Il Sudan tra guerra civile, crisi umanitaria e gruppi islamisti. Dopo l’involuzione provocata dall’avvento di al Qaeda e dal suo acquartieramento nel paese all’inizio degli anni ’90, il Sudan ha patito un notevole ascesa dei gruppi islamisti. Questo dato è stato avvertito anche all’interno della Lega araba di cui fanno parte Paesi islamici coinvolti nel fenomeno ma anche realtà assai distanti dal pensiero dell’Islam ortodosso per lo più sponsorizzato dalla Fratellanza musulmana. Si è così assistito all’utilizzo del Sudan e dai suoi governi succedutisi nel tempo a un favoreggiamento o al contrasto del fenomeno del terrorismo a seconda di meri calcoli di convenienza. Ne abbiamo parlato con Roberta La Fortezza, analista di intelligence esperta del Sahel.
Alla luce degli avvenimenti di questi giorni, qual è il suo pensiero circa il futuro del regime di Khartoum?
“Attualmente è difficile prevedere quali saranno le sorti del Sudan. Certamente il governo di transizione creato dopo il golpe del 2021 e che ha visto collaborare proprio le leadership delle Sudanese Armed Forces (SAF) e delle Rapid Support Forces (RSF), i due attori che oggi si combattono sul terreno, non potrà più esistere. Lo scontro armato in atto tra le due fazioni segna, senza dubbio, la definitiva chiusura del processo di transizione così come avviato dopo la caduta di Bashir e ridisegnato dopo il golpe del 2021. Il futuro del Sudan dipenderà, ovviamente, da quale fazione riuscirà alla fine a prevalere, fermo restando che potrebbe assistersi anche a uno scenario in cui nessuna delle due parti riuscirà a ottenere quella superiorità richiesta per poter prevalere sull’altro, potendosi anche determinare in questo caso uno scenario di guerra di logoramento a oltranza. Dagli ultimi dati relativi ai combattimenti, le SAF potrebbero ragionevolmente riuscire a prevalere a Khartoum e Omdurman, ma questo non è comunque a oggi un esito del tutto scontato. D’altro canto, anche qualora le forze dell’esercito regolare sotto il comando di al-Burhan dovessero riuscire a prevalere nella capitale, il conflitto potrebbe proseguire in altre aree del Paese e in particolare in quelle zone del sud-ovest già estremamente precarie. Qualora respinte nella capitale, infatti, le forze di Hemetti potrebbero ritirarsi nel sud-ovest e in particolare nel Darfur, area nella quale l’RSF gode ancora di numerosi sostegni e dalle quali potrebbe anche più agevolmente reclutare combattenti ciadiani. Proprio da questa eventuale roccaforte, Hemetti potrebbe proseguire la guerra contro quello che finirebbe per essere un nuovo governo “monocolore”, a guida delle SAF cioè; tra le altre cose, questo scenario comporterebbe anche una modifica nella tipologia del conflitto, poiché verosimilmente si assisterebbe a un maggiore impiego di tattiche asimmetriche e di guerriglia. Già in queste settimane di combattimenti si sono registrati scontri in numerosi altri stati del Sudan, oltre a quello della capitale, restando tuttavia teatri marginali rispetto a quello della capitale e soprattutto, fino a questo momento, non si è assistito alla partecipazione di altri gruppi agli scontri; un eventuale ripiegamento delle RSF nell’area del Darfur e la ripresa da lì dell’offensiva contro il governo potrebbe provocare il riacutizzarsi delle attività della pletora di gruppi armati e milizie che operano in particolare nel Darfur ma anche nel Kordofan e nel Blue Nile. Questi gruppi potrebbero, infatti, allinearsi con uno dei due fronti, contribuendo a provocare un’estensione della guerra, sia geograficamente sia temporalmente; ma potrebbero anche opporsi a entrambi i fronti, riprendendo la tradizionale lotta a sfondo etnico che in passato hanno già portato avanti per anni e rientrata, parzialmente, con gli accordi di Juba del 2020. In questo panorama, dunque, si assisterebbe alla trasformazione dell’attuale guerra combattuta tra due gruppi ben identificabili, a una guerra con molti più attori, molti più interessi e dunque anche molto più complessa”.
Le Forze di sostegno rapido del generale Mohamed Hamdane Dagalo, sostenute dalle truppe del Gruppo Wagner e quelle sotto il controllo del capo del governo di transizione Abdel Fattah al Burhan, si combattono senza tregue, se non apparenti, da una settimana, senza denotare una preminenza di alcuna delle due forze in campo. Il sospetto è che in corso vi sia un vero e proprio tentativo di golpe da parte delle forze di Dagalo, considerato uomo molto vicino alla Russia. Quanto ci può essere di concreto in questa ipotesi?
