Il neo presidente degli Usa, Joe Biden gela le relazioni con Israele. La tradizione storica che si protrae da 40 anni di relazioni tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico, infatti, è stata interrotta da Joe Biden, primo presidente americano a non avere ancora preso contatto con i leader di Gerusalemme dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. L’omissione del neo presidente, in palese contrasto con il passato, potrebbe preludere a quattro anni di gelo nelle relazioni tra l’America e il suo principale alleato del Medio Oriente: Israele.
Nei giorni successivi al suo insediamento, Biden ha provveduto a contattare diversi leader mondiali, tra cui il presidente russo Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping, ma non il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, discostandosi dalla tradizione che dalla presidenza di Ronald Reagan, nel 1981, vedeva ogni neo presidente confrontarsi con la controparte israeliana nei primi giorni di incarico.
Alcuni membri del Congresso hanno criticato l’atteggiamento di Biden nei confronti l’omologo israeliano, innescando polemiche manifestatesi con una raffica di domande poste dai giornalisti durante una conferenza tenuta dall’addetto stampa della Casa Bianca, Jen Psaki, che non ha comunque rivelato quando o se Biden chiamerà il leader israeliano. Inoltre, ad una specifica domanda di una giornalista presente alla conferenza stampa, Psaki aveva anticipato che venerdì, nella successiva conferenza stampa, la Casa Bianca non avrebbe elencato Israele come Paese alleato degli Stati Uniti.
“Non sono sicuro del motivo per cui il presidente Biden ha già chiamato i leader mondiali di altre 10 nazioni, compresa la Cina, ma non si è ancora preso la briga di parlare con Israele”, ha dichiarato giovedì scorso Mark Green, membro della Camera dei rappresentanti per il Tennessee, al Washington Free Beacon, aggiungendo che “Israele merita di essere trattato con rispetto da ogni leader mondiale, specialmente dal presidente degli Stati Uniti”.
Mentre Ronny Jackson (R., Texas), membro della Commissione affari esteri della Camera, ha chiesto: “Cosa sta evitando il presidente Biden? Il rapporto americano-israeliano è vitale per la nostra sicurezza nazionale per una serie di ragioni – ha detto Jackson al Free Beacon – Esorto il presidente Biden a ignorare la sinistra radicale nel suo partito e dare una forte dimostrazione di sostegno alla nostra partnership con Israele chiamando il primo ministro Netanyahu”.
In effetti, risulta difficile ignorare la crescente preoccupazione negli ambienti dell’amministrazione destata da questo improvviso, quanto inaspettato, cambiamento nelle relazioni con Israele palesato dal presidente Biden.
Il presidente Usa ha di fatto interrotto, senza apparenti motivazioni, il tradizionale amichevole rapporto con la leadership di Gerusalemme, ponendo seri dubbi anche circa la continuità dell’alleanza e tutela della sicurezza dello Stato ebraico.
La debole diplomazia di Biden si palesa in un momento critico per Israele che deve affrontare, nel suo quasi isolamento, minacce terroristiche imminenti e il pericolo di un Iran armato di armi nucleari.
Un rapporto dell’intelligence israeliana prevede, infatti, che l’Iran cercherà di usare i suoi “delegati” in Medio Oriente per fare pressione sulla nuova amministrazione statunitense affinché torni all’accordo nucleare del 2015 e stima che Teheran tenterà di imporre la sua influenza su Washington, probabilmente utilizzando gruppi sciiti contigui al Regime degli ayatollah, per effettuare attacchi contro “obiettivi occidentali” per spostare l’attenzione dalla continuazione del suo programma nucleare.
Secondo la valutazione israeliana, l’Iran punterà a rafforzare la sua posizione negoziale creando instabilità in Medio Oriente attraverso i suoi alleati e i gruppi che agiscono per “procura”.
Teheran ha come scopo la modifica dell’accordo nucleare prima di conformarsi ai suoi termini usando le sue “armi”, come Hezbollah in Libano e i miliziani in Siria, oltre ai suoi alleati in Iraq, Yemen e Striscia di Gaza per fare pressione su Washington, secondo quanto riferito dall’AFP.
