Il 13 novembre sul noto viale Istiklal, nel centro di Istanbul, un ordigno, posizionato secondo le ricostruzioni successive, su una panchina, è stato fatto esplodere, probabilmente da remoto. Fin dalle prime dichiarazioni ufficiali, i vertici turchi hanno ricondotto i fatti del 13 novembre al terrorismo, puntando immediatamente il dito contro i curdi del Partîya Karkerén Kurdîstan (Partito dei Lavoratori del Kurdistan – PKK). Il 14 novembre il ministro dell’Interno turco, Süleyman Soylu, ha annunciato l’arrestato di 46 persone collegate ai fatti del giorno precedente e ha dichiarato che, sulla base delle informazioni raccolte dagli apparati di Stato turchi, l’ordine per l’attacco esplosivo del 13 novembre sarebbe giunto direttamente da Kobane, città nel nord della Siria controllata oggi dalle Forze Democratiche Siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk – HSD) e dalle Unità di Protezione del Popolo (Yekîneyên Parastina Gel – YPG), considerate organizzazioni “sorelle” del PKK turco. Tra gli arrestati, le autorità turche hanno dichiarato di aver fermato anche il presunto attentatore: si tratterebbe di una donna di nazionalità siriana, Ahlam Albashir, che, secondo quanto reso noto dalle autorità turche, avrebbe già confessato di essere stata addestrata come ufficiale dell’Intelligence speciale dalle organizzazioni curde del PKK e dell’YPG. Dal canto suo il PKK, tramite un comunicato ufficiale diramato poche ore dopo l’attacco a Istanbul, ha smentito le accuse turche di essere il mandante e/o l’organizzatore dell’azione terroristica, precisando che nelle sue operazioni il PKK non prende di mira direttamente i civili e anzi condanna simili violenze. Finora, infatti, fermo restando le dichiarazioni turche, nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’esplosione del 13 novembre.
Quello di domenica è stato l’attacco più cruento e mortale degli ultimi circa 5 anni per la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Dopo aver vissuto, tra il 2015 e il 2017, una lunga stagione di attacchi asimmetrici legati al terrorismo di matrice sia jihadista (in particolare riconducibile ad elementi dello Stato Islamico – Islamic State – IS) sia curda, negli ultimi anni il Paese ha visto una stagione di relativa stabilità sotto il profilo della sicurezza. Con particolare riferimento alla situazione legata all’irredentismo curdo, principale dossier della politica turca fin dagli anni Ottanta, si è assistito, negli ultimi anni, a cicliche escalation delle tensioni nei rapporti tra il PKK e la Turchia di Erdoğan. Dopo il raggiungimento nel 2013 di un cessate-il-fuoco tra le parti, a luglio del 2015 la tregua è definitivamente venuta meno in seguito all’attacco suicida del 20 luglio contro un centro culturale curdo a Suruç (provincia di Şanlıurfa), attribuito ad elementi di IS. In quell’occasione, infatti, il PKK accusò il governo turco di non aver attuato una politica di sicurezza idonea a prevenire l’attività terroristica di IS nelle province turche del sud-est a maggioranza curda. L’uccisione di due poliziotti turchi avvenuta nella città di Ceylanpınar il 22 luglio e rivendicata dal PKK decretò, all’epoca, ufficialmente la fine del cessate il fuoco e la ripresa con sempre maggiore intensità dello scontro aperto tra il governo turco e i gruppi di insorgenza curdi. Quest’ultimi, nel biennio successivo, 2015 – 2017, hanno dimostrato una reale capacità di azione anche al di fuori della tradizionale area operativa della Turchia sud-orientale, conducendo attacchi anche nelle grandi città, tra cui Ankara e la stessa Istanbul (generalmente questi attacchi nel periodo considerato sono stati rivendicati dai Falchi per la Liberazione del Kurdistan – Teyrêbazên Azadiya Kurdistan – TAK, fazione separatista del PKK). Dopo questo biennio di maggiore violenza, a partire dal 2018 si è registrata una riduzione degli attacchi da parte dei gruppi di insorgenza curda sul territorio turco, dovuta soprattutto all’attività di contrasto delle