e di cui siamo molto grati. Voglio ricordare che ho incontrato
Trump quando eravamo entrambi presidenti e non c’era un’invasione su larga scala,
ma un’aggressione visto che Donbass e Crimea erano state occupate (…) non sono
sicuro che all’epoca si rendesse conto, non sono sicuro fosse una sua priorità.
Nessuno ha risolto la questione e Putin ha ricevuto questo segnale, ecco perché è
andato avanti”. Una dichiarazione consuntiva dal vago sapore di un grato
commiato.
Non resta che attendere gli eventi supportati da una interessante sottolineatura di
Zelensky che, con riferimento alla telefonata con Xi Jinping, ha detto: “Ho parlato con il leader cinese, abbiamo discusso questioni importanti, ho detto che contiamo
che Pechino non fornisca armi a Mosca. Xi ha risposto che non daranno le armi e
non sosterranno la Russia”. Un impegno, quello cinese, credibilissimo visto che la
Russia è al più un alleato a tempo determinato di Pechino che giustamente vede la
cura dei propri interessi conciliabilissima con quella degli attuali pressanti interessi
dell’Ucraina.