Cosa cambierà nella politica estera degli Stati Uniti con l’insediamento di Joe Biden?
L’arrivo di Biden al momento è un’incognita per il Medio Oriente perché potrebbe riportare la politica estera ai livelli dell’amministrazione Obama che, al netto della retorica mainstream, non ha stabilizzato l’area. Obama, infatti, ha portato avanti un dialogo con l’Iran per quanto riguarda la questione del nucleare. Ma è palese che si è trattato solo di un’operazione di facciata appoggiata dall’Europa che altro non ha prodotto che un accrescimento dell’impegno iraniano nell’arricchimento dell’uranio, in modo occulto e senza timore di ritorsioni. L’analisi sulle tensioni in Medio Oriente, però, non può prescindere anche dalla questione Israelo-palestinese. Gli Accordi di Abramo (firmati tra Israele, Emirati Arabi e Baherin) rappresentano il punto di svolta per la normalizzazione dei rapporti. Un vero e proprio accordo di pace dunque, che potrebbe essere esteso anche all’Arabia Saudita.
Come Joe Biden gestirà questa situazione, anche in funzione dei rapporti tra Stati Uniti e Iran è la vera incognita della prossima amministrazione americana. Il Partito Democratico, c’è da chiedersi, si prenderà la responsabilità di annullare gli Accordi di Abramo? Sotto la spinta di una vocazione guerrafondaia che ha sempre caratterizzato non solo i democratici americani (ma ancora bisogna capire come Barack Obama ad esempio, celebrato dalla sinistra tutta, possa aver ricevuto il Nobel per la pace nonostante la guerra in Siria, il supporto all’Arabia Saudita per l’attacco militare in Yemen, l’aumento del numero di militari americani in Afghanistan e l’assenza di una strategia di uscita dall’Iraq), il timore di una destabilizzazione di tali accordi e di un cambio nella relazioni tra Usa e Iran appare fondato.
Lo prova è il blitz segreto di Benjamin Netanyahu in Arabia Saudita avvenuto nei giorni scorsi. Un fatto storico, ma che racconta i timori di un cambio di passo Usa non solo all’interno di Israele, ma anche tra i Paesi arabi coinvolti negli accordi. La volontà di isolare l’Iran, infatti, non è prerogativa solo dello Stato ebraico. La necessità di porre un freno al pericolo rappresentato dal regime degli ayatollah è condiviso da altri in Medio Oriente.
Teheran, nonostante l’accordo sul nucleare, ha continuato sulla strada dell’arricchimento al punto che dopo il ritiro dai trattati da parte degli Usa di Donald Trump, avvenuto nel 2015, l’Iran ha fatto sapere di sentirsi autorizzato a proseguire sulla strada dell’arricchimento nucleare. In realtà, fonti plurime sostengono che l’Iran non abbia mai smesso di lavorare per produrre un’arma nucleare. E a settembre, il rapporto dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha segnalato che “le riserve di uranio a basso arricchimento dell’Iran hanno raggiunto un livello 10 volte superiore a quello consentito dall’accordo sul nucleare”, del 2015. Quindi, nonostante dall’accordo si siano ritirati solo gli Stati Uniti, mentre gli altri Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu non lo hanno fatto, l’Iran ha approfittato della posizione dell’America per avere una sorta di giustificazione alle operazioni di arricchimento dell’uranio.
La complicata questione Iran: prima prova per la politica estera di Biden
Nei giorni scorsi il Capo dell’unità speciale al Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Ismail Kaani, ha tenuto diversi incontri con i leader della regione. Primo tra questi, a Baghdad si è tenuto un vertice tra il primo ministro iracheno Mustafa al Kazim e successivamente a Damasco e Beirut, con il presidente siriano Bashar al Assad e Hasan Nasrallah, leader di Hezbollah. Citando funzionari iracheni, l’Associated press ha affermato che Ismail Kaani avrebbe chiesto agli alleati nella regione di astenersi da azioni provocatorie contro i militari statunitensi stanziati nella zona per non dare adito a ritorsioni militari contro l’Iran che il presidente uscente Donald Trump aveva pubblicamente preannunciato.