L’Iran tenterà di dimostrare le sue capacità nonostante i duri colpi incassati nel 2020, osserva il rapporto, citando la morte del generale Qassem Soleimani in un attacco aereo statunitense vicino a Baghdad a gennaio e quella del massimo scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh vicino a Teheran a novembre.
Le contromosse strategiche di Israele
Israele è stato assai critico con il Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) del 2015 negoziato tra le potenze mondiali e l’Iran, che, secondo i presupposti, avrebbe dovuto porre un freno alle ambizioni nucleari di Teheran in cambio di incentivi economici. Un freno che Teheran non ha mai schiacciato.
Gerusalemme, in tale avversa circostanza, ha ritenuto di sostenere la campagna di “massima pressione” dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, contro Teheran dopo il ritiro di Washington dall’accordo nel 2018.
Alla fine del mese scorso, preso atto della continuazione dell’arricchimento dell’uranio iraniano, il capo dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, ha dichiarato che sono in corso nuove pianificazioni strategiche per contrastare le capacità nucleari di Teheran.
La valutazione dell’intelligence israeliana riporta che l’Iran e i suoi alleati, in particolare Hezbollah, continuano comunque a minacciare Israele lungo il confine settentrionale dove l’esercito israeliano ha ripetutamente rilevato numerosi tentativi di attacchi transfrontalieri da parte di combattenti sostenuti dall’Iran in Siria, da Hezbollah in Libano e da altri gruppi.
“Il deficit di deterrenza all’interno dell’asse sciita richiede una risposta e potrebbe minare la stabilità nell’arena settentrionale”, ha detto un alto comandante militare israeliano a condizione di anonimato, riferendosi alle possibili conseguenze di un’azione militare israeliana nella regione.
“La minaccia per procura (dell’Iran, ndr) in Iraq e Yemen è una soluzione economica ed efficace per l’Iran per effettuare attacchi senza rischiare una guerra”, ha osservato il comandante secondo il quale “nel prossimo anno, Teheran potrebbe tornare a lanciare attacchi terroristici contro obiettivi occidentali in tutto il mondo, pur mantenendo la copertura”, quest’ultima fornita dai gruppi sciiti alleati e delegati alle azioni.
Inoltre, l’Ufficiale israeliano ha sottolineato che “gli accordi di Abramo”, la serie di patti mediati da Trump in base ai quali Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan si sono normalizzati legati a Israele, indicavano un “cambiamento sistematico” in atto in Medio Oriente ed i legami più stretti tra Israele e gli stati arabi che cercano di contrastare l’influenza di Teheran offrono “una significativa opportunità per aumentare la pressione sull’Iran”.
I massimi vertici militari dello Stato ebraico hanno inoltre evidenziato un ulteriore potenziamento della capacità scientifica dell’Iran.”Ha compiuto progressi significativi nella raccolta di materiale fissile e nell’adozione di misure avanzate in materia di ricerca e sviluppo – ha dichiarato un alto funzionario militare – Sebbene gli accordi possano impedire la raccolta di materiale fissile, alcuni progetti di ricerca e sviluppo sono irreversibili”. In effetti dal mese di gennaio, l’Iran ha dichiarato di aver iniziato ad arricchire l’uranio al 20%, ben oltre la soglia stabilita nell’accordo per il nucleare.
Il “nuovo corso” di Biden scatena polemiche
Tutto questo induce a dubitare seriamente sul sostegno dell’amministrazione Biden ad Israele, in un momento in cui la sicurezza ne viene minata. Da qui la rilevanza dell’omessa chiamata di Biden a Netanyahu che riporta alle mente l’ex presidente Barack Obama, che lasciò un’ombra sui rapporti con Israele, viaggiando durante le sue prime 16 settimane di mandato in Turchia, Arabia Saudita ed Egitto, ma aggirando apertamente Israele. Quell’itinerario, con il senno del poi, la diceva lunga sulla rottura dell’amministrazione con quella precedente e su come Washington, sotto Obama, stesse riadattando la sua politica estera.
