Il 17 dicembre 2022 si sono tenute in Tunisia le elezioni legislative anticipate, volute dal Presidente Kaïs Saïed. Dopo il referendum costituzionale del 25 luglio 2022, con il quale si è adottata una nuova Costituzione che è andata a sostituire quella del 2014, le elezioni del 17 dicembre costituiscono, nella strategia del Presidente, la seconda e ultima tappa nel ripristino della normale operatività delle istituzioni nazionali dopo l’attivazione, nel luglio del 2021, dello stato di eccezionalità giuridica.
Secondo i primi dati provvisori forniti dall’Instance Supérieure Indépendante pour les Élections (ISIE) l’affluenza alle elezioni del 17 dicembre è stata pari a circa l’11%. I dati ufficiali saranno forniti soltanto il 19 gennaio 2023; nonostante ciò è improbabile che vi siano grandi variazioni rispetto a quanto già emerso: si è trattato, dunque, della partecipazione più bassa mai registrata alle elezioni in Tunisia dal 2011. Fino a questo momento il Presidente Saïed non ha commentato pubblicamente il risultato dell’appuntamento elettorale e soprattutto il dato relativo all’astensionismo, pari a circa il 90% degli aventi diritto al voto. Soltanto il Presidente dell’ISIE, Faouk Bousaker, commentando il risultato delle elezioni, che ha definito “modesto ma non vergognoso”, ha attribuito la percentuale di astensionismo alla circostanza, realizzatasi nel corso di queste elezioni a differenza delle precedenti, per cui si sono evitati meccanismi di compravendita dei voti.
Un tasso di astensionismo così elevato, evidentemente, non può essere spiegato soltanto con il riferimento a una maggiore legalità del processo elettorale. In primo luogo, tra i fattori da considerare vi è una, quantomeno parziale, disaffezione della popolazione tunisina all’esperienza di voto: tralasciando il referendum del 25 luglio che ha visto un tasso di partecipazione soltanto del 30% (caso non del tutto esplicativo della disaffezione politica poiché potenzialmente condizionato dalla campagna di boicottaggio dell’opposizione anti-Saïed), le precedenti elezioni legislative in Tunisia (ottobre 2019) hanno registrato un’affluenza alle urne del 41,70% (già di per sé in netto calo rispetto al 68,36% del 2014), mentre quelle presidenziali del settembre/ottobre 2019 hanno registrato un tasso di partecipazione del 45,02% (anche in questo caso in netto calo rispetto alle elezioni del 2014, che avevano visto recarsi alle urne quasi il 63% della popolazione). In secondo luogo, l’elettorato tunisino è al momento e in larga parte preoccupato per il quadro economico-finanziario e per l’aumento del costo della vita, così da mettere probabilmente in secondo piano le questioni relative alla lotta politica che si sta combattendo tra il fronte anti-Saïed, e in particolare tra i partiti islamisti, e il Presidente stesso e di cui queste elezioni erano sicuramente il principale campo di battaglia. Un altro fattore che può spiegare l’astensionismo attiene alle caratteristiche politiche dei singoli candidati alle elezioni. Con la promulgazione della nuova legge elettorale, approvata a settembre, si è favorita la scelta di singoli candidati, indipendenti e non affiliati, piuttosto che l’aggregazione intorno a formazioni tradizionali o a liste elettorali collegate a un determinato partito (ciò risponde soprattutto alla logica di indebolimento dei partiti che sembra sottostare alla strategia politico-istituzionale di Saïed). Questo ha favorito anche candidature