Proliferazione nucleare: l’Iran si dimostra inaffidabile.
In questi giorni la stampa mondiale ha titolato con enfasi che l’Iran ha iniziato a produrre uranio metallico e che potrebbe potenzialmente utilizzarlo nella costruzione di un ordigno nucleare.
Ma veniamo ai fatti. Mercoledì di questa settimana un rapporto dell’Aiea – l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ha riferito che gli ispettori Onu, incaricati di controllare lo stato dell’arte sulle ricerche atomiche in Iran, hanno rilevato che una piccola quantità di uranio metallico (pochi grammi) era stata prodotta nello stabilimento di Esfahan, violando di fatto i termini dell’accordo internazionale sul nucleare del 2015.
L‘uranio metallico è tipicamente prodotto da una miscela di isotopi di uranio a basso arricchimento e questo materiale può essere utilizzato sia come combustibile per reattori atomici che producono energia elettrica, che per armi nucleari, in particolare nel guscio di una testata nucleare.
Ora, è utile tornare indietro di qualche anno ed illustrare una breve cronistoria degli eventi che hanno caratterizzato i rapporti internazionali con l’Iran in questo breve periodo.
Nel luglio 2015, l’Iran e altri sei paesi – Usa, Francia, Regno Unito, Cina, Russia più la Germania (i cosiddetti P5 + 1 ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania) – raggiunsero uno storico accordo chiamato Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), meglio noto come Piano d’azione globale congiunto, che consentì all’Iran di avere abbastanza uranio arricchito per mantenere il fabbisogno energetico del paese, ma senza possederne la capacità di sviluppare armi nucleari. In cambio Teheran avrebbe avuto la revoca delle sanzioni economiche internazionali. Inoltre, l’Iran accettò di dare accesso ai suoi impianti nucleari agli ispettori dell’Aiea.
Nel gennaio 2016, dopo che Teheran ebbe dato prova di rispettare i termini dell’accordo, tutte le sanzioni internazionali vigenti contro l’Iran prima del JCPOA, imposte dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (risoluzione 1747), furono revocate.
Nello specifico, l’Iran accettò di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas per tredici anni. Per i successivi quindici anni l’Iran non avrebbe potuto arricchire l’uranio oltre il 3,67%, e pattuì di non costruire alcun nuovo reattore nucleare ad acqua pesante nello stesso periodo di tempo. Inoltre, le attività di arricchimento dell’uranio sarebbero state limitate ad un singolo impianto, utilizzando centrifughe di prima generazione per dieci anni, mentre altri impianti avrebbero dovuto essere convertiti per evitare il rischio di proliferazione nucleare.
I rapporti internazionali tra Usa e Iran erano però destinati a deteriorarsi velocemente. Quando il JCPOA si concluse nel 2015, fu ampiamente celebrato come un importante risultato diplomatico, ma in molti a Washington (principalmente leader conservatori) ritenevano che l’accordo sul nucleare iraniano non fosse ancora sufficiente da limitarne la capacità di Teheran di sviluppare armi nucleari. Le scadenze fissate dall’accordo decadranno e quando questo avverrà nulla impedirebbe all’Iran di sviluppare rapidamente un’arma nucleare. Inoltre, nulla è stato fatto affinchè venissero contemplati, all’interno dell’accordo, restrizioni sui programmi missilistici iraniani e nelle loro politiche regionali. Gli Usa vorrebbero ridiscutere il JCPOA.
Il 5 novembre 2018 gli Stati Uniti (appoggiati da Israele), con Donald Trump, unilateralmente uscirono dall’Accordo e ripristinarono le sanzioni economiche contro Teheran, al fine di indurre il regime iraniano a cessare la propria attività destabilizzante nel quadrante medio orientale, in particolare l’appoggio a Bashar Al-Assad in Siria, alla milizia sciita di Hezbollah in Libano e all’opposizione yemenita nella guerra civile in corso. Le sanzioni colpirono soprattutto la produzione petrolifera, le banche, nonchè svariate personalità di spicco della politica iraniana tra cui lo stesso Ali Khamenei ed il ministro degli Esteri Zarif.
