Con un doppio capo di imputazione, passato senza difficoltà alla Camera dei Rappresentanti, Donald Trump è da ieri il terzo presidente degli Stati Uniti, dopo i democratici Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, a subire l’impeachment, il più grave dei processi politici ancora in vigore negli ordinamenti moderni.
Le accuse a Trump
Due le accuse votate dalla Camera, presieduta da Nancy Pelosi, nei confronti del Presidente: abuso di potere e ostruzione al Congresso. Non c’è bisogno di ricordare il significato di una decisione del genere nella più antica e stabile democrazia d’Occidente: l’impeachment è infatti l’unica vera arma a disposizione del potere legislativo americano per indebolire o – nel caso di stabili maggioranze in entrambe le camere – per rimuovere il capo di Stato o di Governo (che negli Stati Uniti è la stessa persona), all’interno di un sistema politico che non prevedendo l’istituto della fiducia, come in Italia o in Spagna, è costretto a ricorrere alla bomba atomica processuale.
Il grado di popolarità di Trump è balzato al 49%
Di giudiziario, in questa vicenda che la stessa Pelosi ha definito triste per gli Stati Uniti, c’è molto poco. Viceversa molto c’è di politico, esattamente come accadde per Johnson e Clinton. Non è un caso che Richard Nixon, l’unico Presidente accusato di violazioni da un punto di vista strettamente giuridico, si dimise immediatamente prima del voto della Camera, talmente scontato appariva il responso che sarebbe seguito. Da qui si può spiegare la relativa tranquillità di Trump che, forte di una corposa maggioranza repubblicana al Senato, non solo non appare scalfito da questa prima votazione, ma addirittura sembra crescere in popolarità. All’opinione pubblica americana, esclusa quella più attenta della East Coast e della California, storiche roccaforti democratiche, poco o nulla importa delle vicende che investono il Presidente. È impressionante come, di fronte ad un processo così dirompente per la credibilità di un Capo di Stato, il grado di popolarità di Trump sia addirittura balzata al 49%, ben sette punti in più rispetto a pochi giorni fa. Per Clinton, all’epoca accusato di aver mentito al Congresso sulle note vicende del sexgate, accadde più o meno la stessa cosa: se nel 2000 avesse potuto ricandidarsi, e i sondaggi dell’epoca lo confermarono, avrebbe vinto contro George W. Bush con un margine non indifferente.
La pallottola processuale è ormai un’arma spuntata, anche in Italia
Questa storia americana, in realtà anche in Italia la conosciamo bene. Le note vicende giudiziarie che riguardarono, per oltre 15 anni, l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, non incisero minimamente nella sua popolarità: con decine di processi pendenti, Berlusconi, riuscì comunque, unico nella storia d’Italia, a vincere le elezioni per tre volte. La pallottola processuale, è ormai un’arma spuntata. Da Tangentopoli in poi, nel nostro Paese, come in gran parte del mondo occidentale, le vicende giudiziarie dei politici non influiscono più sulle fortune elettorali dei diretti coinvolti. E la comunicazione politica pare averlo compreso: Matteo Salvini che in modo spavaldo apre, in diretta social, la busta che contiene un avviso di garanzia a suo carico la dice lunga su quanto la via giudiziaria sia ormai ben lungi dal mutare, come accadeva un tempo, l’opinione delle grandi masse. Di processi, di accuse, insomma, non si muore più. E se pure qualche toga sembra essersene accorta, viste le sonore bocciature che gli elettori hanno riservato a qualche magistrato che ha deciso di impegnarsi in politica, una buona parte dell’elettorato rimane convinto che il tribunale sia il miglior sostituto dell’urna. Fortuna che, da oltreoceano, stia arrivando l’ennesima lezione in senso opposto. God Save America.