forze di sicurezza e di Intelligence turche che ha imposto un cambiamento nella geografia regionale del confronto armato tra i gruppi curdi e la Turchia. Le operazioni condotte dalle forze turche soprattutto nelle roccaforti del PKK nel sud-est della Turchia (in particolare in alcuni distretti delle province di Diyarbakır, Şırnak, Hakkari e Mardin), nel contesto di quella che si è configurata come una vera e propria guerra urbana tra l’esercito turco e gli elementi curdi, ha progressivamente costretto i membri del movimento curdo a riposizionarsi anche al di fuori del confine turco. A partire dal 2018 circa, infatti, il campo di battaglia tra la Turchia di Erdoğan e i curdi si è spostato sempre più nel nord dell’Iraq e successivamente anche nella Siria nord-orientale. Contestualmente, infatti, l’ascesa e la caduta di IS in Iraq e in Siria hanno permesso al PKK di espandere la sua azione proprio in quei territori siro-iracheni, forte anche delle vittorie degli elementi curdi nella guerra contro IS. In tale meccanismo, proprio la Siria settentrionale è diventata, più recentemente, il nuovo fronte del confronto tra Turchia e PKK, funzionando quasi da valvola di sfogo rispetto alle azioni sul territorio turco. I quadri addestrati dal PKK e incorporati nelle YPG in Siria sembrano sempre più essere al vertice decisionale dei gruppi curdo-siriani, sia per quanto concerne gli aspetti politici sia con riferimento a quelli militari; inoltre, almeno negli ultimi due anni, anche nel tentativo di compensare le perdite subite tra le proprie fila in Turchia, il PKK ha arruolato numerosi militanti nati nel nord della Siria. Secondo i dati più recenti e attendibili, oltre il 14% dei militanti del PKK uccisi in Iraq e Turchia nel 2020-2021 sono nati nel nord della Siria (nel periodo 2016-2020, la percentuale di militanti nati in Siria sul totale delle vittime, non era mai stata superiore al 2%). Contestualmente a ciò, si è assistito, sempre nell’ultimo biennio, a un aumento degli scontri tra le YPG e le forze turche nel nord della Siria, nonché ad attacchi transfrontalieri in Turchia; secondo i funzionari turchi, tale dato si spiegherebbe proprio con un aumento della capacità decisionale del PKK all’interno delle forze curdo-siriane.
A prescindere dalle responsabilità, l’attacco del 13 novembre potrebbe dunque aprire a una nuova stagione di ripresa del terrorismo di matrice curda sul territorio turco. In una simile ipotesi, tuttavia, anche sulla base dei dati citati in precedenza, saremmo difronte a un terrorismo curdo in Turchia parzialmente diverso da quello registratosi negli ultimi decenni, non solo per le diverse modalità operative (soprattutto se dovesse essere inconfutabilmente accertata una responsabilità del PKK), ma in particolare in ragione del fatto che potrebbero rivelarsi sempre più determinanti le influenze derivanti dai curdi non turchi, e in particolare siriani, integrati ormai nel PKK. In questo senso occorre ricordare, che nonostante alcune generiche passate proclamazioni di unità del movimento curdo, gli interessi e le richieste della popolazione curda rimangono fortemente ancorati alle singole realtà nazionali e spesso, anche all’interno di esse, appaiono spesso compositi e finanche contrastanti. Lo stesso attacco del 13 novembre, potendo pur provenire dalla galassia curda, non solleva di per sé direttamene una responsabilità del PKK o anche solo una sua culpa in vigilando. Quanto accaduto tra il 2015 e i 2017, ad esempio, ha fatto chiaramente apparire una differenza di approccio tra il PKK e il TAK, pur essendo entrambi riconducibili alla galassia dell’irredentismo curdo in Turchia: il TAK si è sempre presentato come una fazione separatista del PKK e in aperto dissenso con la strategia, disposta al compromesso, portata avanti dal PKK stesso; dal canto suo il Partito di Abdullah Öcalan ha sempre preso le distanze dalle operazioni del TAK, sottolineando proprio la profonda diversità nelle scelte operative dei due gruppi.
