Anche il 25 aprile declinato alla “causa Ucraina”. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha avvicinato la lotta di liberazione del ’43-’45 alla resistenza opposta dagli ucraini agli invasori russi. Non che fossero nuovi accostamenti del genere: negli anni i partigiani italiani sono stati assimilati ai curdi, ai ribelli-briganti del sud contro il Regno d’Italia, ai palestinesi. Ma laddove neanche l’ANPI aveva osato, la politica nostrana ha proposto un’interpretazione decisamente anti-storica e fuorviante.
Non esiste infatti alcun nesso fra i partigiani italiani e quelli ucraini, se non il comune appoggio militare di grandi potenze per accelerare la vittoria. Tuttavia, se oggi gli ucraini ricevono attestati di stima e di considerazione da mezzo mondo, all’epoca per gli italiani fu un po’ diverso.
I partigiani nostrani, infatti, non godevano della medesima attenzione mediatica e politica oggi riservata agli anti-Putin. Nel 1943, eravamo un Paese sconfitto che, nella fase cruciale della guerra, aveva cambiato fronte. Ed il nuovo fronte antifascista era tutt’altro che unito, fuori e dentro. Fuori, c’erano Mussolini e mezzo milione di soldati della RSI; dentro divisioni metodiche ed ideologiche sfruttate da Washington e da Londra per rafforzare la propria influenza sullo scacchiere mediterraneo. L’ala comunista della Resistenza, inoltre, era idealmente orientata all’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia ed all’Unione Sovietica. Già, quella Russia che ai tempi di Stalin appariva al mondo come potenza “democratica” e paradossalmente, nel 2022, quale nazione “fascista”.
Tale vicinanza ideologica a Mosca creò, già al tempo, non poche preoccupazioni ai comandi alleati, agli organi difensivi del Regno del Sud ed anche ad alcuni eserciti dello schieramento anglo-americano, in particolare ai polacchi la cui accesa russo-fobia esplose nelle Marche e sulla linea del Senio. In Emilia Romagna, ad esempio, i soldati di Anders disarmarono le formazioni comuniste, mentre ad Ascoli e nell’entroterra maceratese appena liberato le sezioni del Partito comunista denunciavano assalti ai loro militanti, bandiere rosse strappate, raffiche di mitra contro le scritte “Viva Stalin”.
“UN ESERCITO SCOMODO. IL 2° CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA 1944-1946” è il titolo di una tesi di laurea della quale una sezione locale dell’ANPI propone una parte. Il titolo è inequivocabile ed anche il frammento che vi proponiamo parla chiaro:
“[…]Presso l’ACS, consultando il fondo di Pubblica Sicurezza per gli anni 1944-46, trovai due buste (178-179) dal titolo eloquente: “Incidenti provocati da militari polacchi”. All’interno delle buste ho così potuto scoprire una quantità vastissima di rapporti prefettizi e segnalazioni di comandanti dei Carabinieri, che riguardavano episodi di incidenti tra militari polacchi e simpatizzanti comunisti e socialisti italiani[…]”.
Non una storia qualunque quindi, semmai ben nota e che, forse, contribuisce a spiegare i motivi per i quali l’ANPI si è trovato un po’ in difficoltà di fronte alle posizioni anti-russe assunte dai membri orientali dell’UE e della NATO ed accolte dal resto dell’Occidente.
D’altronde, accusare tout court il Cremlino di essere un aggressore fascista è mettere in dubbio un pezzo di storia che coinvolge, indirettamente, anche i partigiani italiani. Come può un paese che ha avuto 30 milioni di morti nella guerra al nazismo essere nazista? In Russia, dal ’45 ad oggi, la Seconda Guerra Mondiale si chiama Grande Guerra Patriottica e la sua vittoria si celebra il 9 maggio, anziché l’8, proprio per sottolineare l’importanza del grande sacrificio e del più gravoso impegno sostenuto dai russi contro l’Asse. E che gli ambienti gauche italiani hanno peraltro rivendicato fino a tempi non sospetti.
Nella Federazione Russa il passato zarista e quello sovietico riescono a convivere: gli zar hanno fondato la nazione, l’Urss l’ha posizionata sullo scacchiere internazionale. Provate ad andare alla Chiesa del Cristo Salvatore a Mosca e poi allo stadio Luzhniki: passerete, in pochi minuti, dalla statua dello zar Alessandro a quella di Lenin. Senza contare che Stalin è un personaggio storico ancora amato e che Nicola II è addirittura santo.
Loro hanno fatto i contri col proprio passato. Noi no. Ed anche quest’anno, alla vigilia della Festa della Liberazione, ci troviamo divisi. Stavolta non c’entrano Bella ciao né i fischi alla Brigata ebraica. C’entra invece una interpretazione fin troppo malleabile della Resistenza.
Argomento per decenni monolite della storiografia (tanto da spingere ad affibbiare la lettera scarlatta a coloro i quali hanno tentato di approfondirla con obiettività), la lotta partigiana è ormai “usata” come termine di paragone per qualunque popolo combatta. Senza tuttavia tenere conto delle singole peculiarità, passate e presenti.
Laddove vi è vera libertà di analisi e di studio della Storia è possibile preservare e tramandare le pagine del nostro passato con obiettività e conoscenza condivise. Altrimenti è solo propaganda e di quella ne abbiamo già. E ne abbiamo abbastanza. Perché ascoltare una sola campana, informarsi da un’unica fonte, esprimere giudizi figli di emotività o di convenienza non è essere analisti, storici e giornalisti. È essere “piccole Pravda”. Che senso ha dunque accusare il Cremlino di mettere il bavaglio alla stampa se poi, noi stessi, siamo pronti a screditare e deridere chiunque abbia posizioni diverse?
La paura a dissentire e la conseguente volontà di allinearsi ci rende tutt’altro che liberi… 77 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il 25 aprile 2022 sarà dunque una Festa della Liberazione un po’ mortificata. E non certo per colpa dei “fascisti” e dei revisionisti…