La Shari’a, il business del deserto.
Molti “Stati falliti” dell’Africa Occidentale rispondono abbastanza bene alla descrizione dello Stato dell’Anchuria, evocato nel racconto “L’ammiraglio” di O. Henry (il nome d’arte di Williams Sydney Porter).
In questo scenario, si è osservato che l’instabilità politica ha pregiudicato la transizione democratica e indebolito le già fragili istituzioni nazionali. La criminalità transnazionale, approfittando inizialmente di fattori geografici, quali la lunghezza e la porosità delle frontiere, e successivamente dei fattori-socio politici, rappresentati da povertà e marginalizzazione di ampi strati di popolazione e della manifesta assenza di governance, si è insediata e rafforzata diventando una grave minaccia a livello internazionale.
Il fenomeno della criminalità organizzata non è nuovo in Africa occidentale; quello che sorprende è la velocità con cui si è diffuso e radicato nell’ultimo decennio.
La disponibilità di enormi risorse finanziarie ha favorito l’infiltrazione delle istituzioni politiche provocando effetti disastrosi a livello economico e sociale.
Le sorti di questi governi, le cui economie non sono certo in buona salute, dipendono, cosi, da reti transnazionali di affaristi che commerciano in materie prime ben più redditizie: droga, armi e, soprattutto, esseri umani. Le organizzazioni criminali, con entrature nel mondo politico (Lacher, 2012; Aning&Pokoo, 2014) e con l’aiuto di generose “tangenti”, sono cosi in grado di attraversare frontiere e posti di blocco con carichi illegali che non saranno mai controllati.
Si è così affermato (Boutellis, 2014) un modello di cogestione dei territori ai confini fra Algeria, Libia, Mali, Niger e Burkina Faso da parte di gruppi armati criminali, popolazione e terroristi islamici, anche se ormai è assodato che il controllo degli stessi territori è fermamente in mano terrorista, da quando una frangia dell’AQMI, per compensare la propria disfatta nel Nord dell’Algeria, si è stabilizzata nel Sud del Paese e in territorio maliano.
Su questo aspetto, il Commissario per la Pace e la Sicurezza dell’Unione Africana attribuiva a tre fattori l’insediamento dei gruppi terroristi nel sahel: «La ricerca di zone sicure caratterizzate da una scarsa presenza dello Stato; la ricerca di nuove fonti di finanziamento; il bisogno di un bacino di reclutamento per alimentare la propria lotta a livello planetario» (Lamarma, 2010).
L’obiettivo delle organizzazioni jihadiste era dunque il controllo di un ampio territorio dove dedicarsi a traffici di ogni genere per finanziarsi, costituendo in tutta la regione sahelo-sahariana un emirato, che si sarebbe esteso dalle propaggini meridionali dell’Algeria fino ai confini del lago Chad, dove applicare la shari’a, prelevare la zakat e… accumulare capitali finanziari, umani e sociali per la causa.
Per questo progetto criminale (Bourgeot, 2011) l’AQMI si organizzò in tre grandi katibas (battaglioni): a Ovest quello di Mokhtar Ben Belmokhtar, noto trafficante di sigarette e droga; a Est (massiccio delle Ifoghas), quello di Abou Zeid, contrabbandiere e sequestratore di ostaggi; a Nord, nell’oasi di Taoudéni, quello di Yahia Djouadi (alias Abou Hammar), che divenne il braccio destro di Abdel Malek Droukdal, che in settembre 2012 fu nominato l’emiro del Sahara.
Politicamente, l’attuale impunità e propensione alla violenza manifesta dei salafiti risale al 2012 quando il movimento Tuareg, di ispirazione laica e democratica, con obiettivo anche la lotta a Al Qaeda, ha dichiarato l’indipendenza delle provincie settentrionali del Mali. La guerra civile ha portato cosi l’etnia Tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, ad allearsi con alcune frazioni fondamentaliste, (gli Ansar Dine guidati da Iyad ag Ghali,) – che aderiscono al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, poi denominato al Qaeda nel Maghreb islamico.