di soggetti sconosciuti e incapaci di convogliare su di sé e sui propri programmi l’attenzione della popolazione. Indubbiamente, però, l’aspetto che potrebbe aver inciso maggiormente sulle percentuali di affluenza al voto è verosimilmente la campagna di boicottaggio lanciata dal fronte anti-Saïed. Se secondo il Presidente, infatti, il voto del 17 dicembre avrebbe dovuto legittimare le nuove istituzioni democratiche, per l’opposizione il voto rappresentava una mera formalità, un “non-evento” come è stato definito, voluta da Saïed per legittimare la svolta, giudicata autoritaria, impressa al Paese nel 2021. Già per il referendum del 25 luglio, l’opposizione aveva invitato tutta la popolazione a delegittimare la posizione del Presidente e la sua svolta autoritaria non presentandosi alle urne. Questa silenziosa opposizione, basata sulla delegittimazione politica delle scelte di Saïed più che su manifestazioni di massa, aveva portato soltanto parziali frutti a luglio, dato che, seppur fortemente contenuta, la partecipazione al voto referendario aveva comunque toccato il 30%. I sondaggi pre-elettorali per il 17 dicembre prevedevano un tasso di partecipazione in linea perlopiù con quello del 25 luglio 2022: probabilmente l’aggravamento della situazione economica e soprattutto una maggiore predisposizione di alcuni soggetti primari nella società tunisina (il riferimento è in particolare all’Union générale tunisienne du travail – UGTT, il principale sindacato nazionale) a criticare l’operato del Presidente Saïed e finanche a esprimersi pubblicamente nel senso di ritenere inutili le elezioni, potrebbe aver inciso in misura maggiore, rispetto a quanto accaduto per il referendum, sulla decisione degli elettori di rispondere positivamente all’invito a boicottare il voto.
Proprio in ragione della bassissima affluenza alle urne, l’opposizione politica a Saïed, riunita nel Front de salut national (una coalizione, formatasi a maggio del 2022, che riunisce 5 partiti, Ennahdha, al-Amal, Hizb el-Harak, al-Karama, e Qalb Tounes, oltre che diverse associazioni e movimenti della società civile) ha richiesto le immediate dimissioni del Capo dello Stato poiché l’astensionismo sarebbe testimonianza della sua scarsa legittimità. Ed infatti, al netto della disaffezione politica e della disattenzione dovuta ai problemi contingenti dettati dalla crisi economica, il bassissimo tasso di affluenza alle urne potrebbe essere realmente sintomatico di una progressiva erosione dei consensi e della fiducia a favore del Presidente Saïed, il quale fino a questo momento ha invece goduto di un generalizzato supporto popolare. Dal punto di vista della strategia interna, Saïed si trova ora di fronte a un quadro probabilmente diverso da quello atteso: il forte astensionismo potrebbe, infatti, essere indice di un rifiuto del progetto avviato nel 2021. Molto probabilmente, come già sembrerebbe evincersi dalla mancanza di commenti post-elettorali, l’attuale Presidenza continuerà lungo la precedente linea strategica, ignorando l’astensionismo e dunque la possibilità che la popolazione possa aver espresso un voto “contro” Saïed. D’altro canto, la presidenza, soprattutto se sottoposta a crescenti pressioni, potrebbe finire per utilizzare lo stesso risultato del 17 dicembre per rafforzare il proprio potere, adottando un approccio comunicativo incentrato sull’idea che la stessa popolazione tunisina abbia, tramite l’astensionismo, rifiutato il parlamentarismo.
