L’aumento dell’inflazione negli Stati Uniti sarà un “game changer” per il mondo eccessivamente finanziarizzato che abbiamo conosciuto negli ultimi 8 anni. Con le prospettive reali di un’inflazione americana oltre al 2% (a causa della salita dei prezzi energetici), risulterà pressochè impossibile nel medio termine mantenere tassi a zero. Non possiamo non vedere già oggi la prospettica salita dei valori dell’inflazione core per cui da qui a fine anno soprattutto negli Usa – dove non si fa austerità, per loro fortuna – i tassi dovranno salire. Si noti bene il dettaglio: la salita dei tassi avverrà certamente dopo la fine del mandato di Barack Obama, lasciando al prossimo presidente le conseguenze materiali dell’evento. Sempre la solita strategia Dem nella sostanza di una crisi spostata più avanti, quasi una copia carbone di quanto accadde successivamente alla fine del mandato dell’ultimo presidente democratico, Bill Clinton.
Poi abbiamo il probabile Brexit che potrà dare l’opportunità ai paesi europeriferici di trovare una piattaforma monetaria alternativa a quella dell’euro. Ossia, in assenza della capacità di tornare alla propria valuta da parte dei PIIGS, ossia dei paesi che più stanno soffrendo dall’austerità imposta da Berlino all’Unione europea per suo esclusivo vantaggio, la sterlina post Brexit potrebbe rappresentare una piattaforma monetaria alternativa (anche temporanea) in comunione con paesi meno proni all’austerità, nel caso del Regno Unito. L’Italia, per le affinità storiche con Londra, sarà la prima candidata all’uscita, anche in considerazione delle enormi potenzialità inespresse da Roma bloccata nell’euro (ricordiamo che ancora oggi l’Italia, sebbene in progressivo indebolimento, è il principale competitor manifatturiero continentale della Germania).
Il punto è che, vista la salita dei prezzi energetici, l’aumento dei tassi Usa ci sarà e comporterà una modifica della percezione dello scenario macro. Necessariamente, l’aumento dei tassi Usa sarà inferiore all’aumento dell’inflazione comportando a termine una svalutazione del dollaro per una vera e propria (voluta) perdita del potere d’acquisito. Questo, evitando parallelamente una salita del biglietto verde contro le altre valute, comporterà comunque una forma di stagflazione (aumento dei tassi in presenza di bassa crescita) che si riverbererà soprattutto sui mercati europei e soprattutto su quelli aventi un debito grande e finanziarizzato. In una parola, l’Italia, il paese che avrebbe più da soffrire da un aumento dei tassi globali.
Se poi aggiungiamo che Roma oggi ha anche un enorme problema di sicurezza sistemica con gli immigrati, i debiti bancari inesigibili, i conti sempre in bilico secondo i rigidi parametri Ue e con l’inaccettabile austerità tedesca, la faccenda diventa esplosiva. Un eventuale Brexit, unitamente ad un cambio di presidenza Usa, magari in veste repubblicana, comporterebbe uno sconquasso finanziario con tassi in salita e dunque soprattutto per quei paesi con problemi di conti pubblici e di debito alto. Da qui la necessità di cambiamento, che potrebbe facilmente rappresentare la fine dell’esperimento (fallimentare) della moneta unica in certe aree periferiche dell’EU. Ad esempio, con tassi italiani al 4% e quindi con l’implosione del sistema Italia (pensioni tagliate o anche non pagate, PIL in contrazione, inflazione in aumento ossia tasse in aumento, possibile confisca di beni ecc.), che indirizzo prenderebbe il Belpaese?
In questo contesto il Brexit sarebbe il necessario innesco della fine dell’Unione europea tedesca, via Italia. Vedremo, i fatti sono quelli sopra citati, aspettiamo gli eventi in Gran Bretagna e Stati Uniti.