La rivalità fra Arabia Saudita e Iran e la politicizzazione storica dello scisma dell’Islam, risale al sesto secolo quando nacquero le divergenze sulla discendenza, sull’autorità politica del leader e l’interpretazione dei modi, delle leggi e della governance islamica.
La corsa al medesimo potere, rispettivamente di Iran e Arabia Saudita, si è manifestata nei secoli veicolando le diverse visioni dell’Islam, per il controllo del Medio Oriente. In particolare, gli sciiti Safavidi e i sunniti Ottomani si confrontarono in sanguinose lotte per il controllo dell’Iraq, il cui territorio richiamava due differenti identità religiose e storiche; la religione, in tale circostanza, veniva in realtà anche utilizzata per promuovere l’indipendenza persiana dai turchi.
La religione non veniva utilizzata per fini politici solo nelle lotte di potere all’interno della ummah islamica, ma anche per la difesa della stessa in un’epoca storica in cui gli europei controllavano i Paesi islamici dall’Indonesia alla Nigeria, e quelli non occupati, segnatamente Iran, l’Impero Ottomano, l’Afghanistan e il Marocco erano indirettamente sotto il controllo economico europeo. In tale circostanza, l’Islam rimase il legame primario fra arabi e impero Ottomano fino a quando Atatürk e Reza Shah Pahlavi secolarizzarono rispettivamente le società ottomane e iraniane promuovendo nuovi simboli dell’identità nazionale, separando lo stato dalla religione e favorendo la lealtà alla nazione e alle sue strutture secolari.
Dopo gli anni ‘70 quando ci si rese conto che l’indipendenza e il socialismo arabo non avevano portato il benessere tanto agognato, si affacciò una corrente di fondamentalismo islamico la cui manifestazione più drammatica fu la rivoluzione iraniana del 1979.
In particolare, la dimensione regionale di questa rivalità è da ascriversi alla politica dopo la rivoluzione iraniana quando furono messe in discussione le prerogative della casa saudita quale guida indiscussa dell’Islam. La rivoluzione, dunque, e il conseguente rifiorire dei movimenti islamisti sono fondamentali per comprendere la nascita della frattura lungo linee settarie della regione. Segnatamente, la rivoluzione khomeinista aveva galvanizzato il mondo islamico in generale, che, in una visione ecumenica pan-islamista, pensava ad un ritorno del califfato, così come evocato dal padre della rivoluzione, Ayatollah Ruhollah Khomeini, che spiegava in un suo discorso del 1989 che “La rivoluzione del popolo iraniano è solo l’inizio di un grande mondo dell’Islam.”
La visione ecumenica fu presto abbandonata e diversi Paesi a maggioranza sunnita e numerosi movimenti islamici iniziarono una campagna ostile allo sciismo, polarizzando il contrasto fra sciiti e sunniti in tutto il mondo islamico. L’esportazione della rivoluzione e il suo contenimento da parte sunnita hanno così alimentato il settarismo politico, che ancora adesso caratterizza il Medio Oriente e l’Asia centrale.
L’innesto in tal frattura degli Stati Uniti storicamente dalla parte Saudita e, conseguentemente, della Russia prima e della Cina più recentemente dalla parte iraniana hanno fatto rievocare le dinamiche di una nuova guerra fredda.
Le tensioni fra le parti in causa si sono manifestate dove la debolezza degli stati era maggiore ovvero lungo la storica linea di frattura materializzata geograficamente dalla “Mezzaluna sciita”. Lì il contrasto è stato agevolato dal sostegno logistico e militare russo ai Guardiani della rivoluzione, dall’accondiscendenza dello stesso nei confronti di Bashar al Assad e delle milizie hizbollah nelle loro interferenze anche violente nella vita del vicino Libano e negli attacchi a Israele.