In contrapposizione alla gestione Obama, la prima impressione che Donald Trump ha lasciato su Israele era stata più che positiva. Infatti, il primo ministro Benjamin Netanyahu è stata la terza chiamata effettuata dal tycoon a un leader straniero dopo essere entrato in carica, un segnale che il gelido rapporto che esisteva tra Netanyahu e l’amministrazione Obama era oramai un ricordo del passato. Questo aveva prospettato una’ampia gamma di spunti positivi sui rapporti futuri degli Usa con Israele.
Ma la mancata chiamata a Netanyahu è solo una parte di un insieme di segnali che la neo-amministrazione Usa ha inviato nelle sue prime tre settimane di attività, fornendo l’impressione di un aperto ed intenzionale affronto verso Israele. Se questo è l’esordio di una politica che accompagnerà il rapporto tra Netanyahu e Biden, la visione si presenta decisamente pessimistica.
“Quelle prime tre settimane – ha detto Eran Lerman, ex vicedirettore del Consiglio di sicurezza nazionale e attualmente vicepresidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security – sono state un miscuglio di alcune azioni e dichiarazioni molto preoccupanti”.
“Questa non è un’amministrazione anti-israeliana – ha comunque affermato Lerman – Non per Biden, non per Kamala Harris, non per Antony Blinken, e sicuramente non per il segretario alla Difesa Lloyd Austin”. Ma, ha aggiunto, che molti israeliani considerano Rob Malley, il diplomatico veterano che Biden ha scelto come suo uomo di punta per i rapporti con l’Iran, come “un problema”. La ragione, ha specificato l’ex direttore generale del ministero degli Esteri, Dore Gold, capo del Jerusalem Center for Public Affairs, è che Malley “è sempre stata una persona che ha esplorato l’America ampliando le sue relazioni con elementi più radicali, inclusi gli islamisti”.
L’editorialista del New York Times ed ex redattore capo del Jerusalem Post, Bret Stephens, durante un webinar del Consiglio ebraico per gli affari pubblici tenutosi questa settimana, ha dichiarato che le persone che hanno seguito la carriera di Malley “sanno che è molto intelligente, molto esperto nella regione, ma le cui sentenze, un esempio lampante è rappresentato dal suo consiglio a Obama, di ammorbidire sostanzialmente Bashar Assad, si sono rivelate un disastro sia strategico che umanitario con ripercussioni che si protraggono da tempo”.
Il passo falso di Biden con gli Houthi
Il passo più preoccupante intrapreso dalla nuova amministrazione nell’area del Medio Oriente, secondo Eran Lerman, è stata, comunque, la decisione di revocare la decisione di Mike Pompeo, adottata nell’ultimo giorno del mandato di Trump, di designare gli Houthi nello Yemen come organizzazione terroristica.
“Gli Houthi sono un gruppo di criminali iraniani con un’ideologia apertamente antisemita – ha detto – Abbiamo motivi per essere preoccupati per questa decisione e per il senso di abbandono che i sauditi potrebbero provare”.
Due giorni dopo l’annunciata inversione di tendenza da parte dell’amministrazione Biden, in perfetto rapporto di causa/effetto, gli Houthi si sono infatti assunti la responsabilità dell’attacco condotto contro un aeroporto saudita con l’utilizzo di droni, seguitando, ad oggi, a lanciare missili contro il territorio Saudita neutralizzati dal sistema antimissile Patriot in dotazione alle forze di Riad.
Anche con questo passo falso, ha detto Lerman, i primi giorni dell’amministrazione non rappresentano che un sintomo “dell’oscurità che scende su di noi e Biden farebbe bene a non gettare via gli aspetti positivi dell’eredità di Trump “, primo fra tutti gli accordi di Abramo.
Un avviso forse tardivo per una deriva politica segnata da svolte inaspettate e da un ritorno ad antiche tensioni in perfetto stile di guerra fredda anche con la Russia di Putin, ricordiamolo non l’Urss, ma la Russia…