Tra le tante cause che si intrecciano nel conflitto israelo-palestinese, principalmente di natura religiosa / etnica e storica, oggi ce ne potrebbero essere di altre che forse sono le vere ragioni del conflitto attualmente in corso.
Era probabilmente dai tempi della seconda intifada del 2000 che non si assisteva ad un’escalation di violenza così imponente negli scontri tra Israele e i militanti palestinesi.
Secondo le Forze di Difesa Israeliane (IDF), a partire dal 10 maggio sono stati lanciati su Israele circa 4100 razzi da parte di Hamas e della Jihad (i più prodotti e forniti dall’Iran), di cui più dell’ottanta per cento è stata intercettata dallo scudo missilistico di difesa denominato Iron Dome, mentre una parte di questi ordigni è persino piovuta su Gaza.
Israele ha reagito con fermezza agli attacchi di Hamas impiegando la sua aviazione che ha bombardato pesantemente centinaia di obiettivi strategici palestinesi nella striscia di Gaza, dai depositi di munizioni, alle rampe missilistiche, agli obiettivi navali, alla rete di cunicoli sotterranei usati dai militanti per spostarsi in ogni zona della città, ai rifugi e abitazioni di esponenti palestinesi di rilievo e neutralizzando parecchi capi militari di Hamas e della Jihad palestinese.
In cronologia si rileva che l’origine di questa ultima tornata di scontri tra ebrei e palestinesi fosse inizialmente collegata ad una questione di tipo “immobiliare”, venutasi a creare nel quartiere di Gerusalemme est denominato Sheikh Jarrah, a nord della città vecchia sulla strada per il Monte Scopus, e generalmente popolato per buona parte da nuclei familiari di religione musulmana. Nell’ultimo decennio diverse famiglie arabo-palestinesi hanno ricevuto lo sfratto esecutivo da parte della proprietà ebrea, a causa del mancato versamento dell’affitto per l’occupazione degli immobili in cui risiedevano. Fin qui nulla di particolare, apparentemente, ma la questione aveva evidentemente radici profonde.
La situazione richiama infatti la storica diatriba sull’effettivo titolo di proprietà dei terreni contesi, da una parte rivendicato dai palestinesi in virtù di un presunto accordo del 1956 (di fatto mai ufficializzato) dove la Giordania (insignita allora del compito di “Custodian of Enemy Property” a seguito della guerra tra Israeliani e Palestinesi) e l’Agenzia delle Nazioni Unite UNRWA, si impegnarono ad insediare a Sheikh Jarrah 28 famiglie palestinesi, precedentemente sfollate da Jaffa e Haifa, città controllate da Israele sin dal 1948, con l’illusiva promessa che esse avrebbero mantenuto la condizione di inquilini dopo almeno tre anni di residenza in loco. Di contro gli ebrei attestavano il diritto storico di proprietà su questi territori – persino precedente all’Impero Ottomano e in alcuni casi risalente al periodo di Alessandro Magno – e ri-acquisiti in occasione della Guerra dei sei giorni del 1967, quando Israele prese anche il controllo completo di Sheikh Jarrah e delle proprie comunità, dentro e intorno al quartiere, così come sul Monte Scopus. Fu così che di fronte alle ripetute “scaramucce”, la comunità sefardita chiese alla Corte Suprema di Israele di esprimersi al riguardo, il quale organo giudicante, più volte (1972, 1982 e successive altre), si pronunciò a suo favore, a patto però che le famiglie palestinesi rimanessero nelle loro case finquando ne avessero pagato l’affitto ai proprietari ebrei.
Dal 2001 – fino ad arrivare ai giorni nostri – iniziò la “stagione degli sfratti” e molte famiglie palestinesi, non potendo (o meglio non volendo in alcuni casi) più pagare per la locazione, si videro costrette ad abbandonare le proprie case anche a Sheikh Jarrah, presto occupate da nuovi inquilini, i coloni ebrei. Le cause in tribunale divennero molteplici ma gli affittuari palestinesi non ebbero mai fortuna in quanto le loro opposizioni presentate davanti alla Corte Suprema si rivelarono quasi sempre prive di fondamento, perchè basate su documentazione giudicata presumibilmente inamissibile o non autentica dalla più alta istanza giudiziaria di Gerusalemme.
