Dopo la decapitazione del professore francese, come sempre dopo un attacco terroristico di matrice islamista, governi, commentatori e opinione pubblica si scoprono allarmati da quanto accaduto e dal rischio rappresentato dall’Islam radicale. Passato lo sconcerto e dopo fiumi di retorica, l’argomento viene relegato nel cassetto della memoria fino al prossimo orrore. E anche questa volta, l’assassinio del professore francese, la cui unica colpa è stata quella di mostrare una vignetta di Charlie Hebdo per difendere la libertà di espressione, verrà ben presto dimenticato.
Dalle Torri Gemelle in poi, gli attacchi terroristici che si sono succeduti non ci hanno insegnato nulla. A distanza di 20 anni, e dopo decine e decine di attentati che hanno causato vittime e dolore, la retorica sulla gestione dell’Islam radicale non è cambiata. Nulla è stato fatto per fermare la violenza che porta un culto ossessivo e distorto. La politica occidentale ha permesso la contrapposizione tra mondo libero e fanatismo, lasciando che il secondo dettasse le regole del gioco senza opporsi. E questo per assecondare in primis gli interessi economici derivanti dai rapporti con Paesi tra i quali il Qatar, noto sponsor del terrorismo islamista.
Il flusso di migranti, che da aree fortemente islamizzate arriva nel cosiddetto “mondo libero”, ha lentamente ma progressivamente inserito nel tessuto sociale occidentale un sistema di vita e pensiero che mina le basi non solo della democrazia, ma soprattutto della sicurezza.
Nessuno si è opposto. La retorica su accoglienza e libertà di culto ha soffocato ogni azione tesa all’integrazione di coloro che ormai vivono nelle nostre città. Sia ben chiaro: al migrante che decide di vivere (per motivi economici o altro) in un Paese straniero non deve essere imposto di rinnegare le proprie origini. Al contrario. Bisogna esigere, però, il rispetto delle regole vigenti in quello Stato. La libertà d’espressione, di culto e qualsiasi altra libertà non sono oggetto di trattativa, o almeno non dovrebbero esserlo. Ma lo sono quotidianamente. Diventano oggetto di scambio tutte le volte in cui si permette all’Islam radicale (o a qualsiasi altro autoritarismo) di diffondere il terrore nelle nostre città.
La Francia è uno degli esempi di questa stortura. Il grande, laico e accogliente Paese transalpino (dopo anni di colonialismo sfrontato ) è saturo di elementi che rappresentano vere e proprie bombe pronte ad attivarsi in ogni momento. Il presidente francese, Emmanuel Macron, già all’inizio del 2020 ha annunciato pubblicamente di aver dichiarato guerra al “separatismo islamico”. Il 21 febbraio 2020, su queste pagine, abbiamo commentato la presa di posizione di Macron (che, forse per scopi elettorali o perché il livello di rischio è ormai altissimo), ha avuto un sussulto di coscienza.
Dopo decenni di integrazione mancata e tolleranza senza ricevere nulla in cambio, gli illuminati francesi si rendono conto che qualcosa gli sta sfuggendo di mano. Si rendono conto che aver permesso a 80.000 studenti di imparare la lingua del loro paese di origine attraverso un sistema chiamato Elco (che di fatto ha previsto che l’insegnamento fosse portato avanti da docenti inviati appunto dai paesi d’origine, ma che non parlavano francese e che sfuggivano al controllo del sistema scolastico nazionale) non ha portato buoni frutti. I francesi si sono anche resi conto che accettare che ogni anno, durante il Ramadan, sul territorio nazionale circa 300 imam itineranti (tabligh), che girano in lungo e in largo per le moschee predicando ciò che vogliono, non è stata una forma di democrazia e tolleranza. Ma è stato il metodo per consentire lo sviluppo del radicalismo islamico in casa. Da qualche anno il problema è esploso in tutta la sua drammaticità e adesso la Francia è costretta a correre ai ripari. Ma forse è troppo tardi.