La caduta del prezzo del petrolio avvenuta l’anno scorso non ha intaccato la sua condizione di materia prima fondamentale. Da febbraio però le quotazioni hanno visto una ripresa: questo rialzo porta il prezzo del West Texas Intermediate a un anno dal 10 giugno. Ai minimi di gennaio e febbraio, dove si sono toccati minimi di poco superiori ai 26 dollari, è seguita una rapida risalita che ha portato al superamento della barriera “psicologica” dei 50 dollari al barile. A cosa è stato dovuto questo aumento e possiamo pensare di tornare ai prezzi sopra gli 80/100 dollari che sono stati tipici del periodo dal 2009 al 2014 e che tanto hanno condizionato l’economia occidentale ? La domanda di petrolio è cresciuta in modo stabile anche nel 2016.
Praticamente nel corso del 2016 la crescita della domanda ha superato la crescita dell’offerta e questo, ovviamente, ha comportato un aumento dei prezzi. Quello che ci interessa è però sapere a cosa è dovuto questo calo, se è permanente e se quindi ci sarà una nuova fiammata dei prezzi con relativo rischio di rallentamento significato della crescita mondiale e quindi anche italiana.
Per dare un’indicazione sensata dobbiamo analizzare chi e cosa hanno provocato il calo nell’offerta. Prima di tutto vediamo come si stanno comportando i paesi Opec, cioè facenti parte del cartello che cerca di controllare il prezzo mondiale del greggio. Usiamo sempre un grafico della Iea. In questo caso i paesi tradizionali esportatori hanno continuato a produrre in quantità notevole, anzi ampliando il proprio output a partire dal 2016. Tutto questo è da leggere seguendo queste linee guida: l’Opec sino al 2015 stava perdendo quote di mercato nei confronti dei paesi non Opec come Brasile, Usa, Canada e Russia. Il prezzo era cresciuto a tal punto da incentivare ricerche ed estrazioni che seguivano metodi poco convenzionali, come l’utilizzo delle tecniche shale e dalle sabbie bituminose. La reazione dell’Opec e soprattutto del leader produttivo mondiale Arabia Saudita , è stato quello di incrementare la produzione per mandare fuori mercato i paesi non Opec con costi di produzione più elevati. La missione del regno arabo ha funzionato: il numero di rig (pozzi) aperti negli Usa è calato da maggio 2015 a maggio 2016 di 451 unità, più che dimezzandosi e riducendosi a 435. Bisogna dire che le chiusure negli Usa sono state parzialmente controbilanciate dal rientro in gioco dell’Iran che , pur non riuscendo a produrre a pieno regime, dopo la fine dell’embargo internazionale ha comunque portato un milione di barili al giorno in più sul mercato.
La scelta saudita di far precipitare i prezzi con un eccesso di offerta ha però messo in crisi molti degli stessi paesi Opec che hanno visto ridursi le proprie entrate finanziarie. I ricchissimi paesi del Golfo hanno dovuto iniziare ad economizzare, l’Arabia stessa sta per far pagare le tasse ai lavoratori stranieri sul proprio territorio, ed il Venezuela è entrato in una crisi economica che lo sta portando al limite della guerra civile. I prezzi quindi non possono restare a 30 dollari al barile, ma devono forzatamente tornare ad un livello più remunerativo. Una serie di eventi fortuiti e non collegati ha portato ad un calo temporaneo delle produzioni in diverse aree del mondo. Un grafico vi può meglio spiegare l’insieme di queste interruzioni nella fornitura. Dal febbraio 2016 , quando si è iniziato ad assistere all’innalzamento dei prezzi sono avvenuti una serie di eventi casuali e non collegati che han portato a cali temporanei nella produzione. Fra i principali ricordiamo le interruzioni nel delta del Niger (Nigeria) per azioni dei ribelli e manutenzioni, gli incendi massivi in Canada, le azioni del Isis in Iraq e quindi l’interruzione dell’esportazione dall’Iraq alla Turchia, scioperi in Kuwait, incendi in Brasile, manutenzioni in Norvegia, fermo della produzione in Val d’Agri, blocco esportazioni libiche.
Non abbiamo considerato il calo della produzione in Venezuela per la crisi energetica locale. Sono eventi legati a rivolte, guerre, eventi naturali non collegati , ma accaduti tutti fra febbraio e giugno 2016 che hanno comportato un calo sensibile, ma temporaneo , delle produzioni petrolifere. Potremmo dire che le”Manutenzioni” sono state molto bel programmate, giuste per provocare un ritocco dei prezzi, ma comunque è ovvio che vengano fatte nei momenti di minor danno economico per i proprietari degli impianti. Si tratta quindi di eventi temporanei e in parte risolvibili.
Quindi possiamo concludere che l’eccesso temporaneo di offerta rispetto alla domanda di petrolio ha portato ad un innalzamento dei prezzi nel secondo trimestre del 2016, ma che questa spinta non dovrebbe continuare a lungo e dovrebbe esaurirsi presto. Gli eventi temporanei si esauriranno, l’Iran incrementerà le proprie esportazioni ed è proprio della scorsa settimana la notizia che le forze governative libiche stanno riconquistando l’area dei giacimenti e dei porti di esportazione. Inoltre un aumento dei prezzi porterà ad una riapertura dei pozzi chiusi in Nord America: buona parte di questi pozzi diviene redditizia con un prezzo del petrolio fra i 50 ed i 60 dollari al barile, ed infatti a giugno, dopo un trend di chiusure continue durato quasi un anno, si è assistito alla prima riapertura di 6 pozzi, portandone il totale aperto al 441. Se vi fosse un ulteriore aumento l’offerta nord americana risalirebbe vertiginosamente.
Il prezzo del petrolio quindi è quasi raddoppiato negli ultimi sei mesi, ma difficilmente continuerà questo trend, garantendo, almeno dal punto di vista delle materie prime, dei fondamentali positivi per la crescita economica mondiale.