Il proselitismo di questi anni, in sostanza, si prodiga massimamente nella radicalizzazione di soggetti già di religione islamica e in altra parte a convertire coloro che islamici non lo sono.
Perché è un errore storico dire che il fenomeno dei “foreign fighters” sia recente, lo è semmai la sua emersione per via della grande attenzione mediatica riservata alle partenze verso lo Stato islamico, Siria e Iraq, ma negli anni passati moltissimi si sono allontanati dalle proprie terre per combattere altrove. Senza andare troppo indietro e rimanendo in ambiti che si possono ancora visivamente ricordare, possiamo citare l’esempio dell’Afghanistan con la “anti-Soviet Jihad”, ovvero quell’insieme di forze combattenti straniere radunatesi nel Paese dal 1979 in poi per aiutare i mujaheddin afghani contro l’invasione sovietica.Come non citare la Bosnia nel 1992, durante la guerra dell’ex Jugoslavia, dove affluirono moltissimi combattenti da Paesi islamici, fra cui l’Afghanistan, dove erano rimasti parecchi foreign fighters che poi in parte si diressero verso i Balcani. Un documento del CSIS (Center for Strategic and International Studies), in cui vengono analizzati alcuni case studies sui foreign fighters, spiega che “come in Afghanistan, le organizzazioni musulmane finanziarono il movimento degli stranieri in Bosnia. L’Al Kifah Refugee Center di Brooklyn, New York – si legge – ha raccolto fondi negli Stati Uniti per le organizzazioni guidate da bin Laden e Azzam durante la guerra afgana e ha subito ridisegnato le sue attività in Bosnia.
La natura multinazionale dei combattenti e la loro identità musulmana unificatrice hanno contribuito a creare un nuovo senso di identità islamista e di unità per i musulmani bosniaci al fianco dei quali hanno combattuto” . Come si può intuire, facendo un breve ma efficace raffronto con la realtà odierna del proselitismo, della radicalizzazione e in questo caso delle partenze verso la terra di jihad siriana e irachena, le similitudini sono lampanti. Da quando è scoppiata la guerra contro l’Isis , le cronache quotidiane si sono letteralmente riempite di notizie riguardanti imam, sedicenti o veri, personaggi delle comunità e jihadisti veri e propri che sono stati arrestati e/o espulsi per aver praticato sul territorio nazionale attività di proselitismo ai fini terroristici.
L’attività di proselitismo e radicalizzazione che avviene nei Paesi europei alla luce di una consapevolezza che è massimamente utile per studiare il fenomeno: accade da sempre e sempre con le stesse modalità. Si badi bene, non si vuole sminuire il ruolo del web nei processi di radicalizzazione e proselitismo, bensì rendere chiaro come esso sia uno strumento che agisce in maniera massificata, nutrendosi di quella che è la propaganda jihadista ed estremista che singoli riversano su altri singoli nella realtà quotidiana.
La forza della rete è quella che il proselitismo, specie quello legato all’Isis, ha sfruttato al massimo: rendere ogni navigatore sul web un potenziale bersaglio di brain washing, a distanza e senza necessità di spostarsi. La presenza, ingente e spesso sottovalutata di materiale oggetto di proselitismo jihadista su Internet ha permesso poi che si venisse a creare un ampio e ancor più incontrollabile fenomeno riconducibile alle cosiddette “autoradicalizzazioni”, che non vedono presenza fisica né virtuale di proselitisti che hanno però fatto in modo di piazzarcela al punto giusto tutta quella roba sul web.
Ogni persona che cerchi un passaggio diverso oppure la semplice e chiara esplicazione dei propri odi e rancori trova sulla rete materiale che gli permette di divenire in breve tempo un jihadista che non ha alcun bisogno di altri per compiere quel che ritiene nella sua testa doveroso: fare a sua volta proselitismo per il jihad oppure andare lui stesso a farlo, in Siria oppure in Occidente.
Il meccanismo che sta alla base del proselitismo radicalista face to face è ugualmente complesso e vale la pena di accennare alcuni aspetti salienti; quello che comunemente viene chiamato “indottrinamento” del jihadista è costruito grazie a slogan e parole d’ordine che vanno a toccare nel profondo, nei punti più delicati della psiche, sostenuti da stereotipi e dalla somministrazione di stimoli.
Il soggetto che viene sottoposto a questo processo di radicalizzazione sperimenta su di sé un brain washing continuo, incessante, che si traduce in un vero e proprio lavaggio del cervello il cui l’obiettivo è chiaro: manipolare e destrutturare i suoi processi mentali.
Il radicalizzato è sottoposto a una manipolazione psicologica basata su tecniche di comunicazione persuasive. Qui entriamo nel campo delle neuroscienze, visto che la persona in questione vede la sua mente sostanzialmente “riprogrammata” grazie all’eliminazione, scientifica e spesso forzata, delle idee che fino a quel momento si erano consolidate nel suo essere. Che vengono via via sostituite con quel che vediamo e leggiamo oggi in occasione di ogni attentato in Europa o minaccia jihadista. Studi psicologici accurati hanno spiegato come nella maggior parte dei casi la deradicalizzazione di un jihadista risulti quasi impossibile o di una difficoltà estrema, poiché le sue convinzioni diventano solidissime, rinforzate da stimoli assai intensi.