“Quella mattina ero in un ufficio…del Sisde”, ricorda con voce ancora emozionata. Poi torna serio e continua: “Ho visto quello che accadeva a New York in televisione. Da quel momento siamo rimasti tutti inchiodati davanti allo schermo. Perché parliamoci chiaro, era l’unico strumento immediato di informazione. Non c’era l’uomo del Sisde che dal posto ci mandava le informazioni”. Paolo Scotto di Castelbianco ha fatto il “portavoce del silenzio”, come scherzosamente si è sempre definito. Per anni, infatti, è stato il responsabile della comunicazione istituzionale del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza: insomma, i servizi segreti con l’ambasciatore Giampiero Massolo.
“All’inizio era un paradosso – ammette – ripetevo: sono il portavoce del silenzio. Ci giocavamo, ma bisognava farlo. Non solo perché ce lo chiedeva la legge (124/2007 ), ma perché dovevamo cambiare. Negli anni in cui ho ricoperto quella carica ho avuto buon gioco perché la gente aveva la percezione di una minaccia globale ed era importante che l’intelligence ci fosse, anche se aveva un’immagine ancora opaca per i più. Allora abbiamo usato come palcoscenico privilegiato le università ( e non solo), che erano e sono il nostro futuro e sono il primo luogo di confronto. Poi il sito, come a dire: guardate che noi siamo questa roba qui. Questo credo sia stato molto positivo perché abbiamo tolto l’acqua dove nuotava il pesce della cattiva informazione”.
L’11 settembre ha rappresentato uno spartiacque nella gestione della sicurezza e quindi nel lavoro anche dell’intelligence. Una consapevolezza che ha riguardato tutti gli addetti ai lavori.
“Il mondo da lì ha iniziato a farsi più veloce – commenta Scotto – lì è cambiato tutto. Noi venivamo da un’esperienza interna di terrorismo, ma vedere il Pentagono sotto attacco ha scioccato tutti e ha cambiato le nostre abitudini di vita, gli scambi internazionali informativi e ha reso per lungo periodo centrale l’esigenza di sicurezza”.
Dopo 20 anni da quell’evento, il ritiro degli Usa dall’Afghanistan è letto da alcuni come la vittoria del terrorismo. Ma Scotto, abituato a camminare per i corridoi di Forte Braschi o di Palazzo Chigi, al seguito dei direttori delle Agenzie, conosce bene anche i lati più oscuri degli eventi, i vizi e le virtù di chi decide e non crede che in questa faccenda ci sia un vincitore, piuttosto un perdente. “Non ha vinto il terrorismo, ma ha perso l’idea che si possa esportare la democrazia – chiarisce netto – Ha perso il modello di esportazione della democrazia, perdente è un metodo politico. Il terrorismo ha espresso forse un concetto antico, delle dottrine politiche storiche, che c’è il nemico. E il terrorismo è stato l’ultimo nemico globale. Il vero punto è che il terrorismo ha fatto anche comodo per creare alleanze che però poi non hanno funzionato”. Dall’Afghanistan fino alla Siria e all’Iraq, il nemico in questi 20 anni ha cambiato nome ma non sostanza. Al Qaeda o Isis poco cambiava. Il rischio era lo stesso. “Ci sono stati momenti remoti in cui per non sbagliare, ma sono momenti che non riguardano me però – specifica ridacchiando – nel dubbio si diceva che non si poteva escludere il rischio. Certo che negli anni che ci sono stati momenti di preoccupazione per il rischio attentati, in particolare l’Expo di Milano e il Giubileo, e di momenti complessi basterebbero questi! Però vanno distinte le situazioni di analisi da quelle operative. E la parola d’ordine è sempre stata non creare allarmismo e dare un’informazione responsabile”.