Tutto ciò non fece che alimentare il malcontento ancestrale delle comunità palestinesi verso gli ebrei e, talvolta, Israele venne apertamente osteggiata anche dall’ONU che vedeva in queste azioni, tipicamente contemplate (noi diremo) dal Codice Civile, un ostacolo nei confronti degli sforzi internazionali invece diretti a creare le condizioni ottimali per negoziati fruttuosi nella Road Map per la pace.
Agli inizi di maggio 2021, in occasione dell’ennesimo rinvio di giudizio da parte della Corte Suprema nelle ultime cause di sfratto rivolte ad alcune famiglie palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah, la tensione salì alle stelle costringendo così la polizia israeliana ad intervenire per soffocare le violenze venutesi a creare anche ad opera di attivisti internazionali e palestinesi intervenuti dall’esterno per impedire lo sgombero.
Contestualmente, nei giorni successivi, presso il Temple Mount, luogo sacro sia per i musulmani che per la maggior parte degli ebrei e giusto in concomitanza con la Qadr Night (osservata dai musulmani) e il Jerusalem Day (festa nazionale israeliana), i tafferugli quotidiani si sono trasformati rapidamente in scontri violentissimi con la polizia, intervenuta per frenare le rivolte, e che ha procurato un numero imprecisato di feriti sia tra i palestinesi che tra le fila della Mishteret Yisrael.
Quale strategia di contenimento della tensione, la marcia programmata per il Jerusalem Day, organizzata dai nazionalisti dell’estrema destra israeliana venne annullata, così come venne rinviata di 30 giorni l’applicazione della sentenza della Corte Suprema in tema di sfratti.
Tel Aviv fu minacciata pesantemente di un’ulteriore escalation militare se non si fosse ritirata immediatamente dalla Spianata delle Moschee e, non potendo questo avvenire per ragioni di ordine pubblico, a partire dalla sera del 10 maggio le sirene di allarme cominciarono a risuonare a Gerusalemme come di rado era mai avvenuto, dando così inizio ai lanci dei razzi e missili su Israele da parte delle organizzazioni terroristiche di Hamas e della Jihad islamica palestinese.
Le vere ragioni degli scontri ancora in corso potrebbero però essere anche di matrice squisitamente politica da ricercare all’interno dello stesso microcosmo palestinese
Ma c’è un’ulteriore variabile che spingerebbe a ricercare altrove le vere motivazioni del conflitto tra i palestinesi di Hamas e Israele.
Gli analisti internazionali dicono infatti che anche all’interno del mondo palestinese si sta vivendo una profonda crisi politica e sociale ulteriormente aggravata dalla pandemia da Covid-19.
Le probabili cause sono legate all’intensa divisione interna tra le anime che costituiscono il panorama politico palestinese, frammentarietà che ha determinato la preponderante ascesa di Hamas. Sono ancora vive infatti le fasi dell’acceso confronto tra i due partiti maggioritari di Fatah e Hamas e che hanno portato quest’ultimo a rovesciare l’Autorità Palestinese dai territori della striscia di Gaza che governava all’indomani del ritiro di Israele nel 2005, diventandone da allora il principale garante politico e militare.
Da qui i due governi, quello di Hamas a Gaza e quello dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, non sono più stati in grado di riconciliarsi. A nulla sono valsi i tentativi di risolvere la spaccatura da parte dei paesi arabi più “moderati” – in particolare Egitto e Arabia Saudita – in quanto né Hamas né Fatah hanno mai siglato i numerosi accordi di riconciliazione firmati invece dai leader arabi, di fatto allontanandosi sempre più da un percorso costruttivo comune.
Il mondo arabo è oltremodo esacerbato dai comportamenti violenti e guerrafondai di Hamas, ma soprattutto è profondamente preoccupato del legame stretto venutosi a creare tra questi con la Turchia e l’Iran, paesi che rappresentano una vera minaccia per tutti.
Infatti, oltre la crescente frustrazione dei leader arabi nei confronti dei palestinesi, Egitto, Arabia Saudita, Iraq ed Emirati Arabi Uniti, sono sempre più concentrati sulle sfide a livello interno dovute alla crisi politica, economica e sociale crescente, per di più peggiorata dalla pandemia da Covid-19 e, a livello regionale, monitorano da vicino le mire egemoniche di Turchia e Iran sul quadrante medio orientale e sul mediterraneo, nazioni sempre più al centro della scena tra le potenze arabe dominanti.
