L’Isis ritenuto sconfitto, conquista l’Africa e punta all’Europa. La propaganda buonista occidentale può veramente indurre la popolazione alla sottovalutazione di fenomeni che comportano seri rischi per l’incolumità dei cittadini europei e, più in generale, a livello globale. Il classico provincialismo dell’informazione “di regime”, concentrata più su beghe interne che su un panorama a largo spettro sulle vicende internazionali che, comunque, prima o poi ci vedranno coinvolti in modo inconsapevole, ha provocato un deciso calo dell’attenzione sul fenomeno del terrorismo islamista che si allarga, incontrastato ed a macchia d’olio nel Continente africano dal quale continuiamo a raccogliere individui che di profughi hanno ben poco, con i conseguenti rischi per la nostra sicurezza.
Il rafforzamento dei gruppi jihadisti in nord Africa e nel Sahel
È un dato scontato che dovrebbe indurre a riflettere sulle varie campagne di reclutamento, più o meno volontario, di ignari cittadini africani al fine di costituire milizie che operano in loco, ma con il chiaro obiettivo di riprendere gli attacchi contro l’Occidente mediante l’invio di operativi sotto le mentite spoglie di “migranti” da soccorrere, sfamare, ospitare e, magari, regolarizzare.
Il panorama è desolante, ma per capire i rischi che l’Europa sta correndo occorre sottolineare i punti salienti della situazione nel Continente nero. A mero titolo di esempio rileviamo come l’Isis, nel caso specifico rinominato in Iswap, si stia rafforzando nella Nigeria nord-orientale minacciando di prendere di mira i civili che aiutano le organizzazioni militari o addirittura quelle umanitarie.
Lo Stato islamico nella provincia dell’Africa occidentale (Iswap)
Separatosi da Boko Haram nel 2016, a seguito di una disputa sulla leadership e la scelta del Daesh di attaccare obiettivi civili come moschee e mercati, l’Iswap è apparso indebolito all’inizio di quest’anno come affermato da Nnamdi Obasi, consulente senior per la Nigeria presso l’International Crisis Group. Ma dall’inizio del mese di luglio l’Iswap si è reso responsabile dell’uccisione di più di 120 persone in una sola settimana, di cui 40 a Monguno, una città che ospita circa 150.000 sfollati e una base umanitaria delle Nazioni Unite le cui forze di sicurezza hanno respinto i jihadisti solo dopo ore di combattimenti. “Il nuovo attacco ora suggerisce che c’è un nuovo bagliore nella loro violenza”, ha detto Obasi.
Seppur frazionato dal recente scisma con Boko Haram, l’Iswap può contare su circa 5.000 combattenti, secondo un rapporto dell’International Crisis Group del 2019. Al contrario dello Stato Islamico, Boko Haram si è concentrato sull’attacco di unità militari, prendendo di mira soldati in operazioni di guardia o di pattuglia non disdegnando, comunque, gli attentati suicidi spesso eseguiti da giovani donne indottrinate al credo islamista.
La rinnovata spinta dello Stato islamico nella Provincia dell’Africa occidentale arriva successivamente agli importanti successi ottenuti dalle forze di sicurezza contro gli estremisti nel nordest del Paese africano. L’esercito nigeriano e la forza di sicurezza multinazionale hanno, infatti, preso di mira le basi operative del gruppo, come affermato da Kabiru Adamu, un consulente per la sicurezza con sede in Nigeria. Quelle vittorie sono da attribuire, in parte, all’aiuto di comunità sempre più disposte ad aiutare i militari nella speranza di poter porre fine alla violenza che ha inghiottito la regione per più di un decennio.
Tutto ciò ha portato la Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico ad annunciare un cambiamento nella tattica che minaccia di approfondire la crisi. Alcuni volantini lasciati sulle scene dei recenti attacchi hanno avvertito i civili che potrebbero essere considerati dei bersagli se scoperti a fornire informazioni ai militari. È un cambiamento marcato per il gruppo, che fino ad ora ha risparmiato i residenti musulmani fintanto che promettono fedeltà e pagano tasse che vengono loro imposte illegalmente, ha affermato Bunu Malam-Kolo, capo di un gruppo di difesa locale che cerca di proteggere i civili nello stato nordorientale del Borno. Un ulteriore esempio, è fornito dalla “caccia” a nuove conquiste territoriali propagandata dall’apparato mediatico dello Stato islamico, che intende indurre ad un’intensa ricerca di nuovi territori al di fuori delle aree centrali del Daesh in Iraq e Siria, in particolare nel continente africano. Nella newsletter Al-Naba, l’Isis fornisce rapporti settimanali dettagliati sugli attacchi in diverse località africane.