“È abbastanza condivisa la visione che i riposizionamenti militari iniziati il 13 aprile e sfociati in un vero e proprio confronto armato dal 15 aprile, siano riconducibili a un tentativo di golpe da parte delle RSF ai danni di quel regime di transizione in cui il potere risultava condiviso con le SAF. Quello che appunto nei progetti iniziali sarebbe dovuto essere con ogni probabilità un golpe, effettuato per consentire a Hemetti la leadership delle autorità di transizione, si è poi trasformato in un conflitto aperto avendo trovato la resistenza delle SAF. Se è abbastanza pacifica questa lettura dei fatti, risulta meno pacifica la possibilità che questo golpe tentato da Hemetti veda alle sue spalle la longa manus del Cremlino. Sebbene il governo di Khartoum abbia a più riprese smentito, vi sono evidenze che almeno dal 2017-2018, cioè dai tempi di Bashir, siano presenti in Sudan elementi russi, perlopiù della Wagner, e che questi elementi abbiano mantenuto rapporti particolarmente stretti con le autorità di Khartoum anche dopo la caduta di Bashir. Sulla base di un’analisi dei fatti degli ultimi anni, è lecito supporre che gli uomini della Wagner, e Mosca stessa, abbiano un rapporto più stretto con le RSF e soprattutto con il suo leader, Hemetti. Secondo una recente inchiesta condotta da una testata internazionale, le RSF avrebbero ricevuto dal gruppo Wagner materiale bellico (in particolare missili), necessario proprio per sostenere l’attuale sforzo bellico contro le SAF. Nonostante ciò, a oggi non vi sono evidenze del fatto che la Wagner, o Mosca, possa aver svolto un ruolo di regia nel tentativo di colpo di Stato che ha poi portato agli attuali combattimenti. Questa ipotesi trova anche una parziale e indiretta conferma nel fatto che finora il Cremlino non abbia appoggiato nessuna delle due parti in causa e al contrario si sia proposto come mediatore. Una simile lettura può essere ampiamente sostenuta dal fatto che, nonostante un probabile più stretto rapporto con Hemetti, i russi abbiano importanti legami e interessi anche con le SAF, le quali del resto rimangono in ogni caso le forze regolari dell’esercito sudanese. Del resto, proprio la recente ripresa degli accordi per una base russa a Port Sudan aveva dato un segnale abbastanza evidente di quanto anche gli interessi tra Mosca e SAF potessero convergere. A oggi, nonostante la possibilità che vi siano rifornimenti di armi a favore degli attori sudanesi, il conflitto in corso può inquadrarsi in dinamiche perlopiù interne al Sudan, dinamiche che hanno a che fare soprattutto con gli equilibri di potere tra le forze regolari e quelle forze, le RSF, che hanno assunto sotto il regime di Bashir il ruolo di vera e propria guardia pretoriana e che negli anni successivi hanno accresciuto sempre più il proprio ruolo all’interno anche della vita economica del Paese”.
Dopo quattro anni dalla deposizione del presidente Omar al Bashir, avvenuta nell’aprile del 2019, in Sudan il processo politico concordato dalla maggior parte delle forze in campo per istituire un governo a guida civile appare ancora faticoso. I colloqui si sono arenati su alcuni elementi relativi alla gestione della sicurezza nel Paese, ad oggi in mano all’esercito ma nel quale dovrebbero essere integrate anche le Forze di supporto rapido del comandante Dagalo, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese e numero due nel governo del generale Abdel Fattah al Burhan. Formate anche da ex membri delle famigerate milizie “janjaweed”, i “demoni a cavallo” accusati di efferati crimini nel Darfur e della cruenta repressione dei manifestanti sudanesi, le Rsf sono in contrasto con al Burhan su chi debba dirigere la futura architettura dell’esercito. Lei ritiene, alla luce degli attuali eventi, che vi siano spazi per una ripresa dei colloqui?
