Per la prima volta da decenni uno dei candidati con serie chance di arrivare alla Casa Bianca, Donald Trump, mette in discussione le fondamenta della politica estera americana, dall’approccio interventista da “poliziotto globale” alla secolare spinta per il libero commercio internazionale. L’ultimo candidato alla presidenza con una piattaforma isolazionista fu George W. Bush nel 2000, dopo anni di interventismo democratico clintoniano. Ma l’11 settembre 2001 cambiò tutto.
Una rottura tanto marcata rispetto al ruolo guida dell’America, che è proprio l’establishment di politica estera del partito repubblicano a guidare il fronte #NeverTrump. Persino neocon e realisti, da anni in competizione per influenzarne la politica estera, sembrano aver siglato una tregua per far fronte al nemico comune. Hillary Clinton, in campo democratico, rappresenta invece la continuità. Da first lady sostenne l’intervento nei Balcani, da senatrice votò la guerra in Iraq e da segretario di Stato pianificò la campagna libica. E fu il marito Bill a firmare l’accordo per il libero scambio nordamericano tra Stati Uniti, Canada e Messico (Nafta), così duramente contestato da Trump (“ha distrutto” l’industria americana).
Il miliardario newyorkese sta interpretando il senso di insicurezza e le paure crescenti di milioni di americani, non solo di destra. Paure che mai come oggi forse sembrano coincidere con quelle che attraversano l’Europa: immigrazione, pericolo islamico, globalizzazione minacciano il senso di identità sia nazionale, culturale, che economico-sociale.
“L’America non vince più. Perde contro la Cina, contro il Giappone, contro il Messico, contro il resto del mondo”, è l’allarme di Trump, che accusa Pechino di “stuprare” gli Stati Uniti con la sua politica commerciale e monetaria: manipolando la sua moneta rende le esportazioni più competitive a danno dei lavoratori americani. Trump si difende dalle accuse di protezionismo: “Sono completamente a favore del libero commercio”, ma il gioco dev’essere “corretto”. Colpa di politici incapaci che hanno negoziato accordi di libero commercio dannosi.
Posizioni che trovano molti consensi anche a sinistra. L’idea di fondo è che con la globalizzazione Stati Uniti e Paesi europei si siano aperti a una concorrenza sleale e ad una penetrazione economica e commerciale da parte di paesi, come la Cina appunto, che per rendere competitivi i propri prodotti svalutano la moneta e tengono bassi i costi di produzione comprimendo diritti umani e sociali, a livelli inaccettabili per l’Occidente. Per quanta flessibilità si possa introdurre nel mercato del lavoro – e quello americano è già molto più flessibile del nostro – conviene sempre di più delocalizzare la produzione in quei paesi. Ne deriva una trasformazione del nostro tessuto economico e sociale che accresce il senso di precarietà e di insicurezza. Aree enormi e persino interi stati americani (ma anche europei) hanno già perso o stanno perdendo la propria identità manufatturiera. Qualcosa di più profondo che un semplice tasso di disoccupazione (negli Usa non così elevato).
Ma Trump mette in discussione anche la presenza degli Stati Uniti nella Nato, sulla base di un argomento non proprio infondato: perché dovremmo spendere per la difesa dell’Europa più di quanto spendono i Paesi europei stessi, collettivamente più ricchi e popolosi dell’America?
Lo stesso Trump si rende conto di dover apparire più credibile in politica estera e la settimana scorsa ha incontrato l’ex segretario di stato Henry Kissinger, passato alla storia come l’artefice, durante la presidenza Nixon, dell’apertura alla Cina, oggetto degli strali proprio di Trump. Se i vertici e i principali donatori del Gop non sono ancora pronti a concedergli il sostegno ufficiale del partito, i negoziati sono ormai avviati, con il miliardario che forte del consenso popolare raccolto, e degli ultimi sondaggi che lo danno in rimonta sulla Clinton, può trattare da una posizione di forza. Raramente abbiamo visto confrontarsi per la Casa Bianca due visioni di politica estera così distanti, quasi agli antipodi, il che rende la scelta degli americani ancora più del solito gravida di conseguenze per noi europei.