La nuova leadership sembra voler continuare la vecchia e ben collaudata strategia dello Stato islamico volta a sfruttare l’instabilità e le dinamiche dei conflitti nelle aree locali
Quando le forze di sicurezza locali si rivelano deboli, aumenta il numero di jihadisti, una strategia dominante utilizzata in Iraq durante i primi anni di vita dell’organizzazione. Questo stesso modello è stato riprodotto in Mozambico, Burkina Faso, Niger e Mali. La caccia a nuovi territori ha portato l’Isis ad espandersi anche nell’Asia meridionale e, sebbene l’analisi non sia in grado di sostenere se il suo interesse per l’India sia aumentato rispetto ai periodi precedenti, la leadership dell’Isis ha comunque inteso produrre e propagandare una rivista specifica a livello regionale, “Sawt al-Hind”, nell’intento di radicalizzare e mobilitare i musulmani che subiscono l’oppressione in India. All’interno del neonato magazine, i lettori possono ottenere consigli su come usare le mani nude per lanciare oggetti pesanti dagli edifici, usare coltelli da cucina, asce e martelli per attaccare i loro nemici o investirli con un veicolo in movimento. Questo, tuttavia, non è solo il caso di Sawt al-Hind: un numero enorme di forum di chat jihadisti fornisce consigli simili.
Tutto ciò è il segnale che, mentre l’Isis sta intensificando gli attacchi e tenta di radicalizzare le minoranze musulmane nel mondo, non ha ancora le risorse per orchestrare gli attacchi coordinati in Occidente da parte della sua amministrazione centrale, motivo per cui, per ora, la jihad “indipendente e individuale” è la via da seguire .
Spostando l’obiettivo sul Sahel, possiamo rilevare come l’eliminazione del leader algerino di Al Qaeda nel Maghreb islamico, Droukdal Abdelmalek, alias Abou Moussab Abdelwadoud, avvenuta nel giugno scorso nel nord del Mali grazie a un attacco condotto dalle forze francesi dislocate nel Paese, non abbia sortito gli effetti sperati se non un’ulteriore frammentazione del gruppo in cellule ridislocate sugli itinerari che conducono nel Fezzan.
Inoltre, i messaggi di condoglianze giunti a Aqmi da parte di altre fazioni islamiste, tra tutti gli Sha’abab somali, sono risultati ricolmi di desiderio di vendetta contro la Francia e l’Occidente colpevoli di un nuovo tentativo di colonizzazione dell’Africa centrale.
La neutralizzazione di Droukdal Abdelmalek, segue a breve quella del principale leader di Aqmi, Abu Iyadh, alias di Seifallah ben Hassine, ucciso da un raid dell’esercito francese in Mali, nel febbraio di quest’anno.
Abou Iyadh è stato il fondatore di Ansar al-Sharia, il principale gruppo jihadista tunisino vicino ad al-Qaeda, accusato di aver orchestrato nel 2013 gli omicidi dell’avversario Chokri Belaïd e del vice Mohamed Brahmi, nonché attacchi alle forze tunisine.
Rilasciato tre mesi dopo la rivoluzione del 2011 come parte di un’amnistia generale, fondò Ansar al-Sharia, prima tollerato sotto il governo guidato dagli islamisti di Ennahda, poi classificato come “terrorista” sia in Tunisia che negli Stati Uniti.
In particolare, Abou Iyadh è stato accusato di aver organizzato l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti a Tunisi nel settembre 2012 per poi fuggire prima in Libia e successivamente nel Mali.
Veterano di Al Qaeda in Afghanistan, aveva co-fondato il gruppo combattente tunisino in Afghanistan, che aveva giuyrato fedeltà a Oussama bin Laden e organizzato l’attentato suicida, condotto da falsi giornalisti usando una telecamera intrappolata, contro il comandante Massoud, leader della resistenza afghana, il 9 settembre 2001, due giorni prima degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono negli Stati Uniti.