Nel 2011, i Paesi della costa mediterranea dell’Africa, e poi tutto il Medio Oriente, hanno testimoniato ad una delle manifestazioni sociali di dissenso più radicali della loro storia: un vero punto di non ritorno della storia mediorientale. La scintilla è scoccata nell’entroterra povero della Tunisia nel dicembre del 2010 per contagiare, il mese successivo, la vicina Algeria e l’Egitto per diffondersi in tutto il Medio Oriente entro la fine di gennaio. Il 16 febbraio 2011 a Bengasi è stata organizzata una prima manifestazione, a favore di alcuni blogger arrestati dalla Polizia, che si è allargata, il giorno successivo, a buona parte della regione orientale della Cirenaica. In Siria, inizialmente, non vi era partecipazione delle grandi città alle manifestazioni; dopo i fatti del 15 marzo 2011, quando si sono registrati i primi morti nella città di Dara’a la situazione nel Paese è presto degenerata portando il Paese in tempi brevissimi alla guerra civile. Infine, il 3 giugno 2011, il presidente dello Yemen, Alì Abd Allah Saleh, è rimasto gravemente ferito da un attentato e le ustioni del 40% del corpo lo hanno costretto a ricorrere alle cure mediche in Arabia Saudita.
Ancora, la debolezza del fronte sunnita si è aggravata con la frattura diplomatica fra Arabia Saudita e Qatar del 2017, che ha visto l’Iran sostenere con la propria diplomazia e poi economicamente quest’ultima e la Turchia schierarsi militarmente aprendo una base militare e vanificando i piani d’invasione dei Paesi vicini; benché ricomposta da qualche mese con la riapertura degli spazi aerei, la crisi permane, malgrado il ristabilimento delle relazioni diplomatiche.
Alla Primavera araba, che qualcuno ha accostato alla Primavera dei popoli del 1848 in Europa, non seguirà un inverno arabo perché, malgrado le azioni controrivoluzionarie saudite per sopprimere le aspirazioni democratiche popolari come anche le iniziative dei Fratelli Musulmani sostenuti da Qatar e Turchia, i primi cambiamenti si sono visti soprattutto nel Maghreb.
Tuttavia, temperature più consone alla stagione non saranno ristabilite in tempi brevi; anzi, l’intervento nel 2016 della Turchia nella crisi siriana, aggravata nel 2020 dal sostegno aperto dell’Azerbaijan alla campagna di riconquista in Nagorno Karabakh ha aumentato decisamente i contrasti con l’Iran e allargato la crisi al Caucaso; l’intervento, peraltro, ha consentito alla Turchia di ricavarsi lo stretto corridoio che la collega all’Azerbaijan via Armenia attraverso l’enclave azera di Nakhchivan ai suoi confini, agevolando un contatto diretto con gli stati dell’Asia centrale attraverso l’Azerbaijan e il mar Caspio, senza mediazione iraniana.
Con questi presupposti, potremmo anche concordare con Falk che ipotizzava un periodo protratto di instabilità in cui si può immaginare anche un secondo ciclo di rivolte come reazione alle controrivoluzioni che hanno vanificato gli esiti della primavera araba. La strada verso la transizione è tuttavia ormai tracciata analogamente a quanto avvenne in Europa con la “Primavera dei Popoli” e l’Unione europea ha il massimo interesse nel sostenere tale transizione anche in considerazione della recente transizione demografica nel Nord Africa e ancora in atto nella regione sub-sahariana.
Non dimentichiamo, infine, che il Mediterraneo non è solo una area geografica, ma anche una zona di convergenza economica, dove la storia ci ha insegnato che dove le culture si incontrano, non solo si scontrano ma si fecondano reciprocamente.
In un’ottica più pragmatica, non sono passati inosservati i grandi sforzi russi per guadagnarsi i porti sulla costa siriana e gli ingenti flussi finanziari cinesi dedicati ai porti nel Mediterraneo; piuttosto, tali fenomeni dovrebbero far accantonare politiche basate su tatticismi di breve termine per favorire una visione che tenga maggiormente in considerazione la grande sfida strategica posta alla competitività economica europea oltre che al suo potere navale. Forse, ha ragione Lindborg quando afferma che è arrivato il momento di rivalutare la possibilità di una etica internazionale neorealista, accettando in maniera pragmatica le sue condizioni intrinseche e resistendo alla tentazione di trascenderle nella speranza di realizzare degli ideali etici universali.