Tutto, pure la Brexit, ma non Jeremy Corbyn. È questo il responso, maledettamente severo, che il Regno Unito ha riservato ai laburisti e ad un leader ancorato su ricette economiche e sociali che avrebbero fatto impallidire pure il PCUS degli anni ‘80. Nonostante tutti i sondaggi abbiano certificato ancora che la maggioranza dei britannici sarebbe pronta a voltare le spalle alla Brexit e a rimanere ancorati all’Unione Europea, questa notte il più antieuropeo degli antieuropeisti, Boris Jonhson, grazie ad un mandato popolare fortissimo, riesce ad ottenere ciò in cui Theresa May aveva clamorosamente fallito e, con una maggioranza a valanga, l’ex sindaco di Londra stravince queste inedite elezioni generali natalizie, apprestandosi a portare a compimento l’agognata Brexit a tutti i costi.
Nonostante i numeri lapalissiani, il verdetto dei britannici non era affatto scontato. Con buona parte del Paese ancora non del tutto convinta della convenienza di un’uscita dall’Unione Europea, Boris Johnson, inviso anche a molti dei suoi, rappresentava uno spauracchio pure per molti elettori moderati. Ma stavolta a mancare è stata una vera e propria opposizione alle idee di BoJo. I laburisti, piuttosto che intestarsi la grande battaglia della resistenza alla Brexit, hanno invece puntato, nella patria del libero mercato e del liberismo, su proposte economiche come espropri e nazionalizzazioni. Nemmeno Tsipras era arrivato a tanto.
L’opposizione alla Brexit, lasciata ai soli pochi e sparuti liberal-democratici, è dunque scomparsa dall’agenda politica, come un approdo scontato senza possibilità di ripensamento, senza reali alternative. E i laburisti di Corbyn, che pure erano andati vicinissimi alla vittoria solo due anni fa contro la May, hanno invece consegnato alle cronache il peggior risultato della loro storia recente: mai così male dal 1935.
Va detto che la tendenza dei maggiori partiti della sinistra a segnare i record più negativi è ormai un fattore fisso delle ultime tornate elettorali generali francesi, tedesche, italiane e, appunto, britanniche. Segno evidente che la tradizione socialdemocratica pura, Spagna e Svezia a parte, in Europa è avviata verso il declino. E non basta lo spostamento a sinistra o al centro delle ricette politiche: gli elettori, qualunque sia il verso dell’oscillazione del pendolo socialista, tendono ormai a bocciare sonoramente la sinistra del vecchio continente, senza che un’area alternativa alla destra, liberale o sovranista che sia, riesca a riorganizzarsi sotto diverse forme o spoglie.
Un mandato granitico per il leave in un Paese a maggioranza remain è forse l’ultima delle contraddizioni di questa eterna crisi del vecchio sistema europeo: siamo pronti a tutto – sembrano dire gli elettori del Vecchio continente – ma non a premiare la sinistra.
Da domani, da oggi, inizieranno i processi a questo o a quel leader. Ma se di sentenze se ne prevedono già molte, delle soluzioni non possiamo dire altrettanto. Di certo c’è che non è bastato rinnegare il new Lab, a trazione liberista, per una riconversione sulla via delle proposte novecentesche. Chi si aspettava da questo socialismo hard una via per la rinascita dei partiti di sinistra europei ha dovuto fare i conti con una sonora batosta. Rimane ora la solita, l’eterna domanda, di leniniana memoria: che fare?