Per al Arabiya, il comandante della forza Quds, Ismail Kaani, in un incontro con i leader politici e i leader dei gruppi militanti di mobilitazione popolare iracheni, ha chiesto loro di astenersi temporaneamente da qualsiasi azione che possa fare alzare la tensione nella regione, stabilendo un cessate il fuoco con gli Stati Uniti per valutare le intenzioni e le prospettive offerte dall’insediamento del neo presidente Biden. In parallelo, con le iniziative di tregua iraniane, la fazione sciita Houthi ”Ansar Allah” ha attaccato l’impianto della compagnia petrolifera nazionale dell’Arabia Saudita, Saudi Aramco, nella città portuale saudita di Gedda con missili Quds 2, forniti da Teheran. Alcuni morti e feriti e danni ritenuti ingenti agli impianti di raffinazione dell’oro nero. Al momento dell’attacco, il Segretario di Stato americano Pompeo era in visita in Arabia Saudita.
In Siria non va meglio
E se nella Penisola arabica le tensioni sono palesi senza soluzione di continuità, non va meglio in Siria dove le milizie iraniane sono riapparse provocatoriamente, con esercitazioni e celebrazioni nella regione orientale della Siria, nonostante le richieste di Israele e Usa di mantenere l’Iran furi dalla regione e dalla minaccia di aumentare le frequenze dei raid mirati contro Pasdaran e truppe regolari di Teheran. La Brigata Abu al-Fadl al-Abbas, affiliata alla milizia iraniana “Fatemiyoun”, nella provincia di Deir Ezzor nella Siria orientale, la scorsa settimana ha riferito di avere completato la costruzione di un campo di addestramento nella regione per aumentare l’influenza della milizia iraniana, oltre a presiedere alle celebrazioni popolari, sponsorizzate dall’Iran, in di Qassem Soleimani, sepolto nella città di Albu Kamal. La milizia ha inoltre intrapreso operazioni di reclutamento nella regione orientale, seguendo diversi approcci. Tra questi “metodi” il più importante è la diffusione del credo sciita nelle scuole, concentrandosi sui bambini e crescendoli con l’ideologia islamista per poterli successivamente integrare nelle milizie iraniane. Secondariamente la milizia ha coltivato la radicalizzazione della popolazione locale con donazioni di denaro, sfruttando lo stato di povertà della regione, e fornendo assistenza “caritatevole” per invitare all’adesione ideologica e proponendo il reclutamento stipendiato. Un metodo già seguito anche in Iraq che ha rimpinguato le fila dei miliziani. La “Fatemiyoun” è una delle milizie iraniane che combattono a fianco di Assad in Siria. Sono combattenti anche afghani, reclutati dall’Iran, e rappresentano una forza “spettrale” composta da migliaia di ben addestrati combattenti, che sono una minaccia per i paesi in cui l’Iran è presente, come Iraq, Siria e Afghanistan. Dall’inizio della rivoluzione siriana nel 2011, l’Iran ha lavorato per formare dozzine di milizie composte da combattenti sia locali che stranieri per combattere al fianco del suo alleato Assad in Siria, sotto il nome di “Jihad islamica” e sotto la copertura della protezione da offrire alle Sacre terre dell’Islam.
L’agenda di Israele per gli ultimi giorni del “migliore amico” alla Casa bianca
Due questioni rimangono, infatti, nell’agenda di Israele per gli ultimi giorni del “migliore amico di Israele” alla Casa Bianca. Il primo è un possibile attacco statunitense all’infrastruttura del programma nucleare iraniano. Il secondo sono le sanzioni all’Iran che, se riapprovate, vanificherebbero le intenzioni dichiarate dell’amministrazione Biden di adottare misure di rafforzamento della fiducia nei confronti dell’Iran al fine di negoziare un nuovo accordo nucleare. Secondo quanto riferito dal Times of Israel, gli Usa e il Paese ebraico stanno pianificando di condurre “operazioni segrete” e aumentare la pressione su Teheran durante gli ultimi giorni in carica del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. E per il canale televisivo israeliano 13, Israele e Stati Uniti ritengono che, comunque, l’Iran non intraprenderà alcuna azione militare in risposta a qualsiasi attacco prima della fine dell’era di Trump.
