Il finanziamento della jihad passa anche dall’Italia. Per l’ennesima volta, le indagini hanno consentito di mettere nero su bianco la realtà. Sono 10, infatti, le ordinanze di custodia cautelare, due in carcere e otto agli arresti domiciliari, emesse dal Gip de l’Aquila, Giuseppe Romano Gargarella, nei confronti di 2 italiani e otto tunisini e eseguite il 7 settembre 2019 dal Gico della Guardia di Finanza e dal Ros dei Carabinieri su disposizione della Dda del capoluogo abruzzese per reati tributari e di autoriciclaggio commessi al fine di finanziare il terrorismo. Sono stati, inoltre, sequestrati immobili e somme per un valore di circa 1 milione di euro.
Ma nuovi particolari sono emersi dopo l’esecuzione delle ordinanze nei confronti dei presunti componenti del gruppo di finanziatori della jihad.
L’indagine era stata avviata nell’estate 2015 grazie ad alcune delazioni fornite da due tunisini agli investigatori che avevano riferito in merito a una coppia di fratelli, Atef e Abdelghani Argoubi, che in numerose circostanze avevano esternato posizioni estremiste ed antioccidentali. In particolare Atef, imam della moschea “dar assalam” di Martinsicuro, in provincia di Teramo, era impegnato nel reclutamento e nel successivo processo di radicalizzazione all’islamismo di giovani musulmani frequentatori del luogo di preghiera al fine di prepararli ad un eventuale impegno nei teatri di guerra in Iraq e Siria.
Il flusso del finanziamento alla jihad
Ma le attività dei fratelli Argoubi non erano limitate alla sola diffusione del credo salafita. Nella cerchia delle loro frequentazioni, infatti, veniva individuato Jameleddine ben Brahim Kharroubi, 57enne imprenditore tunisino proprietario di diverse società intestate fittiziamente a prestanome. Le attività imprenditoriali erano state avviate allo scopo di finanziare i gruppi terroristici impegnati in Siria contro il regime di Bashar al Assad tramite la sottrazione di fondi dai bilanci societari, le manovre di autoriciclaggio e quelle idonee all’evasione fiscale che avvenivano con l’ausilio di una commercialista italiana di Roma. Il flusso dei finanziamenti veniva disposto a mezzo di vari passaggi intermedi che coinvolgevano Belgio, Inghilterra, Spagna, Germania e Turchia, per giungere, infine, nella disponibilità del gruppo terroristico “al Nusra”, affiliato ad al Qaeda in Siria.
Le transazioni avvenivano per lo più con il sistema “hawala”, un metodo fiduciario basato sull’attività di intermediari operanti nei Paesi emittenti e destinatari dei fondi da trasferire che non lascia tracce di movimentazione dei capitali. Anche alcuni imam estremisti operanti in Italia, ricevevano lauti finanziamenti per la loro attività di proselitismo, tra questi Gasri Yacine, ex imam di Aversa, condannato in via definitiva in data 12 dicembre 2017 alla pena di anni 4 e 9 mesi di reclusione, per associazione con finalità di terrorismo internazionale con sentenza pronunziata dalla Corte d’Assise d’Appello di Napoli e Said Ayub Salahdin, imam del centro culturale islamico di Bari “Rahma” emerso nell’ambito di un’attività d’indagine condotta dalla locale Procura della Repubblica, avente per oggetto un’associazione con finalità di terrorismo internazionale di matrice confessionale.
Da non sottovalutare il consistente bagaglio informativo acquisito dagli investigatori durante le operazioni di intercettazione tra gli indagati e la fitta rete di sostegno di cui godevano. Una ragnatela che si estende dall’Italia all’Europa fino in Medio Oriente. Emersi, inoltre, importanti particolari sulle “vie della jihad” verso le quali sono stati inviati i foreign fighter dal nostro Continente verso i teatri di guerra dell’ex Califfato e l’inquietante presenza di una cellula di tunisini dediti al confezionamento di manufatti esplosivi nella Striscia di Gaza da utilizzare contro le truppe israeliane a presidio dei confini con lo Stato ebraico.