Dal punto di vista istituzionale, il Parlamento, così come definito con la Costituzione del 2022 ed eletto con le modalità previste dalla legge elettorale di settembre, sarà un organo estremamente debole. L’organo parlamentare, che si insedierà soltanto dopo un eventuale secondo turno organizzato all’inizio di marzo 2023, sarà infatti dotato di poteri molto limitati: i futuri deputati non potranno controllare l’azione del Governo o censurarlo; ci vorranno dieci deputati per proporre una legge e il presidente avrà la priorità per approvare le leggi da lui stesso proposte; i parlamentari non beneficeranno di alcuna immunità e potranno essere rimossi dall’incarico, a determinate condizioni, dagli elettori; ma soprattutto non esiste alcun meccanismo legale tramite il quale il Parlamento possa mettere sotto accusa il Presidente. Conseguentemente, saranno improbabili nel breve periodo decisivi cambiamenti politico-istituzionali rispetto alla chiara volontà presidenzialista di Saïed. D’altro canto, occorre anche considerare che al momento non vi è una alternativa valida al Presidente: nonostante l’unione formale dettata dal comune nemico, l’opposizione è divisa e soprattutto non presenta personalità forti in grado di mettere in ombra Saïed. La maggior parte dei leader tra le fila dell’opposizione politica risultano fortemente impopolari in ragione del loro coinvolgimento in un sistema giudicato corrotto e viziato, così come la maggior parte dei partiti sono visti come inetti e irresponsabili in ragione del loro ruolo nei precedenti governi. Lo stesso partito Ennahdha, maggioritario nelle elezioni del 2019, ha assistito a un processo di progressiva erosione dei consensi soprattutto in ragione dell’incapacità di portare avanti le necessarie riforme del sistema e di guidare la Tunisia fuori dallo stallo politico. Secondo una larga fetta della popolazione Ennahdha si è lasciata trascinare, durante il suo governo, da una logica conservativa, rinunciando ad apportare quelle profonde riforme che erano state il leitmotiv della rivoluzione del 2011. Che vi sia stata una larga perdita di consensi soprattutto tra le elezioni dell’ottobre 2019 e la svolta del luglio 2021 è stata testimoniata anche dalle manifestazioni di giubilo dopo la decisione di Saïed di congelare il Parlamento, il cui Presidente era proprio il leader di Ennahdha, Rachid Ghannouchi, e, nei mesi successivi, dagli appelli fatti dal partito a scendere in piazza rimasti perlopiù inascoltati dalla popolazione. In sostanza, i partiti e i leader dell’opposizione risultano in molti casi disprezzati tanto o addirittura più di quanto non lo sia il Presidente Saïed.
Paradossalmente l’impatto più immediato del tasso di astensionismo registratosi il 17 dicembre potrebbe aversi indirettamente sulla situazione economico-finanziaria del Paese, più che sulle dinamiche politiche interne. Se, infatti, le elezioni avrebbero dovuto, nella strategia della presidenza, legittimare il potere di Saïed e facilitare le relazioni della Tunisia con i suoi principali partner internazionali, ponendo fine all’incertezza costituzionale e ridando una maggiore prevedibilità politica, la scarsa legittimità data dalle urne al Presidente potrebbe risolversi in un approccio diametralmente opposto da parte della comunità internazionale o quantomeno da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. Si segnala a tal proposito che proprio nei giorni precedenti alle elezioni, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha riprogrammato a data da definirsi la revisione, che si sarebbe dovuta tenere il 19 dicembre 2022, del dossier della Tunisia da parte del Consiglio di amministrazione del Fondo. A ottobre FMI e Tunisia hanno raggiunto un accordo nell’ambito dell’Extended Credit Facility, per sostenere le politiche economiche tunisine con un prestito di circa 1,9 miliardi di dollari. Ritardi nell’approvazione definitiva del nuovo programma di finanziamento da parte dell’FMI potrebbero esacerbare ulteriormente i rischi per l’economia del Paese, la quale desta già serie preoccupazioni. Si registrano, infatti, importanti criticità macroeconomiche soprattutto con riferimento al tasso di disoccupazione, attualmente superiore al 18% e che raggiunge il 40% se si considera soltanto la disoccupazione giovanile (under 35), al rapporto debito pubblico/PIL che in 11 anni dalla “Rivoluzione del gelsomini” è salito dal 45% al 100% (ciò anche a causa del deprezzamento del dinaro dato che buona parte, circa 