La situazione è precipitata quando il movimento Tuareg dopo uno scontro per il controllo di Gao, perse in pochi mesi il controllo di questi territori a favore dei movimenti salafiti Ansar Dine e al Qaeda nel Maghreb islamico; da allora l’azione politica di questi gruppi – Ansar Dine, il Movimento per l’unicità e le jihad in Africa Occidentale e Al-Qaïda nel Maghreb Islamico (AQMI) – è progressivamente associata alle punizioni corporali e alla distruzione dei mausolei di Timbuctu.
I gruppi della jihad islamica, in perfetto stile mafioso, sfruttano la criminalità organizzata offrendo in cambio protezione e libertà di movimento. ll modello parassitario di business, ai danni della società civile e delle istituzioni statuali locali e dell’economia dell’intera regione, ha avuto successo e i casi del Mali e del Niger negli ultimi due anni lo dimostrano.
In generale, il terrorismo, in quanto business molto costoso, ha bisogno di diversificare il proprio portafoglio a livello transnazionale oltre che di canali finanziari per riciclare i proventi delle attività illegali. In tale quadro, ha tratto enormi vantaggi dalla globalizzazione incrementando l’interdipendenza fra flussi illegali ed economie tradizionali e si è inserito a pieno titolo in questo binomio approfittando di quel flusso finanziario stimato in 500 miliardi di dollari (Napoleoni, 2004).
Le organizzazioni terroristiche internazionali, in particolare, movimentano ingenti capitali finanziari sui mercati internazionali producendo mediamente 500 miliardi di dollari di cui un terzo proveniente da attività legali e il restante è il provento di attività illegali fra cui traffico di droga, armi ed esseri umani.
Nel caso specifico dell’Africa occidentale, l’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (UNODC) nel suo ultimo rapporto sul traffico di armi riferisce quanto rilevato dalle autorità libiche sulla coincidenza fra rotte del traffico di armi e quello di esseri umani provenienti da Algeria, Niger, Chad, Sudan e Egitto. Ancora, Khalil, al confine con l’Algeria, è considerate un hub regionale per il traffico di cocaina e hashish attraverso il Sahara. Nel frattempo, nuove vie si stanno consolidando rispettivamente fra la Guinea e il confine Mauritania-Mali (i dipartimenti di Yelimané e Nioro sono i più colpiti); dalla Mauritania via Araouane e dal Niger attraverso la regione del Ménaka.
La zona ha dimostrato grandi potenziali dal punto di vista dell’economia illegale richiamando presto l’attenzione dell’ISIS e innescando nel 2019 una lotta fra lo Stato Islamico nel grande Sahara e il gruppo di sostegno all’islam e ai Mussulmani affiliato con Al Qaida. Le lotte ideologiche hanno un manifesto carattere economico essendo in gioco il controllo di più di 2000 miniere d’oro oltre che di lucrosi e non presidiati dalle autorità della regione corridoi di traffico. In tale ottica, anche elementi di Boko Haram si sono insediati in distaccamenti nella foresta Wawa in Niger reclutando numerosi banditi della vicina Zamfara. I ribelli delle aree vicine, tra l’altro, sono controllati da Dodo Gide il cui potere è riconosciuto nella foresta di Dangulbi a Zamfara e aree intorno a Zuru nello stato del Kebbi in Nigeria.
L’assenza dello Stato invita i terroristi ad investire in risorse finanziarie e umane in particolare per controllare la zona delle tre frontiere Mali/Niger/Burkina, e, più a Est, la zona delle quattro frontiere Nigeria/Camerun/Niger/Chad, dove califfati auto proclamati tassano le popolazioni, impongono sharia, e impongono un ignobile regime mafioso.
L’Europa trarrebbe enormi benefici da un’Africa più sviluppata e stabile. Ai cinici che in questo momento pensano alla presunta lontananza di questi problemi dalle loro case o peggio, alla convenienza di tenere l’Africa nelle condizioni in cui si trova oggi per approfittare delle sue ricchezze e di manodopera a basso costo, si potrebbe rispondere che la compiacente e suicida miopia europea, non può che peggiorare rapidamente l’attuale stato delle cose, agevolando organizzazioni terroriste che, finanziandosi attraverso un potente e sofisticato business che immette armi, tonnellate di droga e migliaia di disperati nello spazio Schengen, potranno sempre più agevolmente condurre le loro azioni terroristiche per destabilizzare le democrazie nel mondo.