Sia Droukdal che Seifallah, avevano stretti legami con le cellule terroristiche operanti in Europa e in special modo nel nord Italia dove furono sgominate da successive operazioni di Polizia che portarono all’arresto dei responsabili, tra i quali i tunisini Essid Sami ben Khemais e Mehdi Kammoun che, dopo un periodo di detenzione nelle carceri della Penisola, vennero estradati in Tunisia dove ripresero le loro attività terroristiche seguite alla rivoluzione dei gelsomini.
Nel citato Fezzan, il 30 maggio scorso, l’Isis ha rivendicato un attacco missilistico contro l’aeroporto di Tananhint, in uso alle forze del Gna legate a Serraj. L’episodio ha trovato spazio nel magazine Al Naba che ha ripreso la notizia collegandola a precedenti attacchi decorsi nel medesimo periodo contro le forze libiche, dopo diversi mesi di inattività da parte delle milizie del Califfato islamico.
Il gruppo, inoltre, ha pubblicizzato sul web alcuni filmati girati nel sud della Libia che riprendono i suoi miliziani che percorrono le strade alla ricerca di “infedeli” muovendosi liberamente in pieno giorno.
E sempre nel sud della Libia, nelle ultime 48 ore sono stati registrati altri 74 nuovi contagi da coronavirus, che portano a 1.342 il totale dei casi confermati nel Paese.
Lo ha reso noto nella giornata di ieri il Centro nazionale libico per il controllo delle malattie sulla propria pagina Facebook, precisando che i morti salgono a 38, i guariti a 307 e le persone attualmente positive da 906 a 997. La maggior parte dei casi si registra al Sud, con molti contagiati anche tra il personale sanitario. L’ospedale di Ubari, nella Libia meridionale, ha sospeso le sue attività per 48 ore dopo il contagio di un membro dello staff risultato positivo al coronavirus. A parere di alcune agenzie legate all’Onu, i dati sugli infettati da coronavirus potrebbero essere più alti, considerata la scarsa capacità del Paese di condurre test su larga scala.
Una situazione drammatica e in divenire che può facilmente essere posta in relazione con la volontà, palesata dallo Stato islamico, di sfruttare la pandemia per colpire l’Occidente con nuovi contagi provocati dal continuo flusso di clandestini verso il sud dell’Europa. I confini libici sono notoriamente permeati dai traffici di illegali provenienti dagli itinerari che dal Ciad e dal Niger conducono al Fezzan, ovviamente incontrollati e selezionati dalle milizie islamiste per il successivo invio sulle coste libiche e tunisine e l’imbarco verso le coste siciliane.
A Ghat, al confine con l’Algeria, avevamo individuato e segnalato il principale centro di smistamento di illegali gestito dagli islamisti. Trovandosi completamente al di fuori del controllo delle forze fedeli sia al Gna sia all’Lna, i trafficanti non trovano alcun ostacolo nella preziosa gestione dell’enorme massa di risorse umane che quotidianamente giungono dal Sahel nel sud del Maghreb diretti verso l’Europa. Un traffico ostacolato unicamente dalle forze di sicurezza tunisine che, di volta in volta, provvedono a chiudere i valichi di confine con la Libia e a svolgere accurati controlli finalizzati reprimere l’afflusso di clandestini sia in chiave anti-terrorismo che contro il rischio di contagio da Coronavirus.
L’avvento delle forze di occupazione turche (affiancate all’armata Brancaleone di al Sarraj, composta per lo più da ex miliziani jihadisti e criminali comuni), ha posto l’ulteriore problematica della supremazia della fratellanza musulmana ottenuta in buona parte del Maghreb con i rischi connessi alla gestione dell’immigrazione clandestina dalle coste libiche e ai continui ricatti contro l’Europa da parte di Erdogan.
Il tutto non fa altro che spianare la strada a una seria ricostituzione dello Stato islamico con le sue filiali nel Sahel in vista di una più che probabile stagione di riscossa jihadista con attacchi contro interessi occidentali in Africa e, probabilmente, nel cuore dell’ Europa.
*Si ringrazia per la preziosa collaborazione María del Pilar Rangel Rojas, Spagna – Direttore del corso per esperti e analisti del terrorismo jihadista presso l’Università internazionale dell’Andalusia