In quest’estate di paradossi, di ex comunisti padani che diventano neocomunisti romani, di Botteghe oscure che cambiano marciapiede e di alleanze di amici lontani diventati vicini, quell’amore scoppiato tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi, ovvero delle due icone di questa seconda Repubblica, che pare non morire mai, è certamente il paradigma più interessante di una politica italiana risvegliatasi assai confusa dopo tre mesi di lockdown.
Se le elezioni del 1994, le prime con il maggioritario dai tempi di Mussolini, segnarono definitivamente il sorgere di quella stessa classe politica che ancora governa il Paese. Circa la nascita della terza Repubblica, pur annunciata più volte, non ne abbiamo avuto ancora notizia.
Prodi e Berlusconi sono stati gli unici leader a vincere le elezioni secondo i parametri moderni delle democrazie occidentali e a raccogliere, pur tra mille contestazioni, attorno alla loro leadership milioni di voti per le rispettive coalizioni: consensi mai più visti, con numeri impossibili da raggiungere oggi per qualsiasi partito. Per questo entrambi hanno puntato al Quirinale, e chissà, magari ci puntano ancora.
Certo è che questa sinergia attorno al Mes rivela quanto l’Italia stia sostanzialmente scivolando verso posizioni eurocritiche ben diffuse, non solo nella Lega e nel M5S. Il tutto mentre le vecchie forze dell’establishment un po’ per cultura, un po’ per appartenenza, tendono invece a far fronte comune attorno al “partito di Draghi” o al “governo Ursula”, sostenendo senza mezzi termini la necessità di una adesione da parte dell’Italia. Ma questa unità di vedute tra l’ex leader del centrodestra e il Pd, la creatura voluta da Prodi dalle ceneri dell’Ulivo, non si esaurisce solo sul fronte economico. Il sostegno alla Commissione europea della Von der Leyen, per esempio, eletta, va ricordato, con i voti decisivi di parte del M5S. Oppure sul necessario superamento, chiesto dall’Europa e dai paesi “falchi” della famigerata “quota 100”, un passo indietro rispetto alla legge Fornero che, comunque la si pensi, allineava la legislazione previdenziale a quella seguita da gran parte dell’Europa comunitaria. E infine la libertà di impresa. Si è spesso detto che al tempo del tandem Bersani-Letta, il Pd sembrasse molto più liberale di quanto non fossero alcune forze politiche che del liberismo facevano il loro campione.
E poi, sullo sfondo, un doppio esperimento comunque già testato. Il primo, un governo di larghe intese, quello Letta, la cui esperienza si esaurì sotto i colpi prima della sentenza di Cassazione che condannò Berlusconi nel “processo Mediaset” e poi a causa delle mire renziane alla leadership del partito e del governo: quell’”Enrico stai sereno” è rimasto celebre, forse ancor più dell’annuncio di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta al referendum del 2017. Ma ancora, l’alchimia che potrebbe guidare questo nuovo patto tra Prodi e Berlusconi risiede su una convenzione costituzionale ormai superata: la rielezione di un Presidente della Repubblica in carica. Le condizioni che imposero la rielezione drammatica di Napolitano nel 2013, appoggiata da Bersani, Berlusconi, Monti e la Lega, sembrano pressoché le stesse di quelle che si porranno all’indomani della scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Una crisi economica devastante, un quadro politico frammentato, l’assenza di personalità di peso in grado di ricompattare il Parlamento, il motore di questa Repubblica sempre più in panne.
Se davvero sarà Mattarella il successore di sé stesso, questo sarà un capolavoro proprio a firma di Prodi e Berlusconi che, magari nominati subito dopo senatori a vita, potranno così fregiarsi, assieme, di quel titolo di padre della Patria che entrambi hanno bramato ma che le divisioni feroci di quegli anni hanno negato a uno e all’altro.
Sarebbe la definitiva riconciliazione che rispecchierebbe quella che vide Togliatti e Einaudi, Nenni e De Gasperi, porre fine alle lacerazioni del passato per fondare qualcosa di nuovo. E di duraturo. Staremo a vedere.