Nel misterioso processo della storia, le recenti cronache ripropongono un racconto umano presente e proposto sin dai primi capitoli della Bibbia. Ora come allora, infatti, un personaggio «astuto» (‘ārûm) (Genesi v. 1) che tenta per mezzo di parole, che ingannano e seducono esseri «nudi» (‘ărûmmîm) (Gen 2,25) ovvero vulnerabili intellettualmente e moralmente, una debolezza manifesta e colpevole delle democrazie che dal 2008, quando veniva invasa la Georgia, diventerà palese agli occhi stessi degli umani nel 2022 con l’invasione dell’Ucraina.
Questi ultimi si sono fatti ingannare dalle affermazioni categoriche, che si arrogavano una conoscenza della realtà che non era affatto dimostrata, ma che appare convincente per la perentorietà del pronunciamento. Anche i metodi sono ampiamente descritti dal libro sacro. Oltre, al già citato serpente ricordiamo Gezabele che per la sua arroganza non sopporta il rifiuto e ordisce un piano menzognero e violento, ma, soprattutto, che usa la seduzione e la manipolazione nei confronti di chi è debole e dubita, come il re Acab, suo marito.
Preoccupa la insistenza con cui, nell’epoca moderna e anche postmoderna, siano riproposti modelli politici totalitari che catturano il consenso anche mediante la diffusione di miti che fanno presa sugli istinti irrazionali e utopistici delle masse, soprattutto dei giovani. Nella filosofia contemporanea si è tornati cosi a parlare di mito, considerandolo come forma di intuizione estetica sentita come vera e reale, perciò agente in senso politico o religioso sulle convinzioni pratiche degli uomini. Sappiamo però che nella tradizione giudaico cristiana gli scritti apocalittici, che esprimono la lettura globale dell’intera storia umana, condannano l’insorgere mostruoso degli imperi (Dn 7–8; Ap 13). Un sogno imperialistico già evocato dal racconto biblico (Genesi 11) che lo ha condannato senza equivoci.
Mutuando una similitudine manzoniana, la macchina della disinformazione russa ha imbalsamato, coi suoi inchiostri e i suoi byte, le imprese del capo assoluto determinando, come avverte appunto il Manzoni, una sorta di cristallizzazione dei significati.
Lo zar, dal punto di vista cognitivo, è prigioniero della sua prospettiva euristica e, in uno sforzo di mettere in atto relazioni di significazione, attiva processi di comunicazione che vorrebbero sospendere le certezze del soggetto, svuotarlo dalle dimensioni cognitive e corporee, per recuperarlo come identificazioni immaginarie di uno dei personaggi che hanno popolato la sua mente nel recente ventennio.
Vladimiro, in realtà si rende conto che ormai tutto è perduto, che i legami con la realtà si sono rotti e, per questo, non si muove seguendo le necessità primarie e i principi economici che rappresentano il tempo reale della storia umana. Le sue truppe si trovano in uno spazio e in un tempo ineffabili, dove le misure sono segnate soltanto dai tempi incoerenti con gli obiettivi delle operazioni, mal tollerate dai soldati le cui madri si rendono conto che tra la vita e la morte dei loro figli non c’è soluzione di continuità, essendo entrambe avvolte da un alone di silenzio censorio e di mistero politico.
Gradualmente la sua narrazione, non sempre capita dal suo popolo, raccorderà la Storia al mito imponendo un significato funzionale alla cadenza degli appuntamenti negoziali, ai motivi e al tempo delle operazioni terrestri e marittime, al presunto spazio russo, conferendo sempre più una valenza mitica alla storia. Il suo viaggio perderà, così, senso storico, etico, militare, politico per trasformarsi in un viaggio verso un presunto destino mitico.
Ogni istituzione umana è intrinsecamente costituita dal significato inteso e attuato dall’uomo e, per questo, cambiare il significato è cambiare la cosa stessa.
In tale ottica, la crisi ucraina è una minaccia esistenziale all’Occidente, perché se accettiamo il cambio di significato di democrazia, sotto lo stesso nome si avranno realtà affatto diverse. La repubblica democratica di Germania del recente passato è ancora un ricordo non metabolizzato; i paesi dell’est europeo ne portano ancora le cicatrici e per questo comprendono meglio la problematica.
Da quando lo zar ha varcato le frontiere ucraine, il suo racconto ha perso ogni connotazione storica slittando chiaramente nel codice simbolico e mitico. Non si rivolge più all’esterno e si idealizza o sublima attraverso l’identificazione con una causa russa che non ha valide basi storiche.
Non riuscendo l’Io ad integrarsi con la realtà oggettuale, esso preme sull’Ego del capo di stato, rendendolo prigioniero delle incontrollate pulsioni di Eros (ambizione, potenza, desideri …), fino a sommergerlo con una nevrosi che apre la strada ad un impulso autodistruttivo di cui si deve aver paura.
In Vladimiro, insomma, non si è operato il passaggio dall’io egoico-solipsista del burocrate onnipotente all’io relazionale che, per integrarsi con la realtà, deve affrontare i pericoli e le norme della comunità internazionale. Egli, infatti, manifesta già ora una regressione che lo spinge al distacco, all’isolamento e alla solitudine. Da una parte è metafora della sufficienza e dell’inaccessibilità del bambino che vuole restare installato nella sua maestà, e malauguratamente gioca a riprodurre l’onnipotenza originaria prenatale; dall’altra esprime l’abolizione di ogni complessità e la rimozione della minaccia di tutto ciò che può danneggiare la sua pienezza e la sua unicità: chiedo al popolo russo, prima vittima di questo disegno onirico, di aiutarci in questa sfida epocale dai risvolti poco rassicuranti.