I funzionari a Gerusalemme non vedono comunque prospettive per un attacco degli Stati Uniti, specialmente dopo l’insolita dichiarazione del 12 novembre del generale Mark Milley, presidente del Joint Chiefs of Staff, che ha detto: “Non prestiamo giuramento a un re o una regina, un tiranno o un dittatore. … Facciamo un giuramento alla Costituzione”. Pertanto, l’unica opzione rimasta a Israele è quella di premere su Trump per le sanzioni, una questione emersa anche durante i recenti colloqui di Pompeo con Netanyahu e Ashkenazi.
Gli obiettivi dell’amministrazione Trump in Iran
L’obiettivo dell’amministrazione Usa uscente è quello di dissuadere gli iraniani dall’aumentare il livello di arricchimento dell’uranio e lo sviluppo di nuove centrifughe che arricchiscono l’uranio fino a otto volte la velocità delle vecchie centrifughe. Fonti delle intelligence statunitense, israeliana ed europea temono che l’Iran stia per compiere una “mossa di sfida” che lo condurrà all’avanzamento significativo verso la produzione di armi nucleari nel periodo che precede l’inaugurazione di Biden, per mettere alla prova il nuovo presidente e fare pressione su di lui per soddisfare le richieste di revoca delle sanzioni. Durante la sua recente visita a Gerusalemme, Mike Pompeo ha dichiarato ai suoi interlocutori israeliani che gli Stati Uniti erano determinati a impedire una simile mossa. Circa due settimane fa, ha affermato che Teheran continua a violare i termini dell’accordo nucleare, e le fughe di notizie hanno permesso ai giornalisti di affermare che i consiglieri del presidente lo avevano dissuaso con grande difficoltà dai piani di bombardamento dell’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz.
Un altro obiettivo dell’amministrazione Trump è quello di consolidare e armare l’asse anti-Iran nella regione del Golfo Persico, di cui Israele fa ora parte. La visita del primo ministro Benjamin Netanyahu in Arabia Saudita, e il suo incontro con Pompeo e il principe ereditario saudita Muhammad bin Salman, fanno parte di questa strategia. Si può presumere, con altissima probabilità, che l’incontro non porterà alla normalizzazione o ad un accordo di pace tra Arabia Saudita e Israele. Bin Salman si direbbe assai interessato, ma il vecchio re Salman bin ‘Abd al-‘Aziz gli si opporrebbe. Infatti, il vecchio monarca insiste sul fatto che il conflitto israelo-palestinese deve essere risolto prima che l’Arabia Saudita normalizzi ufficialmente le sue relazioni con Israele. Questo è anche il motivo per cui il triplo incontro non si è svolto nella capitale saudita Riyadh, ma nella città costiera di Red Sea Speech. Un incontro riservato che non può essere considerato un atto ufficiale di riconoscimento di Israele, ma la visita “segreta” trapelata serve bene sia all’immagine di Netanyahu che a quella di Bin Salman.
Sono quindi tante, forse troppe, le incognite che pesano sul futuro della politica estera degli Stati Uniti nella regione Mediorientale. Un atteggiamento troppo soft di Biden nei confronti di Teheran potrebbe condurre gli iraniani alla convinzione di poter continuare nell’arricchimento dell’uranio e all’evoluzione dei sistemi di armamento missilistici a discapito della sicurezza di Israele e, a questo punto, anche dell’Arabia Saudita. L’estrema ratio per Israele sarebbe rappresentata dal lancio di attacchi direttamente sul suolo iraniano, con il rischio però di un’escalation militare che innescherebbe un conflitto dalle dimensioni inimmaginabili.
D’altra parte gli Usa non potrebbero certo “perdere la faccia” di fronte a Israele, Paese da sempre amico e stretto alleato degli americani. A fronte degli ottimi risultati ottenuti dall’amministrazione Trump, soprattutto riguardo la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita, Emirati arabi e Bahrein con Israele e a una politica estera che durante la gestione Trump non ha condotto ad alcun nuovo conflitto, fatto quasi inedito. Bisognerà valutare il neo presidente Biden proprio di fronte a queste grandi sfide. Ne sarà all’altezza?
*** a cura di Francesca Musacchio e Davide Racca