Questo insieme di concause ha per così dire svalutato la questione palestinese dall’agenda politica del mondo arabo. Lo provano alcuni fatti avvenuti nell’immediato passato. Nel 2018 i paesi arabi non hanno avuto alcuna reazione quando l’amministrazione dell’ex-Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha trasferito l’ambasciata USA a Gerusalemme, così come nel 2020 hanno accettato tacitamente il piano americano “Peace to Prosperity” come base per i negoziati che hanno portato i principali leader arabi e Israele a firmare gli “Accordi di Abramo” alla fine dello stesso anno.
Chi ha interesse allora ad alimentare il conflitto con Israele?
Il partito maggioritario di Fatah sta attraversando un momento topico di profonde divisioni al suo interno, dato che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, giornalisticamente noto come Abu Mazen, sta arrivando alla fine del suo mandato, e si è aperta dunque la corsa alla sua successione.
Per distrarre l’opinione pubblica dalle divisioni interne a Fatah, e per fronteggiare l’indisturbato crescere dei consensi di Hamas – soprattutto tra le giovani generazioni – Abbas ha giocato in un certo qual modo d’astuzia, annunciando il 29 aprile l’annullamento delle elezioni previste invece per la fine di maggio, perché in fondo preoccupato del fatto che in caso di scrutinio Hamas avrebbe certamente stravinto. Naturalmente anche il resto del mondo arabo e gli stessi Stati Uniti hanno pressato Abbas affinché si arrivasse ad un rinvio delle elezioni a data da destinarsi, per il bene comune e per la stabilità di questi territori.
Per giustificare il suo intendimento Abbas ha giocato la carta del nemico storico della causa palestinese, Israele. Secondo le fonti ufficiali il rinvio delle elezioni era dovuto al fatto che Israele non avrebbe mai acconsentito che i palestinesi di Gerusalemme votassero. Ciò non ha fatto che alimentare ulteriormente l’odio verso gli ebrei tanto che l’escalation di violenze non ha avuto più freni. Abbas però non ha valutato (o forse sì) che Tel Aviv avrebbe reagito pesantemente ad un attacco militare nei suoi territori.
D’altro canto alimentare il conflitto con Israele serve anche ad Hamas per “lavare le coscienze” dei palestinesi tutti, al fine di cancellare dalle loro memorie il pesante tributo di sangue versato dei propri fratelli – quelli dell’Autorità Palestinese – che furono massacrati con fredda determinazione dai militanti durante il colpo di stato che ha portato Hamas al governo della striscia di Gaza.
Inoltre Hamas mira evidentemente a guadagnarsi l’appellativo di custode della fratellanza musulmana, dove la resistenza armata è uno dei suoi pilastri fondamentali. Hamas ora si vuole porre come difensore militare dei palestinesi e di Gerusalemme. Ciò può essere un tornaconto per la sua immagine e ne aumenta la popolarità sia tra le nuove generazioni di palestinesi che tra quei paesi del mondo arabo, come la Turchia e l’Iran, che lo supportano.
L’Iran sostiene sia Hamas che la Jihad islamica, li addestra, finanzia e fornisce loro le armi e il know-how militare per produrre in autonomia razzi e missili che vengono usati contro gli obiettivi in Israele. Per l’Iran Hamas e la Jihad (così come Hezbollah in Libano) sono delegati naturali per portare la sua egemonia a livello regionale nel quadrante medio orientale, la così detta guerra per procura.
Ma Hamas e la Jihad palestinese hanno giocato male i propri piani per due ragioni. Da un lato hanno fatto affidamento sul fatto che avrebbero potuto fare fronte alla rappresaglia scontata di Israele, e dall’altro hanno creduto che la risposta armata di Tel Aviv sarebbe stata limitata ad un breve periodo di tempo ritenendo che essi non avrebbero mai proseguito le ostilità durante le festività musulmane che coincidono con la fine del periodo di ramadan (13 maggio).
Mentre l’escalation prosegue e la distruzione di Gaza aumenta (in parallelo con la sua capacità militare) si arriverà ad un punto dove i palestinesi si renderanno conto che Hamas li sta trascinando in un buio ed incerto futuro e che dovrà affrontare d’ora in poi condizioni di vita sempre più difficili.
Hamas e la Jihad non raggiungeranno mai un compromesso con Israele visto che hanno come obiettivo solo la morte e la distruzione dello stato ebraico, ed è per questo che la comunità internazionale, i paesi arabi moderati e gli stessi palestinesi devono fermare questa follia promuovendo al contempo un processo di dialogo e di compromesso che porti a soluzioni costruttive e produttive per tutti.