“È notizia di queste ore il raggiungimento di un cessate-il-fuoco di 7 giorni. Non è la prima tregua dichiarata e finora le precedenti sono state tutte ampiamente violate. Ovviamente un cessate-il-fuoco è la base per poter avviare colloqui seri. Fermo restando il fatto che la disponibilità a intraprendere un reale processo negoziale sia indissolubilmente legata alla disponibilità di armi, è pur vero che né al-Burhan né Hemetti hanno fino a questo momento dato segnali di apertura. Al contrario i toni utilizzati nei confronti della controparte sono stati estremamente rigidi: la stessa decisione di al-Burhan di considerare le RSF come un gruppo ribelle rappresenta un vulnus alla possibilità di negoziare poiché priva simbolicamente Hemetti proprio di quel ruolo e di quel potere che invece ha nei fatti largamente rivestito nel più recente passato. Un potere che Hemetti sente ormai di dover integralmente detenere per poter assicurare al suo gruppo para-militare l’atteso riconoscimento in termini di centralità negli apparati militari (e politici) del Sudan. Dal canto suo, Hemetti si è detto totalmente indisponibile a negoziare prima della fine dei combattimenti e soprattutto ha dichiarato, con parole molto forti, che il suo obiettivo è catturare al-Burhan. Fatta eccezione per le notizie relative a una presunta decisione di Hemetti e di al-Burhan di inviare rappresentanti in Arabia Saudita per possibili negoziati, nessuno dei due leader, si è mostrato, almeno fino a questo momento, disponibile a discutere la fine dei combattimenti e a parlare di pace. Attualmente la prospettiva di un accordo di pace appare remota, minata proprio dall’indisponibilità delle parti. È dunque probabile che i combattimenti in corso persistano anche nelle prossime settimane. È improbabile che gli sforzi di mediazione, anche condotti dagli Stati confinanti e da altri attori regionali, portino in breve tempo a un cessate il fuoco duraturo. Conseguentemente, lo scenario più plausibile è che i combattimenti continuino fino a quando una delle due parti non riuscirà a ottenere il controllo definitivo dell’area di Khartoum così da poter solo in un secondo momento negoziare ma a questo punto da una posizione di forza. Il raggiungimento di un cessate-il-fuoco e l’apertura di un negoziato dipenderà, logicamente, anche dal posizionamento degli attori stranieri che finora, pur essendo presenti con i loro interessi nel contesto sudanese, sono rimasti in disparte evitando prese di posizioni dirette a favore di una delle due parti, e invitandole al contrario a cessare i combattimenti. L’inserimento nel conflitto, in maniera sempre più pronunciata e diretta e sulla base di propri specifici interessi, di attori stranieri inserirebbe nell’attuale conflitto ulteriori variabili di cui sarà possibile determinare la portata soltanto in fieri”.
Al di là di una mera cooperazione a livello di invio di aiuti umanitari e tentativi di conciliazione tra le parti in conflitto, quali sono i punti cardine per una reale stabilizzazione del Sudan e come potrebbe inserirsi il nostro Paese in tale frangente?
“Al momento il punto fondamentale è la fine degli scontri armati e conseguentemente l’avvio di un processo di pace tra le due parti interessate. Questo soprattutto per evitare ulteriori intensificazioni dei combattimenti, e come detto, il coinvolgimento di altri gruppi armati nel conflitto. Soltanto dopo la fine delle ostilità sarà possibile, eventualmente, pensare a una stabilizzazione del Sudan. Una reale stabilizzazione del paese ha a che fare prima di tutto con la gestione delle dinamiche interne al Sudan: mi riferisco alle tradizionali tensioni sia a livello centrale tra i diversi nuclei di potere (caratterizzati spesso da interessi e obiettivi contrastanti), sia in termini di dialettica centro-periferia, cioè il rapporto tra l’élite “del Nilo” al potere (tradizionalmente riferita al cosiddetto “Triangolo di Hamdi”) e le periferie sudanesi. Anche qualora dovesse rientrare l’attuale situazione conflittuale, le criticità per stabilizzare il Paese sono dunque numerose e di difficile ricomposizione; del resto, proprio quanto accaduto dopo la caduta di Bashir ha irrimediabilmente dimostrato le difficoltà di avviare un processo di reale stabilizzazione e democratizzazione. In questo momento, i Paesi europei dovrebbero in primo luogo cercare di sostenere tutti gli sforzi per l’avvio di negoziati tra le parti per un cessate-il-fuoco e per una pace duratura. Quando questa escalation armata, poi, l’attenzione dovrà essere spostata su quello che è un punto centrale: la necessità di sostenere l’economia sudanese e soprattutto di gestire la crisi umanitaria. Soltanto il miglioramento della situazione economica e umanitaria del Paese potrà costituire la più solida base sulla quale provare a ricostruire il Paese”.