Proprio la valutazione e la ricostruzione delle scelte operative e strategiche del PKK consente di sollevare quantomeno alcuni dubbi sulla concreta attribuibilità dell’attacco del 13 novembre ad elementi curdi del gruppo. Anche negli anni di maggiore attività eversiva del movimento curdo in Turchia, infatti, gli attacchi sono stati raramente indiscriminati, non avendo in generale i curdi del PKK un’impostazione ideologica paragonabile, ad esempio, a quella dei gruppi di matrice jihadista. La lotta dei curdi è una lotta che si esplica normalmente, dal punto di vista operativo, tramite azioni dirette contro le forze di sicurezza turche e gli interessi governativi turchi e raramente, e più che altro indirettamente, contro i civili turchi e soprattutto stranieri. Un’azione intenzionalmente condotta in una via dello shopping e dunque diretta contro i civili, probabilmente finirebbe per provocare più danni che benefici contingenti alla causa curda e ciò non solo a livello nazionale ma anche e soprattutto nell’immaginario internazionale.
Taluni dubbi su una responsabilità diretta curda, attribuita in maniera estremamente rapida, sono sostenuti anche da una più dettagliata analisi dell’attuale congiuntura politica della Turchia di Erdoğan. A giugno del 2023 si terranno in Turchia elezioni generali. Dopo l’appuntamento elettorale del 2018 il consenso popolare nei confronti dell’attuale Presidente è progressivamente diminuito: la gestione della pandemia Covid-19, l’adozione di una strategia sempre più repressiva nei confronti di tutte le opposizioni politiche, la crisi valutaria scoppiata nel 2018 e la strategia economico-finanziaria “non-ortodossa” imposta da Erdoğan all’economia turca hanno inciso, infatti, negativamente sulla popolarità dell’attuale Presidente e su quella del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP). Il combinato disposto tra crisi economico-finanziaria e crisi del sostegno nei confronti della leadership di Erdoğan, ha concesso negli ultimi anni maggiori opportunità all’opposizione politica; sfruttando anche quello che appare secondo i sondaggi un crescente consenso verso un ritorno a un sistema parlamentare, dunque, un’opposizione unita potrebbe oggi rappresentare una reale minaccia per la posizione di Erdoğan. In particolare, il kemalista Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi – CHP) ha negli ultimi anni considerevolmente rafforzato le proprie posizioni nelle principali aree metropolitane, arrivando a controllare, in seguito alle elezioni locali del 2019, molte delle città metropolitane più popolose del Paese, tra cui le stesse Istanbul e Ankara. La conquista delle due principali città turche, nonché la popolarità che i volti pubblici delle amministrazioni locali hanno guadagnato durante la pandemia Covid-19, fornendo servizi e assistenza sociale nello stesso momento in cui Erdoğan veniva accusato di adottare una politica economica quantomeno pericolosa, hanno favorito una crescente capacità del CHP di modellare l’agenda politica e di proporre soluzioni concrete e vicine alle esigenze della popolazione. Oltre al CHP, i partiti che potrebbero riuscire a superare la soglia di sbarramento del 7% e quindi potrebbero entrare in Parlamento dopo le elezioni del 2023 sono il Partito Buono (İyi Parti – IP), di orientamento kemalista e alleato del CHP, e il filo-curdo Partito Democratico dei Popoli (Halkların Demokratik Partisi – HDP). L’HDP ha infatti dimostrato già nelle precedenti elezioni, soprattutto locali, di essere un ago fondamentale nella distribuzione dei voti ed è dato per le elezioni del 2023, secondo i sondaggi più recenti, all’11% circa. Se dunque il fronte anti-Erdogan appare oggi più che mai in una buona posizione per poter sfidare l’attuale leadership, la riuscita di questa strategia dipenderà da alcuni fondamentali fattori. Per poter sperare di arginare un probabile vittorioso AKP (secondo le ultime proiezioni di voto, l’AKP, seppure in netto calo rispetto alle elezioni del 2018, resterebbe il primo partito con il 28,7%), l’opposizione a guida CHP dovrebbe tentare la carta di una “coalition of the willing” che sia basata su un progetto anti-erdoganiano e dunque dovrebbe necessariamente dialogare anche con l’HDP. Sebbene l’HDP abbia sempre dichiarato di essere un partito legale separato dal PKK e da qualsiasi gruppo terroristico curdo, il clima di profonda tensione che Erdoğan ha creato negli anni ai danni dell’HDP, associandolo direttamente al PKK e anzi considerandolo una sua estensione, ha reso in generale difficile fino a questo momento, per tutte le opposizioni, prendere pubblicamente impegni politici con il partito filo-curdo; eppure non aveva finora cancellato le possibilità di dialogo. Evidentemente i fatti del 13 novembre e l’eventuale responsabilità del PKK nell’azione terroristica contribuiscono a rafforzare tali difficoltà e a rendere estremamente più complessa la gestione dei rapporti con l’HDP e ciò proprio a pochi mesi dalle elezioni. Più in generale, poi, rianimare il sentimento anti-curdo e riprendere, a livello di immaginario collettivo, i temi tipici della categorizzazione amico-nemico, di schmittiana evocazione, potrebbe consentire a Erdoğan non solo di fiaccare le posizioni politiche dell’HDP e di indebolire un possibile fronte comune dell’opposizione, ma contestualmente anche di rafforzare la propria posizione. Come accaduto dopo il tentativo di golpe del 2016, e come accaduto anche per le elezioni del 2015, Erdoğan potrebbe infatti proporsi come il solo capace di garantire la sicurezza interna dello Stato turco, convogliando i sentimenti soprattutto degli elettori indecisi o incerti verso uno esigenza più marcatamente nazionalista e securitaria.
Riflettendo, infine, sulle sue conseguenze più generali, l’attentato di domenica impone almeno altre due considerazioni: dal punto di vista ancora interno, l’attacco rappresenta non solo un duro colpo per il prestigio del Paese ma soprattutto per il suo turismo, settore che, vitale ora più che mai per la debole economia turca, si stava lentamente riprendendo dalle conseguenze della pandemia Covid-19. Un ulteriore peggioramento della situazione economica che deriverebbe dalla mancanza delle entrate del settore turistico potrebbe favorire quel quadro, a tinte fosche, che alcuni analisti economici hanno già evidenziato del corso del 2022: la crescente incertezza e preoccupazione dei mercati e dei consumatori potrebbe cioè provocare una nuova crisi valutaria in un contesto macroeconomico nazionale in cui Ankara avrebbe poche carte da giocare per potervi far fronte. Un’ultima considerazione, poi, riguarda le conseguenze che l’attacco potrebbe avere sui rapporti tra la Turchia e i suoi alleati occidentali, soprattutto nell’attuale complesso scenario caratterizzato dalla crisi russo-Ucraina. Lo stesso portavoce della presidenza turca, Fahrettin Altun, ha, subito dopo l’attacco del 13 novembre, sottolineato che l’accaduto potrebbe minare proprio le relazioni tra Ankara e i suoi alleati occidentali in ragione del fatto che l’azione terroristica altro non sarebbe che una conseguenza del supporto che alcuni Paesi hanno fornito e continuano a fornire a gruppi terroristici. A tali dichiarazioni deve poi aggiungersi il fatto che il Ministro dell’Interno Soylu abbia respinto le condoglianze offerte dagli Stati Uniti subito dopo l’attacco di domenica. Sebbene, infatti, gli USA (così come l’Unione Europea) abbiano inserito il PKK tra le liste dei gruppi terroristici, essi non solo supportano le forze dell’YPG in Siria (ciò perlopiù in funzione anti-IS) ma continuano a dare esilio a Fethullah Gulen, il religioso musulmano accusato, tra le altre cose, di aver ideato il tentativo di golpe del luglio 2016. I rapporti tra la Turchia e gli USA hanno già visto, negli ultimi anni, momenti di forte tensione diplomatica; nell’attuale congiuntura globale, tuttavia, caratterizzata da un riassetto degli equilibri internazionali, l’apertura di un nuovo fronte di tensione tra due membri della NATO, di cui uno attualmente funge anche da mediatore nel conflitto Ucraina-Russia, potrebbe avere conseguenze di ben più ampia portata rispetto alle dispute diplomatiche del passato.