L’Iran reagì con veemenza contro il mancato rispetto del JCPOA da parte degli Stati Uniti e nel 2019 annunciò a tutti i firmatari dell’Accordo che avrebbe ricominciato l’arricchimento dell’Uranio al 5%. Ma non solo, i comportamenti di Teheran violarono in molte forme i termini dell’accordo sul nucleare del 2015 (ad esempio: aumentando le scorte di uranio oltre i limiti imposti, sviluppando centrifughe più avanzate per permettere l’arricchimento dell’uranio molto più velocemente, eliminando tutti i limiti alla ricerca e sviluppo, rimettendo in servizio un migliaio di centrifughe che erano state dismesse a seguito dell’accordo, ecc.).
L’anno successivo, in gennaio, a seguito dell’uccisione del Generale Soleimani, la situazione divenne sempre più critica e l’Iran minacciò di proseguire l’arricchimento dell’uranio senza più nessuna restrizione, permettendo comunque ancora l’accesso agli ispettori dell’Aiea.
In agosto dello stesso anno, anche a seguito delle continue violazioni del JCPOA da parte di Teheran, la richiesta fatta dagli Usa all’Onu e all’Ue di estendere l’embargo sulle armi a tempo indeterminato (in scadenza ad ottobre 2020) contro l’Iran non venne però accolta.
A questo punto gli Stati Uniti, in completo disaccordo con Onu e Ue, e non potendo imporre le sanzioni Onu previgenti prima dell’Accordo di non proliferazione nucleare del 2015, decisero di colpire l’intero settore finanziario iraniano escludendolo anche dal commercio di cibo e medicinali.
Nei mesi seguenti, anche il rapporto degli ispettori dell’Aiea rilevò il mancato rispetto dell’accordo da parte dell’Iran in molte sue parti.
In novembre ci fu l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, il “padre” del programma nucleare iraniano, con il presunto coinvolgimento dei servizi segreti israeliani, e Teheran, accusando la comunità internazionale di non aver condannato l’attentato, minacciò di portare in breve l’arricchimento dell’uranio al 20% e di vietare l’ingresso nel paese agli ispettori dell’Onu nel caso le sanzioni Usa non fossero state ritirate.
Ma a quanto pare, nemmeno la volontà e l’intento del neo Presidente Usa, Joe Biden, spinto anche dagli altri firmatari dell’accordo, di voler ripristinare, anche rinegoziandoli, i termini del JCPOA ha sortito gli effetti sperati.
A gennaio di quest’anno Teheran aveva annunciato di voler proseguire, nonostante tutto, i suoi piani di ricerca e sviluppo sulla produzione dell’uranio metallico al fine, a detta loro, di progettare un tipo di combustibile particolarmente performante nella produzione di energia elettrica. Ma Germania, Francia e Regno Unito appaiono profondamente preoccupati in quanto non credono ad un uso civile credibile dell’uranio metallico e resta il fatto che la sua produzione ha delle implicazioni potenzialmente pericolose proprio perchè è un materiale chiave che può essere utilizzato nella produzione di armi nucleari e per questo è vietato espressamente dall’accordo del 2015.
Ma allora, considerato tutto, è lecito chiedersi: quanto può essere credibile e affidabile un paese come l’Iran?
Si potrebbe ritenere, infine, che Teheran ha sempre utilizzato le sistematiche violazioni dell’accordo del 2015, esclusivamente per fare pressione su tutti gli altri firmatari del JCPOA al fine di ottenere incentivi e finanziamenti per compensare le sanzioni che hanno paralizzato l’economia iraniana, inflitte dagli Stati Uniti dopo il loro ritiro dal trattato?