2/3, del debito pubblico tunisino è denominato in valuta estera), al tasso di inflazione che ha raggiunto il 10%, sebbene i prezzi di alcuni beni registrino picchi anche del 25-30% e all’aumento dei tassi di povertà passati nel corso degli ultimi anni dal 15,2% a oltre il 21%. Se già la crisi Covid-19 aveva comportato una riduzione degli investimenti esteri complessivi del 4,9%, la complessa situazione politica apertasi con la crisi di luglio, ha ulteriormente aggravato tale situazione incidendo sulle aspettative degli investitori stranieri, con conseguenze negative sul valore degli Investimenti Diretti Esteri in Tunisia. A ottobre 2021 l’agenzia di rating Moody’s ha declassato il rating sovrano del Paese da B3 a Caa1, evidenziando crescenti preoccupazioni in merito alla capacità della Tunisia di garantire il pagamento dei debiti. Al declassamento di Moody’s è seguito, a marzo 2022, quello dell’agenzia Fitch che ha evidenziato un notevole aumento del rischio insolvenza per il Paese. Tutti gli indicatori economici evidenziano il possibile rischio di una grave crisi di bilancio e bancaria: nel breve-medio termine, la Tunisia potrebbe essere costretta a ristrutturare il proprio debito pubblico o dichiarare fallimento con gravissime conseguenze sull’economia reale e sulla popolazione. Oltre al deprezzamento della valuta, anche solo una ristrutturazione del debito potrebbe comportare la privatizzazione di società statali, il congelamento degli stipendi del settore pubblico e prepensionamenti forzati, nonché la drastica riduzione delle importazioni (probabilmente innescando carenze croniche anche di beni essenziali), l’aumento netto della disoccupazione e dell’inflazione. Ulteriori declassamenti da parte delle agenzie di rating ma la stessa attuale incertezza degli investitori esteri rispetto alla effettiva legittimità di cui gode Saïed nel Paese e dunque ai possibili futuri scenari, rischiano di aggravare le posizioni della Tunisia, erodendo ulteriormente la sua credibilità sui mercati.
Un mancato sostegno economico da parte delle istituzioni e della comunità internazionale risulta, logicamente, di vitale importanza nella strategia complessiva del Presidente Saïed poiché contribuisce a prevenire, o quantomeno a limitare, l’emergere di sentimenti di malcontento sociale che potrebbero sfociare in forme di contestazione della sua presidenza progressivamente più violente. La svolta presidenzialista e l’indebolimento del Parlamento voluti dallo stesso Saïed, infatti, rendono ora più che mai il Presidente il principale e diretto responsabile delle distorsioni del sistema e dell’immobilismo decisionale, con il rischio eventuale di vedere contestata la sua posizione da quelle stesse piazze che finora hanno quantomeno accettato tacitamente la sua linea politica. Qualora, dunque, il Presidente non dovesse riuscire in tempi brevi a risollevare le sorti dell’economia tunisina, e il primo passo in questo senso è ottenere altri aiuti internazionali e in particolare il prestito del FMI, o peggio qualora il quadro economico dovesse ulteriormente peggiorare, la situazione interna del Paese potrebbe rapidamente degenerare. In un simile scenario di progressivo deterioramento del quadro di sicurezza, bisognerebbe conseguentemente considerare l’appoggio di cui Saïed, un civile, gode all’interno degli apparti militari e di sicurezza del Paese. Attualmente non è del tutto chiaro quale effettivamente potrebbe essere il posizionamento di tali apparati in un contesto di progressivo aumento delle tensioni sociali. Sebbene, infatti, l’esercito si sia fatto garante della sicurezza dell’istituzione presidenziale nei giorni in cui Saïed decideva di bloccare il Parlamento, a luglio del 2021, desta maggiori incertezze la possibilità che le Forze Armate possano accettare di mobilitarsi nel caso in cui Saïed dovesse ordinare una repressione forzata del dissenso. L’esercito tunisino, infatti, pur avendo storicamente abiurato un ruolo politico nel Paese e pur non rappresentando un’istituzione influente come in altri Stati dell’area, ha giocato un ruolo fondamentale nel contesto della Rivoluzione dei Gelsomini nel 2011, adottando dapprima una atteggiamento neutrale, tanto da rifiutarsi di sparare sui manifestanti e scegliendo di porsi soltanto a protezione dei luoghi chiave della vita pubblica, e in un secondo momento finanche un approccio più attivo arrivando a fraternizzare con i manifestanti e a scontrarsi con le milizie fedeli all’allora Presidente Ben Ali.